di Valerio Evangelisti
[Questo articolo è apparso nel n. 6 della rivista Loop, uscito in edicola e in libreria il 29 gennaio e dedicato quasi per intero al centenario della rivoluzione messicana del 1910.]
Nella percezione corrente, quella messicana fu una rivoluzione democratica e non socialista. I nomi dei suoi eroi più noti — Francisco Madero, Pancho Villa, Emiliano Zapata — in effetti non sono riconducibili immediatamente al socialismo, con la parziale eccezione di Zapata, autore di un progetto avanzato di riforma agraria. L’ideologia dominante era detta “liberalismo”, sia pure con accezioni diverse a seconda dei protagonisti (lo stesso Porfirio Díaz si definiva liberale).
Invece un ulteriore “liberale”influenzò gli eventi e, al di là delle definizioni, fu socialista e addirittura anarchico. Alludo a Ricardo Flores Magón, nome ignoto ai più al di fuori del Messico.
Ai messicani invece è notissimo: a lui sono intitolate centinaia di scuole, di sedi culturali, di biblioteche. Non c’è città importante che non abbia una sua Avenida o Calle Flores Magón. Se però si chiede a un messicano qualunque quale sia stato il ruolo di costui, la risposta sarà incerta o, nel migliore dei casi, rifletterà la formula ufficiale: “Fu un precursore della rivoluzione”.
Significa congelare un personaggio tra i più scomodi che, sfidando il dramma di una vita travagliata e sfortunatissima, fu promotore di numerosi moti insurrezionali e, dopo il 1910, continuò a influenzare gli eventi dalle carceri statunitensi in cui era rinchiuso, dove morì nel 1922. L’oltraggio maggiore è poi santificarlo sullo stesso altare di altri capi rivoluzionari (Madero e Villa) verso i quali, a torto o a ragione, nutriva disprezzo e che criticava con violenza.
Ma andiamo con ordine. Ricardo Flores Magón, nato nel 1873 nello Stato di Oaxaca, dopo brevi studi giuridici si dedicò interamente all’attività di giornalista e all’agitazione politica. Una sequela di arresti e di periodi di prigionia lo costrinse a lasciare il Messico nel 1904, per non farvi più ritorno. Ciò non interruppe la sua persecuzione. Braccato dagli agenti della dittatura di Díaz anche negli Stati Uniti e poi in Canada, stabilitosi a Los Angeles dopo un lungo peregrinare, fu imprigionato più volte dal governo americano. L’ultima tappa in carcere fu la più lunga e drammatica (quattro anni). Provato nella salute, quasi cieco, morì il 21 novembre 1922 nel penitenziario di Leavensworth, nel Kansas — dove sarebbe morto trent’anni dopo un altro libertario, Wilhelm Reich. Il suo cadavere presentava ecchimosi da percosse e segni di strangolamento. E’ difficile credere al decesso naturale che fu poi diagnosticato.
I crudi dati biografici rendono difficile pensare che un uomo, esule dal suo paese fin dal 1904, possa avere giocato un ruolo nella rivoluzione del 1910. Invece fu così.
La creazione più importante di Ricardo Flores Magón fu un periodico, Regeneración, fondato nel 1904. Lo avevano preceduto vari fogli satirici, tutti sequestrati e censurati, tanto da dovere cambiare titolo a ogni numero. Regeneración era diversa. Abbandonata prestissimo la veste di rassegna giuridica, attaccava senza cautele la dittatura di Díaz e i suoi misfatti: la corruzione dei governatori, la semi-schiavitù dei contadini, l’asservimento dei magistrati. La prosa di Flores Magón era secca, implacabile, inusuale per quel tempo. Già questo la differenziava dalla tradizionale pubblicistica anti regime.
Costretto all’esilio negli Stati Uniti assieme al fratello Enrique e a molti oppositori del porfirismo, Ricardo Flores Magón seguitò a pubblicare Regeneración dove gli fu possibile, e a inviarlo in Messico attraverso un raffinato sistema di distribuzione clandestina. Uno dei primi “abbonati” si chiamò Emiliano Zapata. Ma le copie del periodico poco periodico riuscirono a raggiungere quasi ogni angolo dello Stato messicano, e a essere oggetto di letture pubbliche, in cui l’operaio o il contadino che sapeva leggere sillabava gli articoli di fuoco di Flores Magón ai compagni di lavoro.
La seconda creazione di Ricardo fu, nel settembre 1905, la Giunta organizzatrice del Partito Liberale Messicano, o PLM tout court. Benché operante all’estero, il PLM costituì in breve volgere di tempo decine di sezioni all’interno del Messico, con Regeneración quale organo ispiratore. Persino Francisco Madero aderì a uno di quei club, e finanziò a ripetute riprese il giornale del movimento e i suoi principali redattori.
Il programma del 1906 del PLM non eccedeva l’ambito delle rivendicazioni democratiche, tuttavia poneva l’accento su miglioramenti della condizione operaia (giornata di otto ore, divieto del lavoro minorile, ecc.) e abbozzava una riforma agraria simile a quella poi attuata da Emiliano Zapata nel suo Morelos. Le revisioni programmatiche del 1911 si spingevano molto più in là: vi si parlava di espropriazioni, di socializzazioni, di valorizzazione delle forme comunitarie di proprietà tipiche degli indios. Un’anticamera al superamento dell’ordinamento statuale, da sostituirsi con la democrazia diretta. Flores Magón aveva nel frattempo — spesso in carcere – letto Kropotkin, Marx, Bakunin. Si era messo in contatto con i sindacalisti rivoluzionari nordamericani, gli Industrial Workers of the World. Pur seguitando a definirsi “liberale”, non lo era più, e forse non lo era mai stato. Il PLM nemmeno.
Regeneración e il PLM sostenevano la necessità, contro un tiranno come Porfirio Díaz, di un’insurrezione armata. Non rimase teoria: si passò ai fatti. Sollevamenti “magonisti” ebbero luogo nel 1906 e nel 1908. Coinvolsero solo alcune regioni del Messico, furono soffocati. Dimostrarono però che la dittatura era localmente fragile, e che una minoranza decisa poteva piegarla, a patto di coniugare le istanze di libertà politica a quelle di libertà sociale.
Il PLM diresse altresì, attraverso i suoi circoli locali, scioperi lunghi e sanguinosi a Cananea (minatori) e a Rio Blanco (tessili), nel 1906. Fu attraverso quei conflitti, sia pure spenti con la violenza, che un movimento operaio messicano prese forma duratura, dopo mille esperienze finite nel nulla. Ancora oggi, come allora, durante gli scioperi viene alzata la bandiera rosso-nera dell’anarchismo. Ai tempi nostri significa ben poco, ma le origini erano quelle.
Quando scoppia la rivoluzione del 1910, il PLM vi partecipa tramite l’azione di uno dei suoi dirigenti e collaboratore di Regeneración, Práxedis Guerrero. Questi si impadronisce di varie città dello Stato di Chihuahua, ma cade in battaglia. E’ una perdita molto grave. L’anno seguente combattenti del PLM occupano parte della Bassa California con l’ausilio di militanti americani degli IWW, e vi instaurano una sorta di repubblica socialista che avrà vita breve, soprattutto per contraddizioni interne. Altri “liberali” partecipano all’insurrezione, un po’ in tutto il Messico. Ricardo Flores Magón polemizza violentemente col suo ex adepto Francisco Madero: è un traditore che, da buon proprietario terriero, ha in mente una classica democrazia in cui la libertà è riservata ai privilegiati.
In buona parte è vero, tuttavia il giudizio è ingeneroso: le misure di Madero per le classi subalterne urbane, senza sovvertire le gerarchie esistenti, sono ricalcate sul programma del PLM del 1906. Ma Flores Magón ce l’ha anche con Pancho Villa, liberatore degli Stati del nord. E’ un bandito, non ha un programma chiaro, il suo unico scopo è l’arricchimento personale. Di nuovo esiste un fondo di verità, tuttavia l’esiliato non tiene conto del fatto che Villa, con tutti i suoi limiti, è genuina espressione popolare, quasi una sintesi iconografica del messicano povero. Dove domina, qualche provvedimento sociale lo vara. Nella confusione, certo, ma chi potrebbe pretendere da lui una lucida coscienza di classe?
Più prossimo, anche se critico, il rapporto con Zapata. Questi, figura completamente differente dal rozzo villano che si è preteso, aveva al suo fianco un convinto magonista, Antonio Díaz Soto y Gama. Non fu un caso se il Plan de Ayala, il progetto di riforma agraria proposto da Zapata e applicato nel Morelos, rispecchiò fedelmente il programma del PLM del 1911. Zapata pensò anche di chiamare Ricardo Flores Magón a collaborare con lui, ma l’invito arrivò troppo tardi: il direttore di Regeneración stava già scontando a Leavensworth la detenzione definitiva.
Un altro magonista passato a diverso schieramento, Francisco J. Mújica, fu l’estensore materiale della costituzione messicana del 1917: la più avanzata della sua epoca, quanto a tutela dei diritti dei lavoratori e delle donne. Più avanzata persino del presidente che la promulgò, l’ex porfirista Venustiano Carranza. Sotto il suo governo si tenne anche il primo congresso femminista messicano, in cui alcune redattrici di Regeneración ebbero una parte decisiva.
Mentre Ricardo Flores Magón si spegneva sotto le malattie e le frequenti percosse, il suo pensiero forgiava almeno in parte la repubblica messicana nascente. Si disse socialista il presidente Álvaro Obregón e, con minore sincerità, il suo successore, Plutarco Elías Calles. Soprattutto, il magonismo influenzò l’anarcosindacalismo messicano, così forte che, ancora negli anni Trenta, sovrastava di dieci volte i sindacati controllati dai comunisti.
Oggi tracce di magonismo possono essere rintracciate nelle rivolte libertarie di Atenco, di Oaxaca e, in certa misura, nell’azione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Sta di fatto che quando, in Messico, qualcuno intende dire “da qui non mi muovo finché non saranno riconosciuti i miei diritti”, spiega la bandiera rosso-nera. Al fianco c’è spesso il ritratto di Ricardo Flores Magón. Non “precursore”, ma incarnazione della volontà ostinata del rivoluzionario, al di là di ogni traversia personale. Chi lo picchiava in carcere è stato dimenticato. Lui resta.