di Dziga Cacace

MC1101.jpg351 – Il tempo delle mele di Claude Pinoteau, Francia 1980

Lunedì di Pasquetta casalingo e poltrone. Si decide di elevare il tasso intellettuale del week end e tra una puntata e l’altra di Friends ci scappa questo cult della nostra infanzia. La tredicenne Vic (Sophie Marceau, una bambina) sta crescendo e i primi dilemmi d’amore vanno di pari passo con la crisi affettiva dei genitori. Ma tutto si risolverà e l’innocente flirtino per Matthieu — uno sfigato peloso che all’epoca invidiai e odiai visceralmente – troverà coronamento in casti baci, prima che la volubile e zoccoletta Vic non capisca che vuole subito un altro ragazzo, più grande, più bello, più indipendente. (E con la moto, con i soldi e che tornerà a casa quando cazzo vuole etc.: quante volte voi uomini di genere maschile avete dovuto subire la stessa umiliazione?).


La commedia è vivace, furba ma non irritante, e offre uno spaccato dall’adolescenza abbastanza credibile. In più, per noi che il film l’avevamo visto avendo l’età dei personaggi, c’è il ricordo di una pellicola che metteva in campo tutto quello che volevamo dire, per quanto fosse ridicolo. Il tempo delle mele soprattutto non è un film moralista ed è schierato dalla parte dei tredicenni senza leccargli troppo il culo. Allora m’identificavo coi giovani, oggi penso che una figlia come Vic mi farebbe girare le palle come due turbine, sempre attaccata al telefono e a fare rivendicazioni, lamentandosi tutto il tempo che non si pensa a lei, che qui e che là. Vabbeh, vuol dire che l’ottica del film era proprio azzeccata. La galleria di personaggi (dai genitori, con un Brasseur splendido, all’arzilla bisnonna Poupette) funziona e così il concatenarsi degli eventi. Alcune scene sono giustamente passate alla storia del cinema (mio personale, è ovvio): su tutte Matthieu che, alla festa in cui conosce Vic, le arriva alle spalle e, mentre tutti si agitano ballando un rock dozzinale, le mette la cuffia di un walkman con le note di Reality (un lento, dozzinale ancor più, di Richard Sanderson: ho ancora il 45 giri e devo dire che l’assolo di chitarra è melodicamente saturo; ipotizzo una Les Paul attaccata a un Marshall a palla). Nella memoria conservavo nitidamente almeno altre tre scene epocali e molto trash: 1) quella del bacio tra i due ragazzini con l’apparecchio, che rimangono incastrati, 2) quella, sublime, dell’abbraccio tra i due protagonisti principali, al rallenti nel cortile della scuola, 3) infine quella della beffa al cinema, col tizio che mette il pisello nel pacchetto di patatine in cui fruga una ragazzina. La boum (che più o meno significa “la festa delle medie”) fu un successo clamoroso e — dico la verità siccome sono un critico scomodo – fa ancor oggi la sua porca figura. (Diretta su Italia1; 24/4/00)

354 – L’estate di Kikujiro di Takeshi Kitano, Giappone 1999

Ozioso pomeriggio domenicale. Dopo il pranzo dai suoceri, lascio Barbara a farsi gli affari suoi e vado al parrocchiale Osoppo. Quel che si dice una vita avventurosa. L’estate è alle porte e in sala ci sono solo tre persone. La sala è fresca, pulita e confortevole, la proiezione accurata, il sonoro buono… vendessero pure i tacchetti di liquerizia e sarei nel mio personale Nirvana. Masao è un tenero bimbetto giapponese, grassoccio e con le gambe arcuate come un piccolo samurai. Vive con la nonna, ma vorrebbe conoscere la madre che è lontana – gli dicono – per lavoro. Allora viene affidato a Kikujiro (Beat Takeshi), un ruvido yakuza nulla facente, più infantile di lui. E la strana coppia s’incammina. Ma Kikujiro scoprirà che la madre del botolo s’è rifatta una vita e allora, con occasionali compagni di viaggio, allieterà la breve estate del piccolo Masao. E cambierà anche lui. Intenso, poetico, con momenti di stasi tipicamente nipponici, L’estate di Kikujiro è una vacanza dal consueto Kitano. C’è una parte centrale che va avanti a fatica, ma l’inizio e soprattutto l’ultima mezz’ora sono da antologia. C’è il consueto gusto fotografico di Takeshi (che qui scrive, dirige e monta) e la passione per le trovate surreali. Tra sogni infantili, gusto per la perdita di tempo e giochi fantasiosi, si dipana un road movie – anche interiore – grazioso, accompagnato da una musica pianistica dolce e incalzante. Preferisco il Kitano al sangue, okay, ma anche questo è grande. (Cinema Osoppo, Milano; 30/4/00)

MC1102.jpg356 – L’ultimo uomo della terra di Ubaldo Ragona, Italia 1964

Incuriosito dal riassunto del Morandini, mi scoppio questo curioso horror fantascientifico di metà anni Sessanta, tratto da Io sono leggenda di Richard Matheson. Vincent Price è il dottor Morgan, unico sopravvissuto a una mortale epidemia portata dal vento (!). L’umanità è ridotta a una schiatta di vampiri-zombie che non sopportano la luce del sole, la loro immagine riflessa e fuggono l’aglio. Più o meno come me. L’aglio, intendo. Price è metodico: ogni giorno ripulisce una parte della città desertica, brucia i cadaveri dei non morti più o meno morti che si trovano per strada, si rifornisce di aglio fresco e specchi nuovi, prepara un po’ di paletti per evitare che i sepolti non tornino in vita e lancia il suo disperato appello radio per capire se qualcuno, oltre a lui, è rimasto indenne al misterioso virus (lui è immunizzato perché in gioventù fu morso da un pipistrello!). Finalmente incontra una donna che, seppur ammorbata, riesce con uno speciale vaccino a tirare avanti. Price le inocula il suo sangue e si rende conto che s’è trovato l’antidoto al morbo, ma i compagni della donna (altri ammorbati vaccinati) preferiscono ammazzarlo e rifondare la specie senza né zombie né completamente sani tra le palle. Girato in una Roma metafisica il film ha un suo fascino. Va anche detto che la narrazione talvolta risulti statica come un cippo di basalto e Price, spesso, si conceda espressioni che in questo contesto assolutamente sballato risultano un po’ ridicole. Girato con due lire, per quanto confuso e sempliciotto, è interessante, soprattutto per l’ambientazione catastrofica. Non male, sai? (Vhs da RaiUno; 10/5/00)

357 – La cena di un bollito Ettore Scola, Italia 1998

Una serata in un ristorante della capitale, con una quarantina di personaggi coinvolti: l’idea è ambiziosa, raccontare l’Italia di oggi attraverso i tipi che la caratterizzano. E quanto più si punta in alto, tanto più la culata per terra è rumorosa. Il più delle volte i ritratti sono appena abbozzati e le vicende che li intrecciano sono di sconfortante banalità. Alla fine si rimane con l’impressione di un film debolissimo, che non si capisce dove voglia andare a parare, che ti scorre addosso come acqua fresca e nulla lascia. Tolte le interpretazioni di alcuni grandi (4 minuti di Giannini incazzato o tutte le scene di Gassman, testimone anziano e saggio dell’umanità che si agita intorno a lui) e qualche momento divertente (la Poggi che rifiuta le attenzioni di un maschio allupato o Catania che interpreta un santone molto poco credibile per quanto efficace), il film è… poco. Non so come dire… Poco, proprio poco: i personaggi sono macchiette senza spessore psicologico e aderiscono adesivamente ai più vieti luoghi comuni. Ci sono i giovani ancora puri, i commercianti furbetti che parlano di politica secondo il loro interesse, i genitori che non capiscono i figli o che non sanno invecchiare… e ovviamente c’è la cucina col consueto cuoco incazzato (Dapporto padre, bravo, ma costretto in un ruolo ripetitivo). E non caviamocela raccontandoci che, dovendo mettere in scena il nulla, allora il film è venuto così. Qui c’è una scrittura pigra, ferma alla commedia all’italiana degli anni Settanta (cioè quella già sbracata e vuota) ma solo nella patina esteriore, senza neanche il gusto caciarone di un I nuovi mostri. Il film passa, talvolta si sorride, il ritmo c’è, gli attori se la cavano a parte i consueti cani di contorno, ma, a film concluso, ti chiedi: che cacchio ho visto?, che m’ha detto?, cosa mi rimarrà? La cena è un film cinico che sperpera soldi, dando lavoro a un maestro che dovrebbe ritirarsi senza rompere ulteriormente i coglioni. (Vhs da Tele+; 11/5/00)

358 – Man on the Moon di Milos Forman, USA 1999

Il cinema di pomeriggio, quale privilegio. Era tanto che non andavo mi godevo un film a prezzo scontato: ho approfittato di una giornata libera e son corso all’Arcobaleno a vedere questo Man on the Moon che Barbara s’è già visto a Parigi. Che dire? Prima di tutto parlo della sala, perché sono un vecchio rompicoglioni e perché è una vergogna che una metropoli come Milano abbia sale da terzo mondo. O forse torna tutto perché Milano è una metropoli del terzo mondo. Una parte dello schermo è fuori fuoco, non tanto da impedirti la visione (come all’Anteo, dove si rasenta l’incredibile), però, pago per vedere bene tutto lo schermo, eccheccazzo. Okay, mi scarto un Chupa Chups, mi calmo e dico due banalità sul film. Che mi è sembrato bello. Non so ancora quanto bello, però questa storia vera di un artista – attore e comico tivù – che lavora su due livelli di espressione apparentemente inconciliabili è molto interessante. Da un lato Andy Kauffman (Jim Carrey, fenomenale) gioca come un bimbo e regala emozioni e comicità molto infantili che presuppongono quasi una regressione per essere apprezzati. Dall’altro lato abbiamo un entertainer abile e raffinatissimo nel continuo scambio tra realtà e finzione, inafferrabile e sempre teso a ribaltare la logica più comoda. Al punto che chi non conosca la vita (e la morte) di Kauffman avrà pensato all’ennesima beffa mediatica quando annuncia che un tumore lo sta consumando, come accade ai suoi amici nel film e come presumibilmente sarà accaduto nella realtà. Il film ha qualche scompenso, specie nella prima parte, lunga eppure tirata via senza spiegare molto, ma le cose si chiariscono decisamente quando si capisce quale sia il nucleo narrativo: la dissimulazione. Tutta l’ascesa e l’affermazione di Kauffman passa attraverso il ricorso a un’identità fittizia: si finge immigrato lituano, si traveste da Elvis, crea l’alter ego Tony Clifton, (personaggio che avrà vita propria anche dopo la morte di Andy), diventa lottatore di wrestling… E tutto sommato anche il suo successo televisivo è un’enorme finzione, perché Kauffman odia la sit-com cui partecipa e tenta di destabilizzarla in ogni maniera. Il film cresce alla distanza e ti conquista in pieno con un crescendo di scene perfette. Quella più bella? Quando Kauffman capisce che il miracoloso santone filippino cui s’è rivolto non è altro che un cialtrone, un ingannatore, più o meno come lui. E il suo sorriso per essere stato beffato, si trasfigura nella maschera della morte, in un funerale gioioso e straziante. Bravi gli attori, bello il montaggio, forse qualche esitazione nella prima parte… però bel film, appagante. (Cinema Arcobaleno, Milano; 12/5/00)

MC1103.jpg359 – La venganza del doctor Mabuse di Jesus Franco, Spagna/R.F.Tedesca 1970

Il dottor Farkas vuole ridurre l’umanità in suo dominio ne ha ben donde! L’allegro figuro ha scoperto che un metalloide lunare irradia particolari raggi capaci di rendere schiavi e controllabili a distanza i soggetti che ne vengono investiti. Wow. Se vi serve un po’ di sospensione di credulità, siamo fritti. Lo aiutano Leslie, una virago probabilmente donna del dottore, e Andros, “vittima e testimone” di un precedente esperimento. Infatti è sfigurato e ha le movenze del semi deficiente. Le pietre lunari vengono rubate e il dottore inizia i suoi esperimenti facendo rapire delle vittime. Il primo tentativo va male, il secondo funziona, ma sulle tracce di quello che si rivela il dottor Mabuse si muove uno sprovveduto detective, tale Thomas. La seconda vittima del folle esperimento è — guarda le coincidenze – la sua donna, Wanda, ma siccome sarebbe ancor più incredibile che in questa puzzonata fosse il detective a risolvere il caso, ci pensa come sempre il servo ribelle, Andros, anch’egli innamorato di Wanda. Solenne schifezza, questo film ha pure, a leggere i giudizi entusiastici degli ammiratori, uno status di culto assolutamente inspiegabile. Al di là di errori tecnici marchiani (si passa dal giorno alla notte con estrema disinvoltura e in spregio di qualunque continuità narrativa e ogni tanto spunta l’ombra birichina dell’operatore con la cinepresa a spalla) è la vicenda a essere di una banalità sconfortante: va bene prendere gli schemi classici del Mad Doctor da cinema horror alla buona, ma se non si aggiornano in qualche maniera, che cacchio ce ne frega di risentire la stessa storia per l’ennesima volta? Qui c’è qualche grandangolata (stravista) e ogni tanto delle luci psichedeliche, ma sembra che manchino anche i soldi per rendere l’ambientazione decente: si pretende di essere in Florida, quando il paesaggio è inequivocabilmente iberico e dalla colonna sonora ogni tanto spunta un motivetto gitano. Straccione, senza alcuna tensione narrativa, recitato in maniera altamente improbabile, difetta pure d’umorismo se non involontario. Ghezzi lo definisce “stranamente langhiano nel suo non esserlo”, affermazione che mi ha procurato il mal di testa nel tentativo di decodificarla. Beh, Jesus Franco avrà pure girato 170 film, ma se li produceva così — cioè coi piedi —, non vedo quale fosse la difficoltà ad essere così prolifico. ‘Na puzzonata. (Vhs da RaiTre; 13/5/00)

361 – Lacapagira di Alessandro Piva, Italia 1999

Caso cinematografico indigeno dell’anno, Lacapagira è un film costato 180 milioni che, dopo essere stato apprezzato a Berlino, è stato distribuito anche in Italia con un opportuno lavoro di sottotitolatura. A Bari vecchia viene smarrito un pacchetto di cocaina e seguiamo le vicende di chi la droga la deve ritrovare (due ragazzotti che vanno avanti a canne), di chi la commercia (il piccolo boss Carrarmato) e di chi si trova all’improvviso sfornito di fronte ai tanti acquirenti (il gestore di un locale dove si gioca d’azzardo e si contrabbandano sigarette). Poco di più, ma se il film è esile, diventa l’occasione per costruire un bel ritratto della Bari della malavita, del piccolo smercio di droga, di chi s’arrangia. Si vede che i soldi erano pochi, ma di queste mancanze la regia fa virtù e si muove in luoghi angusti, a sottolineare il cul de sac in cui sono i vari protagonisti. Si ride spesso, specie nel primo tempo, e ci si concede anche una trovata metacinematografica niente male (il cellulare che si sente prima nella colonna sonora che nella realtà filmica). Fotografia sgranata (in 16 mm, stirati a 35 mm), ritratti gustosi, ottima musica ossessiva e tante camere car che sono un espediente per allungare il racconto ma permettono anche qualche bella ricognizione visiva nella città. Film interessante, di cui non riesco a innamorarmi anche se m’ha intrigato. L’ho visto al Ducale con Barbara, Max, Fabbrì e Pier, che ha avuto una bella reazione allergica: lui vuole vedere i miliardi sullo schermo, del cinema povero e intelligente non gliene può fregà de meno. Stavolta sbaglia. (Sala; 16/5/00)

362 – Cose molto cattive di un finto anticonformista molto conformista, USA 1999

Kyle (John Faveau) sta per sposarsi e parte per Las Vegas con cinque amici per l’addio al celibato supremo: un week end scatenato a base di alcol, sesso e droga. Ma qualcosa va male: uno dei suoi amici uccide per errore la prostituta intervenuta ad allietare il convito. Ci si mette poi di mezzo un addetto alla sicurezza e Boyd (l’organizzatore della tre giorni di deboscio, uno Slater più fuori del solito) non esita ad ammazzarlo. E la situazione, una volta tornati a casa, degenera e un morto tira l’altro. Si celebra, come se nulla fosse accaduto, il matrimonio e la storia finisce anche peggio. Ti chiedi: cosa vuol dire questo film? Con chi ce l’ha? Non si sa: è un generico mettere in fila colpi di scena e delitti sempre più efferati e inaspettati, così, tanto per farsi due risate. Più che cose molto cattive, direi stronzate molto gratuite. Cioè: il film non annoia, ma qual è il motivo che lo spinge? Gli elementi di satira sono debolissimi (tutta ‘sta bolgia per prendersela con l’istituzione del matrimonio? Ma dài!), i personaggi sono appena abbozzati e la macchina narrativa è puramente funzionale all’intrattenimento ferino. Vaccatina furbetta firmata Peter Berg che m’ha fatto passare un’ora e mezza e di cui mi dimenticherò presto. (Vhs da Tele+; 17/5/00)

MC1104.jpg363 – Ziggy Stardust and the Spiders from Mars di D.A. Pennebaker, USA 1982

Pennebaker, già regista innovativo di classici rockumentary come Jimi Plays Monterey o Don’t Look Back su Dylan, ebbe la fortuna (o sfortuna, dipende dai punti di vista) di immortalare l’ultimo concerto di David Bowie nelle vesti di Ziggy Stardust. Era il luglio del 1973 e Ziggy, assieme ai suoi Spiders from Mars, concludeva una trionfale tournée al Hammersmith Odeon di Londra. Presente un pubblico in delirio, ecco la grande mascherata che potrebbe far venire un’ulcera a chi non ha mai amato il glam rock, qui al suo apice sia come espressione musicale che come messa in scena. Il documentario documenta e presenta poco altro: insomma, se volete un filo narrativo, qui cascate male. Bowie si traveste più volte e interpreta con piglio teatrale il suo repertorio: boogie scatenati mescolati a vaudeville, schitarrate heavy e cabaret. Un mescolone, kitsch, triviale, autocelebrativo, oltraggioso: il glam, in una parola. La performance è elettrizzante, ma non mancano anche stecche e stonature: gli Spiders from Mars sono conciati anche peggio del loro leader e su tutti spicca il chitarrista Mick Ronson, abbigliato come se uscisse da I misteri del giardino di Compton House. Omaggi in scaletta (a Brel, Jagger e Lou Reed) in mezzo ai classici hit del Bowie di allora, il duello tra basso e chitarra (coreografato come un incontro di lotta: grandioso!), Bowie che mette a frutto gli insegnamenti di Kemp e fa il mimo, la piaggeria nel backstage e due o tre assoli roventi e un po’ cafoni di Ronson. Forse l’unica grande intuizione registica è piazzare la cinepresa in faccia a delle esagitate mentre impazzano le luci stroboscopiche. Comunque si fa vedere e non solo per l’ottima musica tamarra. (Vhs da Tele+; 20/5/00)

(Continua — 11)