di Sandro Moiso

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Viaggio che sembrava non dovesse finire mai

Viaggio che sembrava non dovesse finire mai.
Apparentemente senza meta e senza scopo (anche se in teoria avrei dovuto incontrare all’università di Saint Paul un professore, esperto di storia dell’emigrazione italiana in America, per la mia tesi).
Che sembrava tracciare sulla carta stradale degli Stati Uniti una sorta di ragnatela realizzata da un ragno in acido.

Da Chicago giù verso Nashville, Tennessee.
Poi dalla capitale della country music su, di nuovo, verso nord; ancora verso il confine canadese.
Minneapolis e la sua città gemella, Saint Paul (dove naturalmente non trovai il professore che, comunque, non cercai con troppa convinzione) nel Minnesota, per poi arrestarci a Ely sul margine del territorio dei diecimila laghi.

Lì per la prima volta incontrammo veramente la magia della wilderness americana.
Al di qua e al di là del confine canadese si estende una regione vastissima di laghi e boschi infiniti.
Non ci sono strade e il mezzo di collegamento più utilizzato, anche per le poche fattorie isolate e sparse sul territorio, è l’idrovolante con i galleggianti d’estate e i pattini d’inverno.
I laghi, presenti ovunque e di tutte le dimensioni, fungono infatti da piccoli aeroporti, laddove ve ne sia bisogno.

Dormimmo finalmente in un letto, dopo notti e notti passate a dormire sugli autobus o nelle stazioni della Greyhound o delle linee associate.
La locanda che ci potemmo permettere era degna di Lovecraft, soprattutto per i rumori che sembravano provenire dalle pareti quando spirava il vento del nord, ma la torta di carote era buona e il caffé abbondante. Ai viaggiatori basta poco per essere felici.

Per pochi dollari noleggiammo pilota e idrovolante per un volo su quei territori selvaggi.
Galleggiammo nell’aria, sopra corsi d’acqua e foreste aggrovigliate.
I nostri occhi volevano vedere tutto, la nostra mente memorizzare tutto quello spettacolo di grandiosa e infinita solitudine. Soltanto il momento della discesa ci lasciò perplessi quando il pilota spense il motore prima di scendere sulle acque del lago da cui eravamo partiti.

Planando con l’elica ferma, il pilota ci spiegò che la discesa doveva avvenire così perché, altrimenti, l’elica avrebbe sollevato troppa acqua nel momento in cui l’aereo l’avesse toccata, impedendogli quindi la necessaria visibilità. “Ok, Ok” mormorammo un po’ tesi. Poi il piccolo aereo a tre posti toccò l’acqua, il pilota riavviò il motore, l’elica riprese a girare e, dopo pochi minuti, io ed Ettore ci ritrovammo a essere di nuovo due normali bipedi di terra.

Immaginare di essere due aquile in volo, per un’ora, ci era costato venti dollari.
Anche nei momenti in cui, più tardi, dovemmo tirare la cinghia, senza poterci permettere più di un pasto al giorno, non li rimpiangemmo mai.
Come sempre preferimmo le rose al pane.
D’altra parte quella era l’età delle illusioni, dei sogni e di desideri più forti della fame.

Fu tipico di quell’epoca anteporre al bisogno il desiderio

Fu tipico di quell’epoca anteporre al bisogno il desiderio.
O, per lo meno, cercare di soddisfare nuovi bisogni, slegati dall’immediato della sopravvivenza.
Forse potevamo permettercelo o, forse, eravamo figli dell’abbondanza, ma le ricchezze materiali sembravano attrarci solo per il loro valore d’uso e non per l’investimento che ne sarebbe potuto derivare.

Desideravamo tutto ciò che fosse possibile, ma anche, e soprattutto, l’impossibile.
Scrivevamo sui muri “non lavoreremo mai”.
Sognavamo che ogni istante dovesse essere per forza di cose cosmico, assoluto, unico e irripetibile.
Bevevamo la vita in tutto il suo splendore e in tutta la sua pericolosità.
Eravamo inconsapevolmente pronti a morire e ad ammalarci per realizzare quel desiderio di totalità.

Lo pagammo duramente ed alcuni più di altri.
Eppure quell’essere macchine desideranti ci regalò una stagione di selvaggia felicità.
Eravamo vivi, ribelli, insaziabili e incontenibili.
I venti lugubri che cominciavano a soffiare, talvolta anche attraverso le azioni del movimento stesso, dovevano ancora dispiegarsi nella loro nefasta potenza.

Oggi è difficile desiderare in quel modo e non è solo un problema di età.
La proprietà, il lavoro, le famiglie, i profitti e le perdite ci hanno ricondotti nel mondo meschino dei bisogni. Mondo meschino quando si ammanta di necessità, quando questa necessità giustifica tutto, anche la nostra tristezza travestita da vita normale.
Così, mentre moriamo, facciamo finta di vivere.

La morte di Elvis avrebbe potuto essere un presagio di ciò che poi avvenne

La morte di Elvis avrebbe potuto essere un presagio di ciò che poi avvenne.
Ma non ce ne accorgemmo.
Presley morì il 16 agosto del 1977, mentre eravamo in viaggio verso Los Angeles.
Nella sua villa di Graceland, a Memphis, anche lui soffocato dal proprio vomito, come già era avvenuto a Hendrix, in seguito a una crisi da overdose.

Ma a differenza di Jimi, Elvis sembrava essere già morto prima.
La sua enorme casa, la sua bulimia, i suoi concerti per il pubblico adorante e danaroso di Las Vegas, avevano già anticipato la sua morte fisica.
La sua naturale sensualità era sfumata in atteggiamenti e ammiccamenti da latin lover di terz’ordine, che qui in Italia furono poi ripresi da Little Tony e Bobby Solo.

Non c’era più la sostanza.
Rimaneva l’artificio, il feticcio. Al posto del flusso vitale, l’immagine capovolta e imbellettata dello stesso.
Tutto ciò sarebbe precipitato chimicamente negli anni seguenti.
E il rock e l’estremismo si sarebbero rovesciati in qualcosa di diverso, stantio e canonizzato.

Qualche settimana dopo la morte di Elvis, a Bologna, si sarebbe aperto il convegno che avrebbe riunito tutti gli aspetti e le diverse frazioni del movimento.
Forse l’errore fu già nel definirlo convegno “contro la repressione” invece di pensarlo per la ricerca della felicità. I lacci di una sinistra lamentosa e vittimista intralciarono ancora una volta la naturale gaiezza ed esplosività della gioventù e della ribellione.

Indiani metropolitani, autonomi, futuri terroristi, femministe e mille altre componenti si incontrarono e si scontrarono nella città simbolo del “buon governo” comunista.
Ma gli strumenti più creativi, i giornali dadaisti e Radio Alice erano già scomparsi o moribondi.
Subentrarono così la noia, il politichese, il militantismo e le campagne d’arruolamento in questa o quella formazione, più o meno dura, più o meno armata.

La gioia può essere soffocata in mille modi e così pure la rivoluzione.
Per non sbagliare Charlie Chaplin morì il 25 dicembre di quell’anno.

Eppure la risata e lo sberleffo avevano costituito la cifra distintiva dei primi mesi di quell’anno

Eppure la risata e lo sberleffo avevano costituito la cifra distintiva dei primi mesi di quell’anno.
L’anarchica e liberatoria risata destinata a seppellire burocrati e capitalismo sembrava aver preso il sopravvento insieme alla ricerca della felicità, senza limiti e senza remore.
Era stato ciò a spaventare, inizialmente, più delle armi o degli slogan più truci.
Perché il riso corre spesso sulle labbra degli stolti, ma anche dei santi e dei pazzi.

Fummo un po’ tutto questo: illusi come gli stolti, limpidi come i santi e feroci come i pazzi.
Ma tutto si legava. Le nostre illusioni venivano dal sogno rivoluzionario che avevamo assorbito dalle generazioni precedenti, la nostra santità da Kerouac e dalla ricerca della vera felicità, la nostra pazzia dalla rabbia e dall’orrore per l’essenza di tutto quanto ci circondava ancora e dalla voglia di farla finita una volta per tutte con un mondo grigio e infelice.

Parafrasando Shakespeare si potrebbe dire che la nostra vita e la nostra rivolta erano fatte della sostanza dei sogni.
Ancor oggi qualcuno mi accusa di essere un sognatore, ma ogni sogno, prima di trasformarsi in incubo, è la cosa più reale e concreta con cui possiamo avere a che fare, a fronte di un mondo che spaccia l’apparenza e l’inganno come suprema forma di realtà.

Prima di trasformarsi in incubo, perché la paura del fallimento, la fissità dello sguardo, l’ostinazione per il risultato da raggiungere e quindi il tentativo di realizzare il sogno a ogni costo possono trasformarlo nel suo esatto contrario.
Cercare di dare un pienamente corpo ai sogni significa, spesso, perderne l’essenza e ritrovarsi tra le mani un amore svilito, un oggetto inutile e brutto o una rivoluzione che è solo violenza.

E’ successo e succede ancora.
Successe ai rivoluzionari russi che affermarono che il sogno era un loro dovere, soltanto per dar vita, poi, a una delle peggiori dittature della storia.
Succede a chi ama talmente da dimenticare che l’amore è adesso e subito, un sogno in sé che non deve essere “realizzato”.

Successe e quel treno carico di sogni iniziò a deragliare.

Come pietre che rotolano
(Seconda parte)

Agli Stati Uniti ci legava la ricerca della felicità

Agli Stati Uniti ci legava la ricerca della felicità.
I firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776 affermavano infatti:
Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità”.

Duecento anni dopo quella ricerca della felicità, di stampo illuministico, non si era ancora né conclusa né, tanto meno, realizzata.
E comunque quell’essere eguali e il poter godere del diritto alla vita e alla libertà ci parevano ancora proprio un bel sogno.
Il nostro mito americano si nutriva anche di questo.

Anche il passo successivo della stessa dichiarazione ci sembrava essere estremamente radicale nel suo intento di fondo: “che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”.

In quell’anno di rinascita dei movimenti, di libertà espressiva e di assalti alle armerie, i primi due emendamenti alla costituzione sembravano essere ancora estremamente attuali. Il primo, del 15 dicembre 1791, affermava che: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti”.

Il secondo, contestatissimo ancora oggi anche se stilato nel 1791, affermava invece che:
Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben ordinata milizia, il diritto dei cittadini di tenere e portare armi non potrà essere violato”.
Collegato al diritto del popolo a mutare o abolire ogni forma di governo poco consona al perseguimento della felicità comune, quell’emendamento sembrava essere quanto di più vicino agli slogan sui fucili in spalla agli operai che una nazione moderna avesse prodotto.

Libertà, Vita, Felicità e il diritto a difenderle anche con le armi: in quali altre dichiarazioni e costituzioni avremmo trovato altrettanto pane per i nostri denti affamati?
Non certo in tutte quelle costituzioni che, da quella staliniana del 1936 a quella ipotetica proposta per la Repubblica di Salò fino a quella italiana del 1948, sarebbero state incentrate sul lavoro.
Che Dio ce ne scampi! avremmo potuto urlare se fossimo stati credenti .

Felicità e Lavoro (specie se salariato) non potevano andare d’accordo e lo slogan “Non lavoreremo mai!” costituiva la nostra radicale risposta a chiunque affermasse che il lavoro rende liberi.
Liberi? Opponemmo il diritto all’ozio alla libertà dei lager e del gulag, delle officine, degli uffici e dei supermercati.
La vita passava sicuramente altrove e noi l’avremmo afferrata.

Ancora oggi, comunque, quando sento i perbenisti di sinistra disquisire sull’inopportunità della diffusione delle armi da fuoco per il pericolo che rappresentano, mi vien da sorridere.
In un paese dove il lavoro miete in media quattro vittime al giorno, il rischio rappresentato da quest’ultimo per la sicurezza, la salute e la vita umana mi sembra incomparabilmente superiore a quello legato invece alla diffusione delle prime. Amen.

(12-CONTINUA)