di Marilù Oliva
«C’è un ragazzo bolognese, Enrico Brizzi, già abbastanza vecchio da contare sulle dita di due mani i rifiuti da parte degli editori. C’è una maestosa storia d’amore e rock adolescenziale pronta per essere raccontata senza filtri. C’è una casa editrice indipendente,Transeuropa di Ancona, che decide di dare fiducia al ragazzo. Il ragazzo comprende, con un brivido tardivo, di essere capitato nella migliore casa editrice indipendente del Paese, già nota alle masse per le antologie Under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli e il folgorante esordio di Silvia Ballestra. […] Quando è ufficiale che la maestosa storia d’amore sta per diventare un libro vero, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, il ragazzo comincia a sentire il cuoio capelluto farsi elettrico per l’emozione. Immagina le pile del suo libro dentro le librerie che ha sempre frequentato, e rabbrividisce al pensiero che ad abbassarle contribuiscano solo amici e parenti stretti. Invece la prima edizione va esaurita in poche settimane, e così la seconda e la leggendaria terza edizione composta da 1500 pezzi unici, le copertine colorate a mano negli uffici Transeuropa.»
Partiamo dal caso Jack Frusciante. Hai dichiarato che il trionfo del tuo libro, assurto a caso letterario, è giunto completamente inaspettato. Hai individuato alcuni elementi fondanti perché un’opera riscuota successo?
Uno solo, come tu stessa accenni: il fatto che giunga inatteso.
So bene che scalano le classifiche di vendita anche e soprattutto opere costruite a tavolino per favorire l’immedesimazione di un determinato target di lettori, ma non è la mia idea di scrittura, né quella degli autori che stimo.
Scrivere con l’idea del successo fissa in testa, a disturbare tutte le frequenze del flusso narrativo, dev’essere una sorta di incubo.
Nel tuo sito, nella pagina della rassegna stampa su Jack Frusciante, si legge: «All’intervista di Enrico Arosio, che esce con il titolo ‘Salinger alla bolognese’, seguono decine di recensioni favorevoli, fra le quali si segnalano quelle dei più importanti quotidiani. Anche molti degli attuali detrattori giurati di Brizzi, nella stagione ’94-’95 si spellavano le mani dagli applausi. ‘Ma se l’ho scoperto io!’, sgomitavano.» In che rapporti sei con la critica?
Al successo semiplebiscitario del mio romanzo d’esordio è seguita una divisione netta fra detrattori e aficionados, che mi è costata qualche stroncatura e parecchia indifferenza fra il 2000 e il 2005; l’interesse dei critici professionisti si è risvegliato con i resoconti dei viaggi a piedi (Nessuno lo saprà e Il Pellegrino dalle braccia d’inchiostro) per manifestarsi di nuovo in forme pienamente incoraggianti con gli ultimi romanzi dedicati a Lorenzo Pellegrini e all’Italia del XX secolo.
“L’inattesa piega degli eventi” (Baldini Castoldi Dalai, 2008) si apre con gli affollatissimi funerali di Benito Mussolini e con un evidente anacronismo storico: siamo a Roma ed è il 5 maggio 1960. Il punto di partenza di questo romanzo è condensato nei sottotitoli successivi all’introduzione fantastorica: “Cosa sarebbe accaduto se l’Italia fascista avesse vinto la guerra? Un grande romanzo sulle eterne passioni degli Italiani: calcio, amori facili e autoritarismo”. Il concepimento dell’idea…
In buona parte la fascinazione per il periodo bellico arriva dai racconti recepiti in famiglia, in cortile, nei bar, accentuati e talora “deturnati” dal cinema, dai fumetti e dai giochi infantili – ai piccoli maschi piace anche combattere, c’è poco da fare.
Con lo sguardo dell’uomo adulto, mi turba pensare che nel nostro Paese la dittatura abbia a lungo goduto di ampio favore popolare; d’altronde mi pare che i germi dell’autoritarismo e, ancor più, del qualunquismo siano sempre presenti nella società italiana.
Detto questo, per scrivere una storia diversa dalla Storia che tutti conoscono, è indispensabile una vasta documentazione: sono entrato in librerie che non avrei mai pensato di frequentare, ho colmato alcune ignoranze mie semimacroscopiche, e ho scoperto parecchie cose interessanti anche dal punto di vista dei lettori, almeno a giudicare dalle lettere ricevute nelle ultime settimane.
Le sopracitate tre eterne passioni degli Italiani: calcio, amori facili e autoritarismo, sono sempreverdi? Ce n’è una alla quale neppure tu sei insensibile?
Sì, l’unica che si può ammettere in pubblico.
Le altre due, in ogni caso, sono adatte rispettivamente per i ventenni estroversi e per i biechi reazionari.
Come narratore amo l’epica corale e transnazionale del calcio, soprattutto quello a cavallo fra dilettantismo e professionalizzazione.
Nella vita reale ho dato più di un calcio al pallone come tutti i maschi italiani (va detto che i miei erano particolarmente mal assestati), e tifo stoicamente per la squadra della mia città, il Bologna Fc 1909. Amo ricordare che la sua maglia è ad ampie strisce verticali rossoblu (tre rosse e due blu, fate conto), e in bacheca può vantare sette scudetti, coppe italia e mitropa a profusione. In questa stagione sta festeggiando il suo centenario, che mi ha visto coinvolto nel volume collettivo 10 scrittori per 100 anni, e nella manifestazione in piazza organizzata dalla Curva Bulgarelli per scongiurare l’avvicinamento fra i vertici del club e Luciano Moggi.
La nostra guerra (Baldini Castoldi Dalai, 2009) è il secondo volume della saga di Lorenzo Pellegrini, nonché tuo ultimo romanzo, prequel de L’inattesa piega degli eventi: la storia si svolge nel periodo dal 1942 al 1945, fra gli undici ai quattordici anni di Lorenzo. La vita quotidiana, la famiglia, l’amore e gli inciampi di ogni giorno sono incupiti dallo sfondo di una società in cui il totalitarismo si esprime, tra le altre cose, con il controllo assoluto sui mezzi di comunicazione. Ti chiedo di fare un parallelismo con la situazione di oggi. I mass media, in Italia, subiscono qualche forma di controllo? Se sì, come ci si potrebbe mobilitare per usufruire di un’informazione seria?
Le principali mobilitazioni non sponsorizzate che ricordo sono le manifestazioni di piazza all’epoca di Tangentopoli e delle stragi di mafia, la crescita spontanea dell’Ulivo, Genova 2001, i girotondi e l’onda viola.
In vent’anni è un po’ poco per permettersi ottimismo sulla nostra società.
La letteratura può costituire un piccolo tassello nella formazione della memoria collettiva?
Contando che la televisione di Stato ha rinunciato a farlo dopo tanti anni, e che il cinema sa produrre di rado capolavori come Il vento fa il suo giro, spero che la narrativa possa dare il suo diagonale contributo.
Dio salvi Bologna è un progetto musicale, «un’invettiva e un atto d’amore per una città che sta vivendo un momento doloroso e irripetibile: la fine delle proprie illusioni». I testi sono ispirati al tuo libro La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco (Laterza, 2009) e all’attuale situazione cittadina. (a partire dallo scandalo che ha coinvolto il sindaco Flavio Delbono). Ce ne parli?
Si tratta della collaborazione musicale con una band di amici bolognesi, Yu Guerra, dettata dallo sconcerto per quello che la nostra città – destinata a restare senza sindaco ancora a lungo – si trova a vivere. Siamo appena partiti: oltre a suonare dal vivo il nostro spettacolo Dio salvi Bologna, abbiamo presentato anche l’omonimo cd singolo, apripista dell’intero album che uscirà in autunno, dopo la lunga marcia.
Previsioni su una città ora decapitata?
Bologna, nelle pagine più alte della propria Storia, si è sempre salvata da sé; è chiamata a farlo anche stavolta, e per questo è necessario che il desiderio di riscatto si faccia più forte dell’autocompiacimento.
Ci saluti con una citazione musicale?
Vi saluterò con il ritornello nuovo di zecca di Rialzati, Bologna, lato B del singolo: “Di chi si è battuto per il tuo futuro ci sono le foto di fianco al Nettuno. Di ladri, bugiardi, furbetti e maiali ci sono le foto su tutti i giornali”.