di Marilù Oliva
A un anno dalla pubblicazione di Cien años de soledad e dei suoi trionfi di vendita e di consensi, Márquez salpò l’oceano per trasferirsi da Città del Messico alla Barcellona del regime franchista ed è qui che diede vita al romanzo che lo tormentava. Mai un libro fu atteso, in America Latina, con tanta ansietà come El otoño del patriarca (L’autunno del patriarca), più volte anticipato prima che acquisisse concretezza, quando era solo un’immagine sullo sfondo delle nebulose artistiche dello scrittore. Come Márquez affermò in una conversazione pubblica tenutasi a Lima nel 1967 con Mario Vargas Llosa, stava già allora «preparando la historia de un dictator imaginario, es decir, la historia de un dictator que se supone es latinoamericano… tiene 128 años de edad, que tiene tanto tempo de estar en el poder que ya no recuerda cuándo llegó… está completamente solo en un enorme palacio, por cuyos salones se pasean las vacas.»
Un racconto che vertesse sullo sfacelo di una figura dittatoriale come sintesi del mistero del potere e dei suoi abissi era stato già concepito anni addietro, nel gennaio del 1958, pochi giorni dopo la caduta di Marcos Pérez Jiménez, dittatore del Venezuela.
Dopo varie vicissitudini, pagine scritte e distrutte, nella Barcellona piegata alle nevrosi franchiste di fine 1968, l’aracatese trovò un’ispirazione sorretta da una soluzione, suggerita da un libro sulla caccia in Africa a proposito delle abitudini degli elefanti. L’opera fu pubblicata contemporaneamente a Barcellona in un momento in cui la dittatura perseverava da un quarantennio, poi a Bogotá e a Buenos Aires nel 1975.
«La mia intenzione è sempre stata quella di fare una sintesi dei dittatori latinoamericani, ma soprattutto di quelli dei Caraibi.» (Plinio Mendoza, 1983, p. 103). Con queste parole Márquez delucidò in merito ai suoi intenti artistici e, più avanti, chiarì fino a che punto il suo patriarca innescasse simmetrie con tiranni celebri. Dalle letture delle biografie dei dittatori Gabriel Garcia aveva imparato a conoscere e classificare i loro deliri, le loro manie, le loro piccolezze, le tante meschinità insinuate tra le pieghe dell’aberrazione più terrificante del potere, quella del potere commisto alla violenza.
La maniera peggiore per affrontare quest’opera è leggerla con un’ottica di comparazione nei confronti di Cien años, tentazione da cui sarebbe utile rifuggire, anche se molti critici ne sono rimasti avviluppati. Le differenze sono eclatanti, a cominciare dalla scelta di una frammentazione più dispersiva della realtà: El otoño non ha un principio né un finale, la progressione che solca i paragrafi non è indicativa ai fini strutturali. La storia non poggia su un’impalcatura cronologica, ma solo sull’idea del disordine e della distruzione.
Ne esce un patriarca inventato ma riflesso negli specchi dei tanti dittatori che hanno devastato il Latinoamerica negli ultimi duecento anni. Gli esempi sono in ogni direzione e ciò spiega come la letteratura sudamericana trabocchi di romanzi incentrati sullo stesso tema: Sua excelencia di Mario Moreno, El gran solitario de palacio di René Avilés Fabila, Farsa di Juan Goyanarte, El derecho de asilo e anche El recurso del método di Alejo Carpentier, Yo, el supremo di Roa Bastos, Officio funebre di Arturo Uslar Pietri, El señor presidente di Miguel Angel Asturias.
Oltre alle motivazioni di un coinvolgimento diretto, lo scrittore spiegò più a fondo perché avesse trovato questo tema così avvincente da restarvisi ancorato per diciassette anni:
Perché ho sempre creduto che il potere assoluto sia la realizzazione più alta e più complessa dell’essere umano e che per questa ragione riassuma forse ogni sua grandezza e ogni sua miseria. Lord Acton ha detto «Il potere corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto». E questo non può non essere un tema appassionante per uno scrittore.
Il patriarca de El otoño è la summa di tutti i despoti precedenti e ricostruisce la verosimiglianza dell’apoteosi della dittatura in un qualsiasi paese caraibico. Il potere rappresenta l’eccesso che oltrepassa i limiti alterando oggetti, situazioni, miracoli e l’unica strategia per un’efficace resa della deformazione è non solo costellare il percorso letterario di metafore, ma rendere il romanzo stesso una sola, possente metafora.
Il despota come metafora dell’inossidabilità del potere possiede un’irremovibilità quasi perenne: muore a un’età non chiarita tra i centosette e i duecentotrentadue anni, anche se il suo decesso è stato annunciato a vuoto più volte, come in occasione del passaggio della cometa, spettacolo cui lui – come si raccontava – non avrebbe dovuto assistere. Invece la vide, fulgente e malinconica come una poesia e il suo passaggio dilata la storia dal particolare al cosmico:
…era la stessa, regina, più antica del mondo, la dolente medusa di luce delle dimensioni del cielo che a ogni palmo della sua traiettoria tornava un milione di anni alle sue origini, udirono il fruscio di frange di carta stagnola, videro il suo volto afflitto, i suoi occhi annegati nelle lacrime, la scia di veleni gelati della sua chioma arruffata dai venti dello spazio che andava lasciando sul mondo un rivolo di polvere raggiante di macerie siderali e di albe trattenute da lune di catrame e ceneri di crateri di oceani anteriori alle origini del tempo della terra, eccola, regina, mormorò, guardala bene, che non la rivedremo più prima di un altro secolo…