di Tommaso De Lorenzis
Dal furgone blindato che lo sta traducendo nel penitenziario di Brécourt, Malik El Djebena osserva le strade di Francia. Sembra l’ovvio tributo alle storie d’ambientazione carceraria. Che il detenuto assapori scorci di libertà così da ricordare il senso della perdita. Eppure, non c’è nulla di desiderabile in quello che si vede oltre le sbarre. Casermoni di periferia scorrono come grigio fiume di cemento. Ragazzini annoiati languono in una piazzetta. Un fiotto d’acqua sgorga da un’anonima fontana. Né desideri né rimpianti increspano il viso di Malik. Poi compare una bandiera francese. Penzola da un’asta, incapace di garrire in una giornata senza vento. Per un istante la prospettiva sembra rovesciarsi ed è il tricolore della Repubblica ad apparire prigioniero, nella fissità d’un tempo divenuto un’“ora d’aria” senza fine.
Il referto autoptico della società transalpina, impresso da Jacques Audiard nella celluloide de Il Profeta, è già condensato in questi fotogrammi. Il regista non ha fatto mistero delle proprie intenzioni, affermando come, «in un attimo, il dentro e il fuori del carcere diventano la stessa cosa». Non è possibile dargli torto, visto che per uno come Malik — arabo diciannovenne cresciuto nella banlieue e membro di quell’umanità che Nicolas Sarkozy definì la racaille — «fuori» vuol dire un destino di analfabetismo, emarginazione e miseria. Colto nel punto di crisi dei suoi meccanismi inclusivi, il welfare francese si riserva un’unica “eccellenza”: il sistema carcerario. Solo in galera il reietto ottiene l’accesso a un’istruzione efficace e a un decoroso avviamento professionale, insieme a un benefit per nulla trascurabile: alla possibilità di trasformarsi da delinquente senza futuro in astuto assassino e in gangster di prim’ordine. Alla faccia di qualsiasi funzione riabilitativa della pena. E a dispetto di quella produzione di «corpi docili» di cui aveva scritto monsieur Foucault nelle pagine di Sorvegliare e punire.
Figlio del celebre Michel, mostro sacro della cinematografia transalpina, Audiard si è sempre sporcato le mani con le tinte della crime story per portare sul grande schermo le avventure di travagliati anti-eroi. Con Il Profeta ha sovvertito i canoni del genere, svelando il recondito significato d’una realtà invertita e irredimibile. Questa maestria narrativa, combinata alla straordinaria interpretazione del giovane Tahar Rahim, gli è valsa il premio Grand Prix all’ultima edizione del Festival di Cannes e la nomination come miglior film straniero all’Oscar 2010. Tra le mani del regista parigino il prison movie si libera dei suoi più remoti miti di riscatto, quelli dell’evasione e della libertà, per edificarne di nuovi. Roba da far impazzire il Don Siegel di Escape from Alcatraz. E da mandare in bestia uno come Eddie Bunker che di cinema, galera e violazioni della libertà vigilata se ne intendeva. Per sei anni di detenzione e 149 minuti di pellicola, Malik non si pone mai il problema della fuga, consapevole che l’unica chance ce l’ha tra le mura del penitenziario, al termine d’un brutale apprendistato all’Accademia della sofferenza e del delitto.
Qualcosa di simile era capitato a Edmond Dantès nelle segrete dello Château d’If. In questo caso, però, al posto dell’abate Faria ci sono i Signori della gattabuia. Da un lato, la temibile malavita còrsa. Dall’altro, les arabes, gli eterni parvenu del crimine che sono in maggioranza, sì, ma continuano a «pensare con l’uccello». Tra i due clan rivali si muove Malik, in una posizione che ricorda la massima leoniana di Per un pugno di dollari: «I Baxter da una parte, i Rojo dall’altra, e io nel mezzo». Il ragazzo apprende da entrambe le scuole, fedele alla prescrizione coranica della novantaseiesima sura. «Leggi! In nome del tuo Signore» raccomanda l’Arcangelo all’analfabeta Maometto nel mese di Ramadan. Così farà Malik, guadagnando la conoscenza della lingua. Anzi: delle lingue, poiché il carcere è una Babele in cui i suoni gutturali dell’arabo si mischiano alle sillabe arrotate del francese, prima di trasmutare nel minaccioso bisbiglio del dialetto còrso. E qui Audiard ricorre a un must delle narrazioni criminali, al conflitto — antico quanto il noir — tra nuove leve e vecchia guardia. I rovesci di questo motivo condensano la storia di Francia dai giorni in cui, dopo la seconda guerra mondiale, i fratelli Zemour sbarcarono sul continente decisi a fare di Parigi cosa loro. La crime story ha impiegato questa chiave per raccontare la fine dell’età coloniale e i sommovimenti sociali legati all’indipendenza dell’Algeria. Per tre decenni, la mala africana diede l’assalto al milieu della Ville Lumière estendendo il suo dominio sul giro dell’azzardo e della prostituzione. E così fu guerra, feroce e senza scrupoli, tra i nuovi arrivati e la “durocrazia” d’antan: còrsa, lionese o siciliana. Su quest’Iliade marginale, che riflette indicibili pulsioni razzistiche e occulta inconfessabili interessi economici, nacque la leggenda del romanticismo nero, il mito di quei fuorilegge crepuscolari di cui scrissero Auguste Le Breton, Albert Simonin e José Giovanni. Poi ci pensarono Jean-Pierre Melville e Jules Dassin a trasferire le storie dei grisbì e dei rififì nei cinematografi, mentre Jean Gabin, Lino Ventura e Alain Delon portarono in dote l’impassibilità di grinte scolpite nel granito. Da lì in avanti la figura del «negro bastardo», reo di aver violato il codice non scritto della strada, diventerà cliché.
Il Profeta non si sottrae al canone, ma lo aggiorna, offrendone una versione tagliente come lama di rasoio. I tempi sono cambiati. E sono cambiati pure i còrsi e gli arabi. Delle bische clandestine e degli alberghi equivoci non rimane traccia. Gli anni Ottanta hanno seppellito, sotto massicce dosi di piombo, la stagione dei fratelli Zemour e di Marcel Francisci, il caid isolano soprannominato “le Grand Marcel”. Adesso la grana galleggia su fiumi di droga che confluiscono nelle periferie popolate dai maghrebini. C’è un mercato da controllare. Ma c’è pure la chiorma còrsa con i suoi variegati interessi, di cui Audiard documenta la vicinanza alle frange più radicali del movimento indipendentista. E proprio contro questi ambigui legami, il 30 ottobre 2003, aveva tuonato l’allora Ministro dell’Interno Sarkozy, manifestando l’intenzione di «neutralizzare la deriva mafiosa del nazionalismo còrso». Insomma la situazione è confusa: dunque eccellente per chi è in grado di muoversi con lucidità nel pieno della bagarre, in attesa di un riscatto che ha il sapore della vendetta. Perché — prima o poi — l’allievo supera il maestro. E perché il Crimine è grande e Malik El Djebena è il suo profeta.