di Valerio Evangelisti
David Ely, L’anno dell’inondazione, trad. di Francesco Francis, ed. Cargo, Napoli, 2010, pp. 274, € 18,50.
Uno dei più straordinari romanzi di fantascienza che io abbia mai letto è uscito in originale nel 1992, ma, ristampato di recente nel mondo anglosassone, giunge in Italia solo ora. Difficile procurarsi notizie dettagliate sull’autore, David Ely (David Eli Lilienthal jr.), nato a Chicago, oggi ultraottantenne. Giornalista, militante per i diritti civili, autore di qualche romanzo e di numerosi racconti. Dal suo Seconds fu tratto nel 1966 il notissimo film Operazione diabolica di John Frankenheimer. Se il tempo gli renderà giustizia, sarà ricordato soprattutto per L’anno dell’inondazione.
Siamo in un futuro imprecisato, né troppo vicino né troppo lontano. Gli Stati Uniti hanno ampliato di un terzo il loro territorio con la costruzione della Barriera, una diga titanica che si estende dal Canada alla Florida e tiene a bada l’Atlantico. La superficie strappata all’oceano ospita città e coltivazioni.
Un ingegnere, William Fowke, si accorge che dalla diga filtra acqua salata, e che l’intero, mostruoso manufatto è destinato prima o poi a crollare, con conseguenze tragiche. Cerca di mettere in guardia i superiori, ma così facendo si scontra con un sistema di raffinata ottusità. Gli Stati Uniti del futuro non sono né una dittatura né una democrazia. Li regge un potere impersonale che, per evitare conflitti, ha messo al bando i rapporti umani, fisici ed emotivi. E’ vietato toccarsi (più per introiezione che per costrizione), coltivare relazioni troppo empatiche. I bambini nascono in provetta e subito sono allontanati dai genitori, il piacere sessuale è garantito da macchine simulatrici, la giovinezza è protratta oltre l’età naturale da interventi artificiali. E’ una forma di esistere basata sull’immobilismo e su una serie di regole (quasi) unanimemente accettate, ordinata da congegni che, in teoria, non possono sbagliare.
La denuncia di Fowke sul pericolo che sovrasta la Barriera giunge ad autorità che nemmeno riescono a concepire che il sistema abbia una falla; e quanto più lui cerca di scalare, con il suo avvertimento, la gerarchia del potere, tanto meno trova interlocutori capaci di prestargli ascolto. In alto c’è il vuoto, esattamente come in basso. Finisce che Fowke, con la sua insistenza, si rende sospetto e passa, contro ogni sua intenzione, per un fastidioso perturbatore. Conosce così, l’uno dopo l’altro, tutti i gradi dell’emarginazione, in una società che non prevede pena di morte né prigioni propriamente dette. Restando sempre aggrappato ai valori borderline universalmente condivisi. Finché…
…finché non scatta la solita storia d’amore, penseranno alcuni. Invece è una storia d’amore, sì, ma non la solita. Anzi. E il lieto fine non è per nulla assicurato.
All’inizio si è un po’ smarriti, tale è il tasso di invenzioni (alcune inedite, altre meno) che Ely inietta nel suo romanzo. Ci si trova in un mondo assurdo, dalle regole sfuggenti, pieno di robot dai nomi animali — felidi, muridi, ursidi, ecc. — che l’autore si guarda dal descrivere in dettaglio. Eppure, dopo poche pagine, quell’universo ci diventa familiare, così come il potere acefalo che lo governa. Da quel momento la suspense non ha limiti, anche grazie alla credibilità psicologica di Fowke e dei comprimari, sia pure solo intravisti.
La quarta di copertina fa riferimento a Orwell e a Ballard. Sarei più per il secondo (ma Ely, a mio giudizio, scrive molto meglio di Ballard), e potrei aggiungere altri autori, come Robert Silverberg (o, precedente più nobile ancora, Franz Kafka), che hanno trattato il tema della spersonalizzazione . L’originalità di Ely, quella che conferisce al suo romanzo una struggente forza poetica, sta però nell’avere eletto a protagonista autentica la Barriera: costruzione magnifica e orribile al tempo stesso, ipnotico crinale tra la furia dell’oceano e una vita artefatta che, nel gorgo di una futura catastrofe inevitabile, merita solo di essere sommersa e cancellata.