di Filippo Casaccia
“Sono diventato santanofilo perché molti anni fa ho letto un rapporto dell’FBI che prendeva in esame un migliaio di radicali degli anni ’70 e tra le coincidenze risultava un 13% di appassionati alla musica del maestro di Autlàn”.
Paco Ignacio Taibo II, La bicicletta di Leonardo
Il verdetto di Bombo fu una scomunica.
Quando ero ancora alle medie, Bombo occupava il liceo dove adesso mi trovavo io.
Una volta entrò tranquillamente in classe col motorino.
E la sua classe era al quarto piano.
Durante un’occupazione fece il surf giù per le scale della scuola su una cattedra rovesciata.
Sempre dal quarto piano.
Adesso io ero in terza liceo e lui ancora in quinta, con due bocciature sulla schiena e il rischio del servizio militare molto pressante. Ma il Comandante Bombo — con la barbetta rada, a tocchetti, come i barbudos cubani — era il leader degli studenti medi e in questo liceo borghese, lui, con la sua maglietta “Apartheid? Incazzati neri!” era il mio faro.
E il suo verdetto era stato ferale e inappellabile: Santana era un agente della CIA.
Punto.
Aveva già stroncato tutte le mie passioni musicali.
Perché il generoso, irruento, irsuto Bombo non aveva esitazioni. Il suo ruolo gli imponeva fermezza e certezza. E Battisti era un fascista: lo sapevano tutti che — lui, taccagnissimo, figurarsi — finanziasse Ordine Nuovo. Mentre Battiato non sopportava i cori russi e neanche la nera africana, per cui non era proprio da discutere da che parte pendesse. Ma che la mia acerba passione per il chitarrista messicano fosse stroncata così, non mi andava giù. Allora gli chiesi cosa pensasse degli Area e Bombo mi guardò come se lo stessi interrogando in trigonometria. Balbettò e allora capì che almeno di musica non sapeva una mazza e parlava per luoghi comuni. E io ho ripreso ad ascoltar Santana senza sensi di colpa.
Se siete nati come me alla fine degli anni Sessanta, avrete anche voi sofferto ogni volta che si parlava di rock con uno cresciuto tra il ’68 e il ’77. Sentenze e giudizi apodittici che lasciavano spiazzati. La musica, come l’avevano vissuta loro, era un’esperienza totale e viscerale e in mancanza del sovraffollamento informativo che ci circonda oggi, le opinioni si formavano su notizie incontrollate e inverificabili.
Una conversione religiosa faceva presagire rincoglionimento senile e di conseguenza appannamento artistico; una svolta verso sonorità diverse, magari pop, era un alto tradimento per accattivarsi il pubblico; l’inusitato successo di un brano significava essersi venduti, al di là delle intenzioni.
Carlos Santana si rese colpevole in breve tempo di tutte e tre le cose e la sua conseguente definizione di “servo della CIA”, a un epocale concerto del ’77 finito a schifìo al Vigorelli di Milano, è sempre stata la corona di spine che m’ha fatto sanguinare el corazon.
Perché anche se non lo abbiamo mai saputo, noi e lui, Santana è stato ed è un compañero.
Ha provato pure a negarlo affermando che “dividere le risorse tra la gente non è comunismo”, il magnifico finto ingenuo che ha rifiutato due volte di suonare in eventi organizzati da Clinton e ha spernacchiato pure il presidente messicano Ernesto Zedillo, mandandogli a dire: “Non ho visto alcun progresso nei confronti dei diritti civili degli indiani del Chiapas e finché non si muove, non posso provare alcuna affinità con lui”. Certo, può risultare comodo parlare della Selva Lacandona dalle colline di San Francisco. Come presentarsi alla premiazione degli Oscar con una maglietta con l’effigie dorata del Che. Ma qui entra in gioco — oltre alla confusione ideologica — anche il pessimo gusto sartoriale.
Carlos è in giro da più di quarant’anni e ha sempre parlato pochissimo di politica, agendo semmai sulla vita delle persone con la sua musica.
La sua carriera è stata una parabola umana di successo e d’infortuni. Di decisioni imperiose ed egoiste, come di concessioni generose. Ha avuto fortune commerciali incommensurabili e periodi di dimenticatoio umilianti, quando era visto come il pagliaccetto dei buoni sentimenti, ancora legato all’epoca di Woodstock, coi capelli lunghi sotto la bandana a nascondere la pelata e la canottiera sulla complessione da pollo, mentre tutti gli altri stronzetti suonavano con la giacca di Armani, trombavano modelle e sniffavano dune di coca.
Lui era il brutto anatroccolo, quello di cui non si poteva parlare male, però, ecco, nel gotha del rock, no. Lì ci va chi parla coi presidenti, chi si agita sui giornali quando ha il sussulto di coscienza e poi, la settimana dopo il Live Aid di turno, torna lo stesso prepotente pezzo di merda di prima, col catalogo di dischi che vende di nuovo e vaffanculo quei morti di fame degli etiopi.
L’impegno per Amnesty International, Save the Children, Greenpeace, Médecin Sans Frontieres o per la lotta all’Aids in Sud Africa, non gli hanno mai guadagnato le headlines. Ma lo si poteva intuire: Carlos ha parlato al mondo con l’innocenza di uno hippie senza tante menate. E ha raggiunto tutti, intellettuali un po’ vergognosi che poi ballavano sbracati, così come proletari che dopo la sudata in pista cominciavano a farsi qualche domanda. Perché la musica dei Santana (fino alla fine dei Settanta) e di Santana poi, raggiunge tutti, senza distinzioni di sesso, censo, razza e religione: non è razionale, è sensuale, comprensibile col corpo; e trasmette un messaggio, subliminale ma evidentissimo, di ansia di riscatto e realizzazione, orgogliosa e pacifica.
“I poveri del mondo mi amano perché si identificano: sono uno di loro che ce l’ha fatta”.
Carlos realizza il sogno americano senza crederci per nulla. E senza credere in mañana. Ha fatto di testa sua, commettendo diversi suicidi in carriera, consapevole e ben felice di andare fino in fondo alle sue scelte, contro tutte le convenzioni dell’establishment del business americano. Per poi vendere 30 milioni di dischi nel 2000, nel momento in cui diventava difficilissimo piazzarne ancora uno.
Ma come ha fatto?
È stato indomito messaggero di pace, di buone vibrazioni da scoppiatone, di astruse teorie cosmologiche come di un sincretismo religioso degno di un predicatore da tivù privata. Era obiettivamente difficile farne una rockstar, specie osservandone l’abbigliamento a dir poco ributtante, recentemente aggiornato da camicione affollate di facce dei suoi idoli e battute in cafonaggine solo da quelle del colonnello Gheddafi.
E poi era brutto, Carlos. Brutto forte. Jim era bello (e basta), Janis era bella nella sua ribellione, Jimi bellissimo nella sua genialità. Carlos solo un brutto anatroccolo, neppure morto giovane, che — senza grandi doti compositive, ma una visione sì — ha saputo inventare, se esiste, la world music vent’anni prima che diventasse il luogo comune degli yuppies con il lettore Cd sulla Volvo station wagon. Nei suoi dischi trovavi e ancora trovi tensione spirituale e carnale, sabba ritmico e melodia che trasuda melassa, porcate caraibiche da villaggio turistico e fughe jazz lontanissime dal pubblico, in un arco parlamentare che va da Santa Esmeralda ai Weather Report. Un po’ come nell’artwork degli Lp, splendidi pasticci zeppi di cultura terzomondista, latina e africana, culti e culture diversi da quelle che il mercato anglosassone ci impone quotidianamente.
Rappresentante emblematico della cultura popolare di massa, nel suo caso veicolata sì dall’industria ma ricca di insospettabili caratteristiche di originalità e indipendenza dallo showbiz, Carlito è morto e risorto più volte ed è l’unico artista entrato nella Top Ten di Billboard per 5 decadi.
E io son sicuro che farà il botto anche dopo il 2010, chiaramente senza rendersene conto, ma proponendo ancora una volta la micidiale formula: corazon y cojones.
Carlos Santana nasce ad Autlan de Jalisco il 20 luglio 1947, quarto del Settebello del prolifico padre musicista mariachi. La tribù cresce con grandi difficoltà economiche ma dignitosamente e presto raggiunge il capofamiglia a Tijuana, la capitale messicana del vizio che offre ai gringos e ai militari della base di San Diego deboscio a volontà appena oltrepassata la frontiera: droga, alcol, prostituzione e un occhio di riguardo per chi porta bei dollaroni fruscianti.
La musica di papà è una rottura e compiacere i danarosi prepotenti che calano da nord è un’umiliazione, ma qualcosa bisogna pur fare per vivere. Il giovin Santana segue le orme paterne suonando il violino, esperienza che gli lascerà piaghe alle dita ma anche il gusto per le note sostenute e il controllo dell’intonazione. Ma quando la radio comincia a trasmettere rock’n’roll e blues, Carlos mette via il tradizionale charro, imbraccia una chitarra economica e diventa un pachuco, uno di quelli che — con le ovvie differenze – da noi chiamano teddy boy. Dalle strade passa a suonare nei locali, tra uno spogliarello e un rissone, ma quando ormai si mantiene e vive indipendentemente, nel 1963 i Santana decidono il grande passo e si trasferiscono a San Francisco. Lui ci viene portato controvoglia, torna indietro, ci ripensa, infine accetta e riparte daccapo: da musicista avviato torna al liceo con una lingua da imparare.
Ma la musica è un richiamo troppo forte: Carlos sopravvive pelando patate e lavando piatti, ma ha messo su anche una originale blues band che suona anche qualcosa di Tito Puente e dove svisa una chitarra diversa dai cliché tipici dell’epoca. A differenza di chi tracopia senza invenzioni lo stile blues, lui aggiunge un innato senso della melodia e del ritmo e il gusto dell’abbellimento e dell’improvvisazione, arricchendo con fioriture, glissandi, bending, acciaccature, mordenti, tremoli e trilli. Il piccolo latino bazzica il Fillmore di Bill Graham e conosce diversi musicisti per i quali apre i concerti. Gente come Creedence Clearwater Revival, Janis Joplin con i Big Brother, Jefferson Airplane e Grateful Dead. C’è poi Mike Bloomfield, della Paul Butterfield Blues Band, il cui album East West è uno dei primi testi sacri della contaminazione. Mike diventa amico di Carlos. È di ricca famiglia ebrea di Chicago, ma ha sempre preferito i localacci neri del Southside della città. Diventerà uno dei pochi autentici bluesman bianchi, divorato dall’angoscia, dalle droghe e pure dall’insonnia. E sarà per questo motivo che Carlos esordirà su un disco, proprio per sostituire Mike nel celeberrimo The Live Adventures of Mike Bloomfield & Al Kooper, nel settembre 1968. Anno cruciale per il nostro eroe, che finisce pure in ospedale per una brutta tubercolosi. Vedendo i vicini di stanza morire come mosche, Carlos piazza il fugone e si riunisce agli orfani compagni di band per cominciare le registrazioni del primo album. Fondamentale nella vicenda è Bill Graham, il promoter che con le sue ballroom arricchite da light show rende San Francisco la capitale del rock dell’epoca, portando sullo stesso palco artisti gggiovani assieme a bluesmen come Albert e BB King, jazzisti come Miles Davis e voci soul come Aretha Franklyn o James Brown.
Bill Graham ha uno spiccato senso degli affari e ha capito che quel mingherlino ricciolone – che con una scusa o l’altra riesce sempre a entrare gratis nei suoi locali per poi finire a jammare con gli artisti — ha qualcosa da dire. E da vendere: a Bill la musica latina piace e trovare qualcuno che la suoni in un contesto rock potrebbe essere l’idea vincente. Perché le ragazze la ballano quella musica, oh yeah.
E poi quel pulcino messicano gli ricorda qualcosa della sua storia di immigrato. Infatti Bill si chiama realmente Wolfgang Grajonca. È un ebreo nato a Berlino nel 1931 e, orfano di padre, è cresciuto in un orfanotrofio. Durante l’ascesa del nazismo ha la fortuna di essere scambiato con degli orfani cattolici: arriva in Francia, da cui muoverà verso gli USA subito dopo la sconfitta coi tedeschi del 1940. Una delle sue sorelle morirà in viaggio. La madre invece finirà ad Auschwitz con un’altra sorella, che le sopravvive. Un’altra ancora fugge dalla Germania in Cina e poi si ricongiungerà al fratello solo a San Francisco, città raggiunta da Bill dopo aver studiato a New York e combattuto nella guerra di Corea. Nella città della Summer of Love Bill fa la carriera che sappiamo, ma vorrebbe anche diventare manager. E la Santana Blues Band diventata semplicemente Santana fa al caso suo.
Formata da ragazzi ventenni middle e lower class, bianchi, neri e latini, la band suona una combinazione irresistibile di ritmi, propulsa da un attacco micidiale di conga e timbales. I leader sono Carlos, chiaramente, e Gregg Rolie, organista palliduccio di buona famiglia, voce calda e gran groove. Assieme ascoltano gli hippies che suonano le percussioni all’Aquatic Park di Frisco. Bingo: mettiamole su un impianto rock e il gioco è fatto: una miscela trascinante a cui non puoi sottrarti, ma nobilitata da influenze jazz e blues, e se Rolie lavora di accordi, Carlos fa cantare la sua Gibson SG.
Graham procura un’audizione con l’Atlantic dove quel genio di Carlito suona apposta male — facendo imbestialire tutti — perché lui vuole finire alla CBS, l’etichetta di Bob Dylan e Miles Davis. Il testone ci riesce: lo assolda quel Clive Davis che sarà fondamentale anche trent’anni dopo, ma le registrazioni vanno a rilento e non si riesce a mettere su nastro la carica espressa dal vivo, tanto che si decide per una incisione live nel mese di dicembre 1968, ovviamente al Fillmore. Verrà pubblicata decenni dopo e dimostra che la potenza di fuoco dei Santana c’era già tutta. Mancava semmai un po’ di continenza: la durata media dei brani è altissima e culmina nella monumentale Freeway Jam che raggiunge i 30 minuti di splendido cazzeggio. In my per niente humble opionion, una goduria, ma per l’utente medio è come una bocconata di talco, velluto e chiodi. E su disco, questa roba non ce la vuol mettere nessuno.
Si torna scornati in studio con le idee più chiare. Le jam si fanno dal vivo, su disco si incidono dei brani e dal suono un po’ anemico del gennaio si passa a quello robusto del maggio. Bill Graham caldeggia l’incisione di un rhythm and blues piacione e latineggiante, Evil Ways e la band accetta il consiglio con qualche riluttanza. Intanto è arrivato un nuovo batterista innamorato del jazz, Michael Shrieve, neanche ventenne, praticamente rapito dai genitori e piazzato subito a casa di Carlos, a Bernal Heights. La sezione ritmica la completano i latinos Mike Carabello alle congas, José Chepito Areas ai timbales e il nero David Brown al basso.
L’album viene registrato in 3 settimane e uscirà a fine estate, arrivando da noi sotto l’albero di Natale. Più o meno come il sottoscritto. Mio padre, forse, si sarebbe accontentato semplicemente del disco che in effetti è splendido: si parte con il ritmo afrocubano guaguanco (l’ho letto, figuratevi se so cosa sia) con basso e conga. Una voce incita SAVOR!: nasce un sound e comincia il party. C’è il furore tribale di Waiting, Jingo e Soul Sacrifice, il jazz languido di Treat, l’hard rock di Just Don’t Care e Persuasion, il pezzo da sala da ballo che è Evil Ways. L’incisione è cruda e nitidissima e viene fuori il clamoroso lavoro ritmico, anche di chitarra e organo: pochi soli ma efficaci e ficcanti. Piuttosto grande dinamica e cambi d’atmosfera: se ascoltate questa roba e non ballate, siete chiaramente posseduti da Sandro Bondi. Affiorano influenze, non proprio ovvie, come la chitarra zingara di Gabor Szabo, le poliritmie di Chico Hamilton o il soul jazz tastieristico di Les McCann e Jimmy Smith. Non c’è invece psichedelia, se non nella copertina disegnata da Lee Conklin che mescola un volto di leone con una donna nera nuda e altri volti, una sorta di Arcimboldi sotto acido lisergico, innamorato della magia e dell’Africa.
“Rolling Stone definì la nostra musica Mariachi Psychedelic Rock, perché sono messicano per cui faccio musica mariachi. Sbagliato, cari. Io suono musica africana”. E mezzo milione di persone lo avrebbe scoperto in un prato fangoso poco prima del debutto discografico.
(Continua — 1)
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