di Walter Catalano
Gianfranco Manfredi autore storico del fantastico italiano, passato attraverso tutte le possibili forme della narrazione — la canzone, il cinema, il romanzo (di più recente pubblicazione: Ho freddo 2008 e Ultimi Vampiri Extended Version 2009, entrambi per Gargoyle), i comics (Magico Vento e la miniserie Volto Nascosto, oltre a vari episodi di Tex e Dylan Dog per Bonelli) — ci ha gentilmente concesso un’intervista in cui affronta principalmente il tema della relazione fra letteratura e immaginazione.
Per prima cosa una tua definizione di fantastico: un elemento che ha caratterizzato tutta la tua opera fin dall’inizio. A questo proposito mi torna in mente una dichiarazione di Fellini: “L’unico vero realista è il visionario”. Direi possa applicarsi anche a te. Ricordo una tua vecchia canzone “Zombie di tutto il mondo unitevi”: già allora sembrava una enunciazione programmatica, mettere insieme Marx e Romero…Più tardi anche il tuo primo romanzo Magia Rossa pareva muoversi sulla stessa linea: i fantasmi dei caduti delle repressioni di Bava Beccaris e quelli della strage di Piazza Fontana. Una ghost story molto politica, molto attenta alla realtà sociale. Il revenant come ritorno del rimosso anche in senso politico. E’ una lettura limitativa la mia ?
No, affatto. Negli anni 80, certe contaminazioni andavano sotto l’etichetta di postmodern, in vari modi discussa perchè spesso sembrava troppo onnicomprensiva. Col tempo credo e spero si sia capito che in realtà si trattava di una disposizione degli autori in quanto tali, e non nuova, in quanto già praticata ad esempio dalla narrativa di fantascienza degli anni 60. Oggi è una pratica assodata. Quasi nessun genere letterario sopravvive “puro”, se mai lo è stato. E siamo già molto più in là della semplice fusion. E’ in atto un’istanza profonda di ricomposizione di ciò che la critica, in sintonia con le scelte editoriali dei “target” di mercato, andava in passato a separare e distinguere. A volte il contrasto si nota ugualmente, anzi viene rimarcato con notevole gusto per il paradosso (per esempio nell’ultimo romanzo di Tullio Avoledo, L’anno dei dodici inverni, Einaudi), ma in altri casi gli elementi di genere sono così compenetrati da risultare davvero indistinguibili. Spesso da collante e da reagente viene usato il cosiddetto racconto d’avventura (in Evangelisti, ad esempio, ma nemmeno io sono estraneo a questa tendenza, se vogliamo chiamarla così). Il realismo visionario di cui parlava Fellini era sicuramente anticipatorio. Svelava uno sviluppo in atto. Se si rivede bene Otto e mezzo, si noterà che l’alter ego di Fellini sta lavorando a un film di fantascienza che prevede tra l’altro il decollo di un’astronave, ma questa astronave non partirà mai, perchè il vissuto e l’onirico si legano così indistricabilmente da schiudere all’autore uno “spazio del fantastico” che non ha più necessità di trasferirsi nello Spazio, cioé in un immaginario concepito come “altrove”. (Purtroppo nel cinema italiano, Fellini non ha lasciato eredi e nemmeno sono decollate le astronavi, ma questo è un altro discorso). Lo spazio del fantastico è quello in cui il simbolico si lega al quotidiano. E’ dunque, in questo senso, compiutamente realistico. Il fantastico ha necessità di corpi (fisici e sociali). Al confronto pare invece artefatto ed evasivo il romanzo che continua su una linea puramente storico-sociale. Gli esseri umani sognano. Prescindere dai sogni nella narrazione, o considerarli irrilevanti, è irrealistico. Senza “visione”, in altre parole, non c’è realismo. E senza realismo, la visione non risulta credibile, cioé non ci parla e non ci emoziona, rischia un tipo di “evasione” che può coincidere con l’alienazione (quella di cui parlava Marx, come quella di cui soffriva Emma Bovary e che già Jane Austen aveva dissacrato con fine ironia).
Alla metà degli anni ’80 i tuoi primi romanzi (pubblicati tutti da Feltrinelli) furono una piacevolissima novità in un panorama piuttosto triste. Magia Rossa, poi Cromatica e infine Ultimi Vampiri: ricordo di averli letti (e ricordo molto bene anche le copertine, particolarmente accattivanti) pensando che finalmente c’era anche in Italia uno scrittore horror o comunque fantastico che non si vergognava di usare il genere in maniera colta e intelligente e di presentarlo nei “salotti buoni” e non passando dalla porta di servizio. Oggi ormai è una cosa abbastanza normale o comunque non così insolita anche da noi che un “letterato” si sporchi le mani con temi pericolosamente “sensazionalistici” (così almeno li definivano i primi critici di Poe…) ma allora era veramente destabilizzante. In fondo, sotto molti aspetti, tutto è cominciato con i tuoi lavori: ti senti un anticipatore o un caposcuola?
Non saprei. Non trovo fondamentale dare e darsi delle etichette, trovo anzi che ciò contrasti con l’esigenza cui accennavo prima del superamento dei generi e dei target. E’ normale che gli autori “sentano” il proprio tempo e avvertano la necessità di creare non solo nuove storie, ma nuove strutture, sperimentando persino un diverso metodo di lavoro. Il problema in Italia non sono tanto gli autori, quanto lo stato, non certo esaltante, della critica letteraria. Mentre nelle Università chi fa ricerca a contatto con gli studenti sta facendo un enorme lavoro di “ricomposizione”, la critica togata e quella che si esprime sui giornali, è suddita di cliché datatissimi, oltreché terribilmente degradata. Non si vede, sinceramente, un nuovo Oreste del Buono. Il disastro è evidente, soprattutto nell’esame della letteratura internazionale, dove pare diventato meramente soggettivo il giudizio sulle opere che segnalano davvero delle svolte. Davvero a distanza di trent’anni possiamo considerare esemplari e duraturi certi lavori dei cosiddetti minimalisti? Le pulsioni segrete degli anni 80 e i loro effetti a lunga distanza, lo stesso sperimentalismo letterario, non stavano molto di più nell’ipertrofico nuovo horror americano che l’horror lo reinventava ben al di là dei confini di genere ereditati? E’ un esempio, ma se ne potrebbero fare molti altri. Se romanzi considerati epocali, o semplicemente significativi, a distanza di pochi decenni risultano illeggibili, un critico dovrebbe chiedersi se il suo approccio non sia stato completamente sbagliato. Non che voglia prendermela a tutti i costi con la critica che tra l’altro mi ha sempre trattato benissimo, parlo specificamente di quella critica che si è assunta accademicamente il non facile compito di tracciare una Storia della Letteratura in fieri. Senza una percezione a tutto campo delle tendenze in atto, non si capiscono neppure le singole opere. E se si escludono a priori certe opere dalla lettura e dalla disamina critica, perché considerate minori e settoriali, si chiudono gli occhi sulla letteratura in generale. Resta un criterio di base: se un libro viene ristampato a distanza di trent’anni è perché un qualche valore ce l’ha ancora. Se un libro, anche se all’epoca bestseller o pluriomaggiato dalla critica, non lascia rimpianti, e non può più sperare d’avere pubblico in quanto inesorabilmente datato, vuol dire che forse valeva poco anche quando era stato pubblicato la prima volta.
Come sono state accolte le nuove edizioni dei tuoi libri ripubblicate da Gargoyle ? Magia rossa riproposto e Ultimi Vampiri aggiornato con nuovi racconti. E’ molto cambiata nel pubblico la ricezione di testi a loro modo storici come questi ? Magari i ragazzi più giovani oggi ti conoscono soprattutto per i fumetti…
L’accoglienza è stata ottima. Resta il fatto che schiere massicce di lettori sono sudditi di scelte editoriali non popolari, ma populistiche. Quando ero giovane, se uno di noi, da lettore, trovava ostica una certa opera, cercava anzitutto di capire se questa sua percezione non fosse dovuta a un proprio limite. Oggi, soprattutto nei blog, prevalgono i giudizi disinvolti. Alla base, si coltiva il narcisismo. Quando si leggono certi blog, ci si fa un’idea perfetta di chi scrive le critiche e dei suoi criteri di giudizio, ma non se ne ricava quasi nulla sulle opere esaminate. Il recensore, in realtà, recensendo le sue letture, recensisce se stesso e propone agli altri se stesso, il proprio giudizio e la propria presunta “autorità in materia”. Dal lato degli scrittori, l’ossessione del farsi capire da tutti, battezzata da Hemingway, coincide spesso con la totale rinuncia stilistica (e questo ad Hemingway sarebbe ripugnato). Si sa che alla terza parola non conosciuta (e ormai il lettore medio ne conosce pochissime) chi legge chiuderà il libro, perché non vuol fare alcuna fatica (già gli pesa leggere). Prevale dunque uno stile a frasette soggetto-verbo-complemento, senza descrizioni, senza digressioni e senza pensiero. Si leggono descrizioni del protagonista del tipo: “somigliava a Daniel Craig, il nuovo James Bond” (citazione da Bikini di Patterson). Così il lettore non deve far fatica a immaginarselo. Uno stile tanto rinunciatario, risulta di una piattezza desolante. Il modello diventa quello della sceneggiatura. Ma la sceneggiatura cinematografica è “narrazione invisibile”, in quanto è un codice per i reparti, per la regia, per gli attori, per chiunque contribuisce poi a creare le immagini/racconto. Il pubblico vede il film , non legge la sceneggiatura. Se dalla sceneggiatura si cancella il cinema, si ottiene una letteratura povera, senza visionarietà propria. La parola in letteratura non è soltanto significato, è anche suono, ritmo, evocazione, suggerimento. Il lettore dovrebbe venire costantemente sollecitato a fare suo il romanzo, a immaginare sull’immaginato. Questa è la sua intoccabile libertà. Dumas ha un bel ripetere ai suoi lettori che d’Artagnan non è nulla senza gli altri tre moschettieri che restano per lui i veri protagonisti. Però i lettori hanno costruito il loro romanzo, e in quel romanzo collettivo, il protagonista è d’Artagnan, non si discute su questo. Questa è la legge della letteratura popolare. Se invece il lettore si infastidisce a venire stimolato e rinuncia a far proprio un romanzo, educato com’è alla passività, rinuncia per ciò stesso ad essere lettore, tant’è che prima o poi finisce per non leggere più. Io vado in cerca di lettori che nei romanzi cercano uno stimolo per la propria crescita e per la propria fantasia, non un prodotto adeguato alla situazione di degrado della sensibilità in cui si trovano immersi. Questo è indubbiamente più difficile. I fumetti sono pur sempre una letteratura assistita (dalle immagini) ed è dunque più semplice avere, almeno potenzialmente, un pubblico più largo. Però anche nei fumetti bisogna immaginare (ad esempio il movimento, che non c’è). Senza capacità di immaginazione perde senso la lettura in quanto tale. Gli scrittori che avviliscono l’immaginazione del lettore segano il ramo su cui stanno seduti o meglio disboscano per costruirsi i loro chalet. Dopodiché se non ci sono più alberi, sono cavoli per tutti, anche per i disboscatori. A far crescere un albero ci si impiega di più che ad abbatterlo.
C’è poi un altro tuo lavoro recente pubblicato da Gargoyle , Ho freddo, per la stesura del quale so che hai fatto ricerche storiche molto accurate, e dove ritorna il tema del vampirismo. Perché questa figura mitica ti interessa così tanto? C’è oggi nei Media una sovraesposizione di personaggi alla Dracula, un abuso talvolta stucchevole: operazioni come Twilight o, in fondo, anche quella più intellettuale tentata da Lindqvist con Lasciami entrare: il vampiro in chiave romantica adolescenziale. Non è più interessante il vecchio proletario Zombie di cui cantavi una volta?
Ciascuno racconta quello che gli pare e nel modo in cui riesce meglio a farlo. L’abuso sta nelle abitudini del mercato. Poe diceva che i veri vampiri sono gli editori. Il caso attuale, dell’exploit della letteratura vampirica, è vampirismo al quadrato. Per anni si ripete che dei vampiri non frega niente a nessuno, poi come sempre accade, almeno ogni dieci anni, un successo (nel caso quello della Meyer) si trascina dietro una valanga di sovraproduzione, che inevitabilmente seppellirà il vampiro per i prossimi dieci anni. Non ho nulla contro l’adolescenziale (chi se la prende con l’adolescenziale, in genere se la prende con gli adolescenti, il che è abbastanza stupido), né condivido il tipo di critiche di contenuto rivolte alla Meyer. Il contenuto è onestissimo e dichiarato, in Twilight: c’è un compagno di scuola con strani poteri, lo si scambia al principio per un super-eroe stile Uomo Ragno e si scopre che è un vampiro. E’ un’idea carina e di facile presa sui teens, predisposti fin dalla più tenera età a questo tipo di narrazione, attraverso i libretti di Stine (Piccoli brividi) e serie televisive come Buffy. Cosa c’è di male o di sbagliato? Niente. Ci si lamenta che il vampiro è troppo romantico, o di un gusto dark troppo all’acqua di rose, o che non sia un predatore sessuale? Be’, il Vampiro di Polidori non risulta fosse un grande scopatore. Insomma, di cosa si sta parlando? Non esiste un mainstream vampirico. Stoker stesso, con Dracula, cambiò totalmente l’immagine del vampiro quale ci era stata consegnata da certi racconti di Poe , per non parlare del primo vampiro popolare da romanzo a puntate e cioè Varney. La figura del vampiro è in perenne ridefinizione. Dunque chi rimprovera dei tradimenti alla Meyer, semplicemente non afferra la natura mutante del vampiro. Poi chiunque è perfettamente libero di dire: questo tipo di mutazione a me non piace. Però il discorso si ferma lì. Io preferisco dire: non mi piace leggerlo perché è scritto male, cioè per un pubblico di non lettori o di lettori non abituali. Ma la stessa cosa vale per Patterson e per dozzine di altri autori di best-sellers non adolescenziali. Lo so che oggi si diffida del termine “artista” e si preferisce guardare allo scrittore come ad uno che “cucina”. Però c’è una grande differenza tra un cuoco da ristorante e uno che lavora da McDonald. Almeno questa, concedetecela.
Non si può dire tu abbia mai temuto di sperimentare linguaggi diversi: hai iniziato come cantautore (e so che continui tutt’ora a scrivere canzoni con Ricky Gianco), poi sei passato al romanzo e contemporaneamente alla sceneggiatura per il cinema, infine sei diventato uno dei maggiori autori di fumetti contemporanei per Bonelli (creando personaggi innovativi come Magico Vento — che unisce western e horror in un’atmosfera alla Ambrose Bierce — o quelli del ciclo di Volto nascosto — che è un vero e proprio romanzo storico a fumetti). Come spieghi questi continui passaggi ? Un linguaggio non ti basta ? C’è continuità fra un’esperienza e l’altra ? Non intendo in senso tematico e stilistico, quella è evidente: dico come metodo di lavoro, come esigenza espressiva, ecc.
Sono per natura esplorativo. Al centro c’è sempre la scrittura, in tutte le sue forme, ma a volte anche la narrazione orale, cantata e persino fisica (quale quella prestata da attore). Si può narrare in tanti modi diversi. Ciascuno di questi diversi modi insegna qualcosa, perché pur essendo separati da tecniche specifiche e da ambiti di mercato differenti, si rifrangono gli uni sugli altri. Ad esempio il balloon dei fumetti che non può ospitare più di tante parole, ma neanche risultare inespressivo, costringe a un utilissimo lavoro di sintesi. La canzone, il cui testo ha valori sonori, offre la possibilità di un maggior approfondimento della musicalità della scrittura. Il cinema, nel suo alternarsi di punti di vista, nella scansione ritmica degli eventi attraverso il montaggio, educa a plot e ad andamenti più mossi, alla centralità dei personaggi e alla loro necessaria gerarchia. Il romanzo, per sua natura alieno da format precostituiti, e frutto prevalentemente del lavoro di un singolo individuo, è la forma più libera e insieme più responsabilizzante di narrazione. Ma è , o può essere, anche la forma più compiuta, tanto più compiuta quanti più linguaggi si conoscono. Questo vale non solo come risultato finale, ma anche all’origine. Non c’è nessuna struttura narrativa cinematografica che non sia stata esplorata e raccontata prima in romanzo. Fa ridere quando si leggono giudizi critici del tipo: il cinema digitale ha creato una nuova struttura narrativa ellittica, sincronica, multipla ecc. Tutte queste strutture erano già state sperimentate in letteratura. Il cinema le incorpora, non le crea. Le innovazioni del cinema sono in prima istanza tecnologiche, e solo di rimbalzo narrative.
Mi sono sempre chiesto che rapporto ci sia fra un autore fantastico e quella fenomenologia bizzarra che abitualmente viene messa in campo nelle sue storie: i fenomeni che Lovecraft e i suoi accoliti definivano “supernatural horror” e certi latinoamericani come Quiroga, Lugones o Cortàzar “fuerzas extranas”: l’infrazione dell’ordine naturale delle cose. Non si crede al fantasma ma se ne ha paura — come diceva il vecchio aneddoto. E’ così anche per te ? Credi in una spazio “immaginale” più che “immaginario” dove certe cose diventano relativamente vere o è tutto solo un gioco raffinato?
Adoro il genere gotico perché pone sempre dei dubbi al centro e a motore della narrazione: cos’è oggettivo e cos’è soggettivo? Che rapporto c’è tra conosciuto e ignoto? Cos’è vero e cos’è falso? Cos’è storia e cos’è leggenda? E persino: cos’è vita e cos’è morte? Possiamo davvero tracciare un netto confine tra tutte queste cose? C’è ben poco di evasivo in romanzi che trattano questi interrogativi fondamentali. Definire l’horror come semplicemente “perturbante” confonde il mezzo con il fine. Il fine è filosofico, ma con una specificità: l’accento cade sulle domande, non sulle risposte. Il disagio che si semina nel lettore, lo spinge a interrogarsi. Ogni soluzione raggiunta, ingenera nuovi interrogativi. Credo che questo atteggiamento abbia un profondo significato culturale e politico. In epoche stupidamente assertive come quella in cui viviamo, chi propaga dubbi fa opera di bene. Abbiamo tutti una quantità enorme di dubbi, di fronte a quanto succede e che ci è difficile comprendere. E’ una scorciatoia pericolosa sperare di risolverli con risposte semplificate ed ideologiche. Cancellare o rimuovere i dubbi, significa tagliare alla radice lo spirito critico, cioè la peggiore scelta che si possa fare in materia di comunicazione. Il Dio della comunicazione è Hermes, ermetico perché variamente interpretabile. La comunicazione non è un’informazione neutra che passa da A e B, e della quale B è un semplice ricettore. No, B interpreta a seconda del proprio livello di sensibilità. B non è un destinatario passivo. Se tende all’inerzia, bisogna fare di tutto per riattivarlo. E’ uno dei due poli della comunicazione. Se non agiscono congiuntamente, l’elettricità non si sprigiona. Quando si dimentica questo, si riduce la comunicazione a propaganda.
L’ultima domanda: a cosa stai lavorando in questo momento?
Ho appena iniziato a scrivere una nuova serie a fumetti, sequel di Volto Nascosto, e ambientata nella Cina della rivolta dei boxer. Inoltre sto completando il mio nuovo romanzo, Tecniche di resurrezione, che è seguito e completamento, in uno scenario completamente diverso, di Ho freddo. Non tratta di vampiri, ma degli inizi della tecnologia applicata alle cure mediche, e in particolare agli esperimenti di rianimazione. Le figure protagoniste dell’immaginario d’epoca romantica, il dottor Frankenstein, Jekyll, il dottor Moreau, persino la Mummia, nascono tutte in ritardo, letterariamente. Erano già presenti nella storia e nella cronaca dei primi anni dell’ottocento, cioè all’alba dello sviluppo della scienza moderna. Con Ho freddo e Tecniche di resurrezione, attraverso le avventure dei due protagonisti Aline e Valcour, ho intenso raccontare le origini storiche e culturali dei principali miti alla radice dell’horror moderno. Naturalmente in modo non saggistico, ma romanzesco. In Tecniche di resurrezione, in misura più accentuata che nei precedenti romanzi, ho mescolato storia e immaginazione a tal punto, che quando rileggo e correggo per arrivare all’editing finale, in certi passaggi nemmeno io distinguo più cosa ho ricavato dalla documentazione e cosa ho inventato. Era quello che cercavo da tempo, perché lavorando mi sono reso conto che spesso con l’immaginazione ci si avvicina al vero (il vero simbolico, ma anche l’accaduto realmente) più che con la documentazione (non sempre affidabile e comunque , per quanto oggettiva, figlia di un “punto di vista” che a distanza di tempo si può scoprire falso o non adeguato). Ciò potrebbe apparire eccessivamente ambizioso, me ne rendo conto, ma ritengo che la suprema ambizione di uno scrittore, come diceva Oscar Wilde, debbe essere quella di diventare anonimo, cioè per un usare un’altra definizione, di Salman Rushdie, di “sparire nel mare delle storie”, quella di partecipare insomma in tutta umiltà a una narrazione collettiva in cui attualità, tradizione e anticipazione, si uniscono. Questo è il lavoro che mi appassiona non certo quello di sostituire il personaggio/scrittore ai personaggi di fantasia. Madame Bovary è più grande e più nota di Flaubert. Sandokan più di Salgari. Quando scrivo una storia di Tex, non è il mio Tex, io sono soltanto uno dei suoi tanti narratori. I lettori di fumetti mi hanno insegnato in questi anni che il loro affetto è per il personaggio. Il nome dell’autore spesso lo ignorano o ne prescindono. Le narrazioni contano di più dei narratori.
Grazie Gianfranco!