di Sandro Moiso
Qui le puntate precedenti
A nord, sempre più a nord
A nord, sempre più a nord.
Quell’abbonamento mensile, pagato 220 dollari per gli autobus della Greyhound e delle compagnie associate, doveva essere usato. Via verso Buffalo e le cascate del Niagara e poi Toronto e il Canada. Seguimmo il corso del fiume San Lorenzo, verso le sue foci.
Sognavamo di arrivare sui banchi di Terra Nova, attraversammo la Rivière du Loup, ma ci fermammo poi a Trois Pistoles.
Una località sperduta lungo le rive del grande fiume risalito nel 1500 da audaci esploratori francesi.
Ma con un nome che ci affascinava, anche se non avemmo il tempo di capirne l’origine.
In tenda faceva freddo e qualche mattino dopo abbandonammo il campeggio per attraversare il fiume in uno dei suoi punti di massima larghezza.
Il ferry boat ci fece attraversare quei trenta chilometri con un viaggio che durò ore e che aveva per destinazione Les Escoumins.
Sulla spiaggia da cui eravamo partiti migliaia di gabbiani e di altri uccelli di terra e di mare si disputavano, all’alba e tra grida stridule, i detriti e le carogne lasciate dal riflusso della marea che si spingeva dall’Atlantico fino a quel punto del fiume.
Al nostro arrivo sull’altra sponda la nebbia nascose fino all’ultimo l’origine di un fracasso infernale.
Erano migliaia di tronchi che precipitavano da lunghissimi scivoli nelle acque del San Lorenzo.
Lì sarebbero stati incolonnati per esser trasportati verso il porto fluviale della città di Québec.
Chiatte e boscaioli, degni eredi di Paul Bunyan, ne sarebbero stati i conduttori.
Eppure quella autentica distruzione della natura aveva in sé qualcosa di magico e di mitico, finendo con l’affascinare il nostro sguardo.
Così con un nuovo autobus li seguimmo verso la loro stessa destinazione.
Ma non ci fermammo lì.
Ormai la direzione era invertita e cominciammo a scendere verso Sud, verso Montreal, i Grandi laghi e Chicago, la città del vento.
Oltre che delle grandi industrie, dei macelli, del blues, dei grandi traffici del proibizionismo e dei gangster dei primi decenni del novecento.
Ci accontentammo di rubare prosciutto, maionese e latte al cioccolato in un supermercato, per poi consumare il nostro pasto sulle rive di quei laghi dalle acque grigie e fredde.
Quest’abitudine al furto, residuo degli espropri proletari di quegli anni, avrebbe poi condotto Ettore nelle galere di Oakland, ma quella (con l’aggiunta talvolta di qualche banana) costituì la nostra dieta per tutto il mese passato a vagabondare in autobus, coast to coast.
Feedback
Feedback. Ovvero ritorno del segnale di uscita oppure effetto retroattivo di un messaggio o di un’azione su chi lo ha emesso o prodotto oppure, ancora, effetto di controreazione di un fenomeno.
Fin qui le definizioni offerte dai dizionari della lingua italiana.
La nostra mente opera in un processo continuo di feedback, in cui il presente si misura continuamente con le azioni e i pensieri precedenti per esserne continuamente mutato.
Le nostre mente e i nostri corpi agivano in un feedback continuo, così come Jimi Hendrix fu l’unico musicista a suonare davvero con il proprio corpo.
Davanti agli amplificatori, come a Monterey o in decine di altri concerti, Jimi cercava il ritorno del segnale per intercettarlo con la chitarra o con il corpo, per poi rinviarlo alle casse in una cacofonia di suoni mai uditi prima.
Tutto il palco con il suo potenziale sonoro si trasformava così in un enorme theremin, il primo strumento basato sull’interazione tra onde sonore emesse elettricamente e movimenti del corpo.
Non a caso, forse, lo strumento era stato inventato in Russia negli anni della guerra civile, in un momento di grande creatività artistica, prima dell’avvento dello stalinismo.
Quando era ancora possibile pensare con Lenin che il comunismo sarebbe risultato dall’incontro del socialismo con l’elettricità.
A noi era rimasta soltanto l’elettricità.
L’altro fattore era già diventato sin troppo reale e quello che sarebbe dovuto esserne il prodotto si era trasformato in enormi macchine burocratiche destinate a maciullare corpi e menti.
Per non parlare della clandestinità in cui circolava la musica elettrica e demoniaca del rock’n’roll nei paesi del socialismo reale.
Dischi prodotti clandestinamente, venduti sottobanco per un pubblico di uligani, teppisti dalle giacche di cuoio che l’U.R.S.S. dei Kruschev, Breznev e Antonov non poteva tollerare.
Dischi stampati, come primordiali flexi-disc, sulle lastre delle radiografie, per cui oltre ad ascoltarli era anche possibile guardarli in controluce per osservare fratture o malformazioni di pazienti ignari.
Ancora, quindi, corpi ed elettricità.
Continuammo a viaggiare in un continuo feedback con gli avvenimenti dei mesi che avevano preceduto la nostra partenza.
Gli scontri di Torino, le manifestazioni a Roma e a Bologna dopo l’uccisione di Francesco Lorusso, gli espropri e gli assalti alle armerie che la avevano accompagnate, così come le sparatorie che sembravano esplodere a ogni manifestazione.
Eppure gli unici americani di estrema sinistra che incontrammo nel nostro peregrinare ci chiesero il nostro parere sull’esplodere in Cina del caso della banda dei quattro, che vedeva coinvolta la moglie di Mao Tse Tung.
Incredibile per noi, lontani anni luce da quei problemi di ordine ideologico.
Capimmo così, però, anche i limiti di quelle lotte che a noi sembravano così importanti.
Una resurrezione selvaggia
Una resurrezione selvaggia.
Tale ci era sembrato il ciclo di lotte apertosi, in Italia, nella primavera del 1977. Molto più del ’68, caratterizzato da un lato dal presenzialismo studentesco e dall’altro da un recupero in extremis del politicantismo (gruppuscolare o parlamentare fa lo stesso) in chiave estremistica, il movimento del ’77 segnò un tentativo allarmante di allargare la lotta politica a tutta la scala del sociale.
Il movimento dei consigli operai degli anni ’20 sembrava improvvisamente riprendere quota su un piano più allargato e territoriale. Donne, giovani, disoccupati, precari, lavoratori in nero, operai di fabbrica e nuovi stili di vita (spesso coincidenti con la ri-scoperta delle diversità che animano questa nostra specie) si fondevano in un movimento che non aveva fino ad allora avuto precedenti e che non poteva essere accettato o inquadrato nelle forme politiche preesistenti.
In questo non poteva essere accettato dal potere e dai suoi cani da guardia, politici e sindacali, ma nemmeno compreso appieno dai gruppuscoli della sinistra extra e ultra che si contendevano, come sempre, gli scampoli lasciati liberi dalla sinistra istituzionale, nonostante le incredibili giravolte ideologiche cui si sottoposero per spiegarlo (e tentare di ingabbiarlo inglobandolo in straordinarie visioni d’insieme).
Una valanga di feedback prodotto da chitarre allucinate avrebbe potuto costituire la colonna sonora ideale di quei mesi.
Il caos si ripresentava, liberatorio e selvaggio, nelle forme di un movimento che non voleva essere rappresentato, ma soltanto essere ciò che era in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue contraddizioni.
Qualcuno si accontentò di bollarlo come autonomo ovvero legato all’autonomia operaia, ma anche questa fu una formula riduttiva.
I Savage Resurrection, Resurrezione selvaggia, si formarono sul finire degli anni sessanta nella California del Nord.
Venivano tutti dai quartieri proletari e sottoproletari di Richmond, un centro operaio della Bay area.
Randy Hammon, John Palmer, Bill Harper, Steve Lage e Jeff Myer.
I primi due vantavano ascendenze pellerossa e la rabbia dei ghetti bianchi in cui erano cresciuti.
Randy aveva sedici anni e sul palco brandiva la chitarra e un enorme Bowie.knife.
John era semplicemente pazzo e si era fatto cacciare da più di un gruppo dopo aver picchiato gli altri componenti .Incisero un solo disco nel 1968.
Abe “Voco” Kesh, il loro produttore, doveva esser altrettanto pazzo e aveva già portato in sala di registrazione i Blue Cheer.
Solo i Sonic Youth si sono ricordati di loro, copiandone senza citarli il loro brano più bello.
I campioni del feedback chitarristico degli ultimi due decenni, Thurston Moore e Lee Ranaldo, li hanno saccheggiati, ma tutto era partito da un nero che, pur non sapendo leggere o scrivere un rigo di musica, aveva reinventato il suono delle chitarre e prodotto il sound degli anni a venire.
Jimi, o Jimi, che fece sì che tutti i più famosi chitarristi inglesi degli anni sessanta, si cagassero addosso all’udir le note della sua chitarra al primo concerto londinese degli Experience.
“Ci sentimmo finiti” affermò più tardi Pete Townshend, ritenuto allora il più selvaggio dei chitarristi. Così dovevano essersi sentiti i rappresentanti di una sinistra mummificata davanti alle cacofonie prodotte dai cortei e dalle intemperanze del movimento del ’77.
Jimi morì nei primi anni settanta, noi cinque o sei anni dopo. In entrambi i casi dopo aver sfiorato il cielo anche solo con un dito.
Eppure quel movimento non fu solo italiano
Eppure quel movimento non fu solo italiano.
Come sempre la musica l’aveva anticipato e accompagnato.
Tra i giovani figli della classe operaia inglese, nei sobborghi di Londra e nelle periferie irlandesi era nato il punk. Un autentico pugno nello stomaco della morale e del gusto corrente, così come poteva esserlo la maschera stravolta di Sid Vicious.
Fu una truffa, un’ennesima invenzione del business dell’industria musicale?
Chi lo sa, anche se Malcom McLaren, nel tentativo di attribuirsene la paternità, lo battezzò la grande truffa del rock’n’roll.
Eppure una miriade di gruppi si formarono immediatamente, ispirati sia dall’estetica e dallo stile scalcinato dei Pistols che dalle rivolte di Brixton.
Tutto si legava.
Sia che il feedback dei Velvet Underground e della Metal Machine Music di Lou Reed, si fondesse con le armi di Brixton, cantate in seguito dai Clash, sia che in Italia l’epicentro del nuovo movimento non fosse più nelle principali città industriali, ma a Bologna feudo e fiore all’occhiello del Partito Comunista.
Radio libere nascevano per trasmettere una musica altrimenti inaudibile in Italia, mentre giornali dalle grafiche futuriste impazzite e dai titoli più improbabili sbucavano come funghi e morivano nel tumulto dei movimenti.
E qualcuno era già tornato da Londra portando provocatoriamente delle spille a forma di svastica sul giubbotto di cuoio.
Era quello il rovesciamento della prassi di cui tanto avevano cianciato i teorici della sinistra.
Era un autentico détournement di stampo situazionista che rovesciava ogni valore, ogni sicurezza di cui si fosse moralisticamente e politicamente abusato.
LSD, marijuana e hashish sostituirono sempre più il vino nella ricerca di nuove forme di vita e di nuove modalità di lotta.
Con tutto questo dentro di noi, eravamo partiti per gli Stati Uniti.
Ventre del mostro, promessa di libertà, cuore pulsante della musica del diavolo bianca e nera, spazi infiniti, origine di ogni moderna mitologia e molto altro rappresentavano per me ed Ettore gli States.
E l’interazione sensoriale, mentale e sonora tra quei due mondi durò per tutto quel viaggio.
(11-CONTINUA)