di Dziga Cacace
333 – Rambo 2 – La vendetta di un genio, USA 1985
Una cava dove dei poveri forzati spaccano le pietre come in Prendi i soldi e scappa: ecco dov’è finito John Rambo dopo il discreto casino combinato nel primo episodio della saga. Ma appare il solito colonnello Trautmann che di Rambo non s’è dimenticato: gli propone una missione suicida nel nord del Vietnam in cambio della libertà e John ci sta dentro di bestia. Ha una sola domanda, battuta che mi convince immantinente a proseguire la visione: “Signore, ci lasceranno vincere, questa volta?”. Questa pellicola si preannuncia celestiale. Sono stanco, non ho energie mentali per un bel film, ho voglia di qualcosa di estremamente divertente, voglio ghignare, voglio dialoghi esilaranti: Rambo 2 fa al caso mio, è decisamente la mia cup of tea.
Il nostro amico, in virtù delle passate glorie, è l’unico deputato alla missione in terra nemica. Medaglie a chilate e 59 nemici uccisi nel suo personalissimo score hanno convinto anche i più recalcitranti: è lui l’uomo che può andare a fotografare i campi di prigionia dei 3000 (bum!) soldati americani mai liberati dagli infidi musi gialli. E anche se adesso gli americani dispongono di adeguate tecnologie, Rambo sentenzia: “Io credo che la mente sia l’arma migliore”. Evvai! Rambo va, compie la missione da paparazzo, ma non resiste: libera un compatriota con l’aiuto di una vietnamita (avete presente i cazzetti vietnamiti al confronto di quello palestrato di Stallone?). Al momento del recupero – orrore! – di nuovo il tradimento: i comandi lo lasciano lì. Il nostro eroe è fatto prigioniero da dei russi di cattiveria bestiale che lo torturano, lo tagliuzzano, lo elettrizzano, insomma lo provocano, sinché il nerboruto Stallone non s’incazza davvero e spacca tutto. Infine, con un elicottero, libera un pacco di prigionieri, aumenta il suo score di altri 100 cadaveri comunisti e poi torna a casa più incazzato di prima. Il colonnello Trautmann gli chiede come vivrà adesso e lui, andandosene: “Giorno per giorno”. Semplicemente sublime. Con Rambo 2 sghignazzi e durante la visione ti puoi permettere di fare un sacco di cose. Infatti non accade quasi nulla e uno può guardare il video ogni 3 minuti e intanto leggere, cucinare, farsi i cazzi propri, sicuro che quando tornerà a degnare d’attenzione questa schifezza, nulla della trama gli sarà oscuro. Cinema (?) per cerebrolesi, Rambo 2 è un concentrato di godibili cacchiate molto rivelatrici: nonostante dieci anni prima fosse stato proprio il popolo vietnamita a fare agli americani un mazzo tanto, la loro rappresentazione è invariabilmente questa: tutti in divisa regolare, annebbiati da fumo e alcol e sessualmente debosciati. E non mancano gli smarroni sicuramente consapevoli (la vecchia bandiera dei Vietcong utilizzata come se fosse quella del Vietnam attuale, i russi che utilizzano elicotteri Bell Kiowa cui è stata appiccicata una bella stella rossa, etc.). Tra i responsabili di questo guazzabuglio firmato George Pan Cosmatos (anche spettacolare, va detto) c’è pure James Cameron. Ho gustato questa gollata di mota e, in fondo in fondo, spero che TMC mi regali a breve anche un terzo episodio che si preannuncia grandioso. (Diretta TMC; 16/3/00)
336 – Three Kings di David O. Russell, USA 1999
Sono ancora a Parigi, e la sera, beh, cinéma! Quattro soldati americani, solo sfiorati dalla guerra sporca che stanno combattendo in Iraq, decidono il colpo che potrebbe cambiargli la vita: trovata nel buco del culo di un prigioniero iracheno una mappa che indica l’ubicazione del tesoro in lingotti d’oro di Saddam (rubato in Kuwait) si mettono alla ricerca scatenando un inferno. Di contorno la retorica trionfalistica di una guerra che già tutti si sono dimenticati e il ruolo della stampa imbavagliata e alla ricerca di uno scoop. Clooney guida la truppa che s’imbatte in iracheni ribelli e iracheni costretti a ubbidire al Rais, fino a qualche mese prima foraggiato dalle potenze occidentali. Costruito discretamente (il film perde ritmo nella seconda parte), Three Kings ha il pregio di parlare di qualcosa di cui nessuno s’è mai più voluto occupare e lo fa in maniera scontrosa mettendo in bocca ai diversi nemici le loro ragioni. Come un M.A.S.H. degli anni Novanta, Three Kings satireggia gli ottusi comandi, la becera politica estera statunitense, il cinismo di chi combatte e più di una volta sottolinea il disagio di chi da Saddam è stato (ed è tuttora) tiranneggiato. Fotografia azzeccata e accecante di Norton Thomas Sigel, alcune trovate di montaggio molto intelligenti, attori in parte. E addirittura una geniale citazione del secondo Guerre stellari (se non erro), quando i nostri eroi sono assaliti dai gas. Insomma, un film piacevole in cui la retorica virata finale (paciosa e dolciastra) viene per fortuna smentita con ironia. Ovviamente in USA nessuno ha visto il film, troppa fatica per il cervello e troppe colpe da ammettere. Visto in originale alle Halles, mica pizza e fichi. (Sala UCG, Parigi; 25/3/00)
337 – Magnolia di Paul Thomas Anderson, USA 1999
Barbara e io non sappiamo assolutamente che oggi scatta l’ora legale. Buchiamo una visita guidata a Saint Sulpice e tutti i nostri programmi vengono scombinati. Non bastasse, si scatena un violento acquazzone e così troviamo rifugio nel cinema Luxembourg III. Dunque, ho visto Magnolia in lingua originale e con sottotitoli in francese, il che, con un parlato molto stretto, ha reso alquanto difficoltosa la comprensione. Anderson costruisce un affresco altmaniano seguendo le vicende di alcune persone che vivono nella San Fernando Valley, tutte, in un modo o nell’altro, coinvolte da uno show televisivo dove dei bambini dimostrano la loro competenza sfidando degli adulti. Il vecchio Earl Partridge (Robards) è in fin di vita e la più giovane moglie (Julianne Moore, bellissima nella sua maturità) lo affida a un premuroso infermiere (quel Hoffman già visto in Happiness). La Moore sta cercando il modo di far morire in fretta il marito, ma quella che all’inizio sembra solo un cinico liberarsi di un peso, non è altro che il compassionevole gesto estremo per un amore troppe volte tradito. Parallelamente seguiamo le vicende di Jimmy Gator, presentatore da quarant’anni di What do Kids Know, lo show in cui è impegnato un bambino prodigio sul quale il padre ha posto molto fiducia, troppa. Anche Gator sta morendo di un tumore e la fine che si avvicina lo porta a fare pace con la figlia molestata in giovane età. Intanto un buon poliziotto cerca l’amore della sua vita, un guru telematico (Tom Cruise, paurosamente in ruolo) guida la rivolta del maschio vessato e un ex campione dello show di cui si diceva si arrabatta per rifarsi i denti e conquistare un barista di cui è innamorato. Le vicende s’intrecciano perché Cruise è figlio di Robards e da lui è stato abbandonato in giovane età con la madre divorata anch’essa dal male del secolo; il poliziotto s’innamora della figlia di Gator e farà desistere l’ex bambino prodigio – oggi mediocre impiegato – dal furto per la sua operazione dentaria. E Gator dovrà abbandonare in preda ai dolori il suo show, mentre il piccolo campione perderà volutamente, rifiutandosi di stare a un gioco dove gli è anche rifiutato il più elementare dei bisogni fisici, pisciare. E dopo una catastrofe biblica (la pioggia delle rane) tutte le vicende sembrano chiudersi. Tantissima la materia narrativa, non sempre assecondata dal talento del regista che però per almeno le prime due ore gestisce l’incrociarsi delle storie con un montaggio superbo e con piani sequenza vertiginosi. Forse il film è un po’ lungo e alcuni episodi potevano essere tagliuzzati, ma di fronte a questo impeto affabulatorio che regala interpretazioni superbe e scene madri toccanti, sarebbe ingeneroso fare i pignoli. Non so quanto Anderson abbia voluto metaforizzare l’America di oggi: il tumore che la condanna a morte è la televisione, con i suoi meccanismi di potere schiaccianti. Ma probabilmente la morale non è così semplice: un prologo bruciante ci insegna che nulla avviene a caso e che se noi ci scordiamo del passato, questo non si dimentica di noi. I peccati dei padri vengono scontati dai figli e quello originale è ben più vecchio dell’intrattenimento televisivo. Lo stile fiammeggiante di Anderson si concede pause comiche, humour nero, trovate paradossali (l’evento atmosferico improbabile, ma possibile) e utilizza la musica come collante narrativo in maniera originale, ma è nel dipingere i personaggi che si vede il vero talento della regia: come in Boogie Nights la cinepresa, talvolta impietosa, ci comunica la compassione per queste vite alla ricerca della felicità. Meno compatto di American Beauty, forse con punte più alte di commozione e piacere, Magnolia è un film bello, imperfetto ma generoso. (Sala Luxembourg III, Parigi; 26/3/00)
339 – Velvet Goldmine di un complessato triste, USA 1998
Il glam rock: che bella materia per tirarci fuori un film. Grande musica, ambiguità, immagine, personaggi, colori, costumi… e ti viene fuori questa irritante e penosa cazzata di Velvet Goldmine, una porcata immane che pecca di presunzione e ignoranza. Il regista Todd Haynes, per raccontarci quella straordinaria stagione creativa, opta per una struttura wellesiana, alla Quarto Potere, con un giornalista che intervista i testimoni dell’epoca per ricostruire la storia di Brian Slade, allora principe del Glam. Ovviamente il giornalista era anch’egli un fan e l’indagine diventa anche viaggio interiore in cui ripercorre il suo cammino verso l’omosessualità. Slade è ricalcato perfettamente su Bowie, con tutti i suoi cambiamenti di costumi e stile. Dopo un esperienza artistica e affettiva con Curt Wild (evidentemente Iggy Pop, ma con molto anche di Cobain, cosa che tra le tante non c’entra una beneamata), Slade si ritirò dalle scene simulando un attentato a un suo concerto, stabilendo la propria morte come personaggio pubblico. Va a finire che il giornalista scopre che Slade è diventato quel Tommy Steele che appoggia il conservatore presidente USA. Urca, che scandalo brutto brutto! Allora: non si capisce quale valore documentario abbia una storia dove tutto viene travisato e i personaggi ricalcano solo fino a un certo punto figure realmente esistite. Sono perfettamente individuabili tutti i protagonisti dell’epoca (Glitter, Bolan e altri), ma Haynes si concentra principalmente sul simil-Bowie, cosicché del movimento glam si dice poco o nulla, perché nacque, cosa rappresentava, quali antenati aveva (sù, un po’ di sforzo, non basta far cantare al protagonista un pezzo di Little Richard). E oltre a tutto, giacché il Duca Bianco ha tanti difetti ma sa veder lontano, manca anche la musica che più ha saputo rappresentare l’epoca e che non è stata concessa. E vabbeh, dirà qualcuno, Haynes ha fatto un film di fantasia, dove il 1984 in cui si svolge la vicenda è orwellianamente tetro. Okay, allora questo è un film che – appurata l’inutilità documentaria – è solo una menata, ha uno spunto risaputo gestito pedestremente, è lungo e probabilmente costoso, è recitato con alti e bassi, presenta una galleria di macchiette degne di film di serie Z, fa strame di ottima musica, gioca con gli zoom anni Settanta e poi infila incongrui clip molto anni Novanta, cita Oscar Wilde a cazzo e gestisce il tutto senza alcuna ironia e perdendo pezzi da ogni parte. Complimenti a Michael Stipe (R.E.M.) che ha messo soldi in quest’operazione (e anche in Essere John Malkovich; qualcuno dovrebbe prestargli qualche vhs, così, per fargli capire cosa sia un film). Complimenti ai doppiatori che riescono a dire Creedence Clearwater Ràivivols e un poderoso calcio in culo a Cineforum che a questa puttanata ha dedicato la copertina e un lungo articolo con inesattezze e sviste. Fate voi, per me è una cagata. (Vhs da Tele+; 29/3/00)
345 – Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, Gran Bretagna 1999
Questo film, alla sua uscita, l’ho evitato accuratamente. I cinema erano zeppi di cagoni che andavano a vedere l’ultimo Kubrick perché era veramente l’ultimo definitivo Kubrick (e non importa che in molti casi fosse il loro primo Kubrick), per poi uscire dalla sala e lamentarsi che era una porcata. Ora, non che questo giudizio generalizzato mi facesse paura, ma metteteci anche la critica freddina e, allora, mi son detto, perché subire il ricatto? Sono andato avanti per due mesi dichiarando con gli amici di aver visto il film e snocciolando i classici tre pareri standard: fotografia bellissima, messa in scena gelida, film un po’ deludente. Più o meno tutti dicevano le stesse cose, se ne ciangottava per una buona mezz’ora davanti a una birra e poi facevo il colpo di scena ammettendo di non aver visto un cacchio. La commedia è andata avanti per un po’ e poi m’è venuta veramente voglia di andare a vedere il film, anche perché era chiaro che il giudizio della critica dei quotidiani e dei tuttologi che infestano i settimanali era viziato dal fatto che avevano fatto cagnara per due anni a montare il caso del film erotico, del film quasi porno, del film hard di Kubrick, e poi – ma pensa un po’! — tutti a frignare che non si vede quasi nulla e che non c’è il pecoreccio tanto auspicato. Insomma: ora la mia mente contorta accettava di vedere il film, solo che non era più in programmazione. E allora ho fatto ricorso alla vhs, ripromettendomi di pagare tributo anche in sala non appena ne avessi avuto occasione. La storia è più o meno risaputa: Alice Hartford (la Kidman, fascino perverso non male) confessa al marito Bill (il Cruise, perfetto come inetto) di aver fatto un sogno erotico che la vedeva protagonista. Allora Bill, stimolato/autorizzato come se il sogno fosse la realtà, si avventura a cercare emozioni forti: una prostituta, un’orgia in maschera… un casino d’inferno (con morta a carico) di cui si pente amaramente. Torna con le pive nel sacco dalla moglie e le confessa tutto pur non avendo fatto nulla. Al che la Kidman conclude con l’invitante asserzione che ora non gli resta che scopare. Questo per ridurre un capolavoro a un raccontino degno di Le Ore. Invece c’è tanto, tantissimo di più. Dal punto di vista tecnico, freddo quanto si vuole, Kubrick firma una opera di gusto straordinario dove nulla ho da eccepire. Steady cam scioltissima, composizione frontale e simmetrica, luci blu e arancio a sottolineare le emozioni dei protagonisti, scenografie perfette, musiche perfette. Dal punto di vista narrativo c’è l’abilità di mettere in piedi un thriller psicanalitico, a tratti erotico, a tratti angosciante, con bei dialoghi e ritmo sostenuto nonostante la lunga durata. O perlomeno io non mi sono mai scocciato e dalla vicenda sono stato preso in pieno. L’unico dubbio è sulla visione punitiva del sesso extra matrimoniale (e lo dico io che sono una specie di Iman): non appena Cruise cerca timidamente un diversivo a una vita di coppia evidentemente stanca, ecco che sono guai, a rischio della pelle. Ma probabilmente questo è quello che rimane del film in una testa vuota come la mia e deve esserci molto di più, solo che non ci riesco ad arrivare. Il film s’insinua sotto pelle e ritorna per giorni. Del resto se un sogno non è mai veramente un sogno né la realtà è sempre la realtà, allora forse l’invito finale della Kidman vuol dire anche altro. Ma cosa? Boh! Rivedrò il film, lo prometto. (Vhs originale; 9/4/00)
348 – Epidemic di un ilare Lars von Trier, Danimarca 1987
Europa mi ha reso faticosamente felice. Domani al De Amicis c’è The Kingdom II e io, allora, stasera celebro il mio marcio week end danese, scoppiandomi Epidemic, di cui ho sempre letto molto bene. Prima però c’è il saggio di fine studi di Von Trier, Immagini della liberazione. La prima cosa che mi viene in mente è: e se lo bocciavano? Il filmetto (una cinquantina di minuti, francamente estenuanti — ed è un eufemismo) narra il destino di un soldato tedesco a secondo conflitto mondiale appena concluso. La disperata resistenza, le ultime crudeltà, la resa, il ritorno dalla moglie (che s’è data a un soldato americano), il suo tradimento e la consegna ai partigiani dopo averlo accecato. Così ho capito, poi la certezza, beh, chiedete un po’ troppo. Quello che colpisce è che, più o meno, i temi sono gli stessi di Europa. Anche qui la Germania, ingombrante vicina dei poveri danesotti, anche qui il dover accettare lo sconvolgimento in atto. E poi l’elemento visivo che ricorrerà nel cinema a venire: la fotografia, per la prima metà del film giocata su tonalità aranciate e poi, nella fase del tradimento, bluastra. Pesante, ma curioso. Non lo rivedrò mai più, comunque. Mai. Passiamo a Epidemic che è un film a suo modo bizzarro, divertente, terrorizzante. Von Trier gioca coi generi e per il primo quarto d’ora pensi di vedere un documentario su di lui e l’amico Niels Vorsel (reale co-sceneggiatore di tante cose). Lars e Niels devono consegnare una sceneggiatura per un nuovo film a Claes, dirigente dell’Istituto di cinema danese. Ma il computer malandrino si mangia il file. I due sceneggiatori hanno cinque giorni a disposizione: si rimboccano le mani, abbandonano la storia precedente e ne iniziano a pensare una nuova su un medico che deve salvare l’umanità da una sconvolgente epidemia, senza rendersi conto che il portatore del virus è lui. Da questo momento si mescolano scene di scrittura, decisioni, incontri, ricerche e porzioni di film così come i due scrittori lo immaginano. Ma quando si arriva alla consegna di 12 striminzite pagine di racconto a uno sconcertato Claes, succede quello che molti indizi avevano già suggerito: l’epidemia è realmente in atto. Un ipnotista fa viaggiare una paziente all’interno del film e la ragazza rimane infetta (terrore puro, veramente). E anche gli autori non se la passano tanto bene, mentre il virus invade l’Europa attraverso le arterie autostradali. Generi cinematografici che si mescolano felicemente, documentario e fiction, 35 e 16 millimetri, bianco e nero accecante, sgranato o curatissimo, ironia e terrore, Epidemic è il primo saggio della corrosiva genialità di Von Trier, con tanti temi (l’ipnotismo, il destino dell’Europa, l’acqua che non purifica ma sommerge e infetta) che torneranno nel suo cinema. Non per tutti, ma proprio bello. (Vhs da Tele+; 15/4/00)
349 – Tranceformer di un Cretinetto, Svezia/Danimarca 1997
In previsione della celestiale visione delle 5 ore di The Kingdom II imposto una giornata con nessun tempo morto perché devo scrivere una marea di roba per lavoro, devo completare alcune di queste vecchie recensioni e devo fare delle commissioni. Mi sveglio presto e, pimpante come un operaio sud coreano, alle 11.30 ho ritirato il mio certificato elettorale e ho votato (male in ogni caso, lo so), ho messo in ordine la cucina che faceva schifo, ho riposto negli armadi la biancheria lavata, ho letto il giornale e fatto le telefonate domenicali di rito. Parto col lavoro e non spreco un secondo di tempo. Alle 13.15 mangio e poscia ritorno immantinente al lavoro. Alle 17.50 mi faccio l’ennesimo caffettone, finisco di lavorare in perfetto orario e mi preparo uno strategico zainetto con i generi di conforto che servono quando bisogna affrontare quasi 5 ore di cinema. Panino con prosciutto (cotto, per prevenire la sete) e poi cioccolato per crisi ipoglicemiche, caramelle alla menta per fauci secche e una generosa bottigliata di tè al limone. Il corredo del topo da cineteca è pronto e sono le 18.25. Esco di casa in preda all’emozione e copro la distanza che mi separa dal De Amicis in dieci minuti netti, praticamente correndo come Bikila. Le massicce dosi di caffeina e il ritmo sostenuto inducono una tachicardia da infarto, ma c’è The Kingdom II, devo arrivare presto per occupare il posto migliore e scongiurare la folla delle grandi occasioni. Accedo alla biglietteria e la corsa rallenta… noto allarmanti facce distrutte, uno sta prendendo a calci una pallina di carta, un altro fuma come un turco, un altro ancora parla accoratamente al cellulare… mi avvicino paventando il peggio e apprendo la ferale notizia: ciò che proietteranno stasera non è altro che la seconda parte del primo Kingdom. Vacillo sulle gambe: lo stesso scherzo che ci fece il Lumière due anni fa… tutto perché qualche augusto coglione della distribuzione insiste nell’equivoco e chiama Kingdom II le ultime 2 bobine del capolavoro di Von Trier. Solo che al Lumière si perdona tutto mentre qui c’è il Comune di Milano che paga e nessuno s’è preso la briga di controllare prima cosa contenessero quelle fottutissime bobine con l’illusoria scritta. Torno a casa barcollando come uno zombie, piango con dignità e non apro neanche l’ombrello prendendomi un po’ di pioggia, tanto sono insensibile. Sono a casa alle 18 e 50, stracco e deluso, e mi accascio sul divano accendendo la tivù come un automa ed ecco che mi appare Emilio Fede già pronto ai suoi commenti sulle elezioni regionali. E capisco che non sarà una serata buttata via: volevo il marcio, l’orrore, la comicità, il patetico e il grottesco cui ci ha abituato Von Trier? Guarderò il Tg4. Prima dei risultati finali delle elezioni, però, mi scoppio Tranceformer di Stig Björkmann, ritratto del genio danese a opera di un critico svedese che ha già curato un lavoro simile su Bergman (che non ho visto) e che è il curatore del libro Allen su Allen, una lunga intervista a Woody che si distingue per ripetitività e totale genuflessione nei confronti del regista. Una merda, insomma. E Tranceformer com’è? Un documentario senza idee. Una semplice (a tratti interessante, a tratti no) storia della vita e della carriera del regista, corredata dei pareri dei collaboratori più stretti. Alla fine si capisce che le famose fobie di Von Trier sono probabilmente ingigantite, ma che non di meno il buon Lars è tipo da prendersi con le pinze. Ed è uno splendido bugiardo come dimostra la chiusa quando dichiara di aver visto un UFO: sappiamo che mente e lui sa perfettamente che faremo finta di credergli. (Vhs da Tele+; 16/4/00)
(Continua — 10)