La casona che prima del terremoto del 12 gennaio scorso a Port au Prince era la sede dell’Aumohd, un’associazione di avvocati da anni in lotta per la difesa dei diritti umani ad Haiti e per la protezione della popolazione dei quartieri disagiati, è adesso anche un rifugio d’emergenza che il suo presidente, Evel Fanfan, alcuni ex-impiegati dell’associazione, due ragazze del quartiere che hanno perso casa, anche se per fortuna i loro familiari sono vivi, e a volte vi dimorano dei collaboratori stranieri come me e Diego che vengono ad aiutare, a informare, a capire, a vivere. Siamo i primi dopo il sisma e veniamo trattati con tutte le attenzioni del caso.
Ci viene proposto di dormire in giardino o nel parcheggio sotto un tendone di plastica enorme che copre alcuni letti d’emergenze, ma preferiamo entrare in casa, salire un piano e stenderci in terrazza sui nostri materassi cinesi gonfiabili, sotto le stelle che brillano orgogliose e indisturbate sopra la città senza luce. Negli uffici del piano terra, sgomberi e puliti, c’è la lavagnetta di Evel dove hanno scritto i nostri nomi e quelli di ogni ospite “residente” dell’associazione con le sue rispettive funzioni. Nessuno osa restare fermo sotto i tetti della casa e la scalata ai piani superiori è un’impresa psicologicamente impegnativa per chi sente ancora dentro il tremolio, il frastuono, la rottura e la caduta, cioè il trauma per la devastazione concepita e attuata dalle forze della natura. Fatalismo, animismo, culto della morte, reminiscenze voodoo e religiosità profonda si fondono nella cultura haitiana con un cattolicesimo di facciata ed un protestantesimo in crescita dirompente grazie ai finanziamenti delle potenti chiese statunitensi e alla crisi della tradizione cattolica romana proprio come accade anche in Messico e in tanti altri paesi dell’America centrale e dei Caraibi.
Le proporzioni del disastroSebbene la gente in qualche modo fosse già abituata alle periodiche catastrofi naturali che la colpivano a queste latitudini caraibiche, non ci si aspettava proprio quel minuto di scosse tremende, ondulatorie, pervicaci e fatali che hanno provocato 230mila vittime, un milione e duecentomila sfollati, danni economici stimati in 14 miliardi di dollari oltre alle decine di migliaia di sepolti vivi che non verranno mai trovati e di cui spesso ci si dimentica. Una città vivissima e simile a un immenso formicaio ma ancora piena di fantasmi è quella che ci accoglie i primi giorni con la luce del sole che nel pomeriggio scalda l’aria oltre i 35 gradi. Le strade della zona si chiamano Delmas, sono contraddistinte solamente da un numero progressivo dispari per le vie che escono verso sud, e pari per quelle a nord, e tutte portano alla principale, anch’essa chiamata Delmas, ma senza numeri. E’ la via maestra che dopo 5 chilometri di discesa verso il mare sfocia nel centro di Porto Principe. La Banca Interamericana per lo Sviluppo ha recentemente pubblicato le prime stime economiche sulle dimensioni della catastrofe, indicata come la più grande della storia in relazione alla popolazione haitiana di 10 milioni di abitanti. Si parla di 14 miliardi di dollari per la ricostruzione e una previsione del futuro dalle evidenti tinte catastrofiste, di quelle che piacciono tanto agli economisti econometristi ortodossi e statisticamente ferrati, che condanna il paese a rincorrere il suo passato per decenni e decenni dato che recupererà il suo prodotto interno lordo previo al terremoto solo nel 2040. Per ora meglio restare coi piedi e le cifre e per terra, abbandonare il disfattismo della vulgata economica imperante e tornare a Delmas.
Bombardamenti della terra
L’esplorazione parte da qui, dalla 49 in su e in giù, evitando mattoni, colonne, sbarre di metallo, immensi buchi nell’asfalto e occhi disperati e imploranti di gente disposta a lavorare, aiutarci, chiedere e sapere che non siamo lì per salvare nessuno, che cerchiamo di salvarci noi dal rumore e dall’ansia dell’impotenza materiale di vincere la mala sorte, il sottosviluppo e la povertà che hanno congiurato per distruggere tutto e sottomettere un popolo già prostrato da uragani, corruzione e disuguaglianze sociali. Alcuni scorci dei palazzi crollati e le sensazioni mi riportano ai racconti, alle vecchie foto e alle letture dell’epoca postbellica nella Milano e nella Roma straziate dai bombardamenti e dalla fame. La seconda immagine è quella delle città irachene, afgane e palestinesi che sin da piccoli siamo stati abituati a conoscere passivamente in televisione, incappando nella loro disperazione durante i routinari e distratti zapping tra i Jeffersons, il Pranzo è servito e la ruota della fortuna. Villaggi e case sempre uguali, sempre grigi, polverosi di macerie e deserto, sempre torturati, occupati e sorvolati da elicotteri stranieri e gruppi ribelli non identificati. Sarà retorico o scontato ma sono le prime impressioni, quelle che non si scordano. Le mura del cimitero del quartiere Delmas sono crollate completamente in modo tale che dalla strada, passeggiando, si scorgono le tombe di marmo, spuntano imperiose le croci di ferro, si notano i fiori e i paramenti colorati in quell’angolo surreale dell’altro mondo, in quel pezzo sfortunato dell’isola de La Hispaniola, dove i morti sembrano aprire le porte di casa per accogliere tanti fratelli sofferenti tra le macerie o agonizzanti negli ospedali da campo per offrire loro un soffio di pace eterna.
Nottate in bianco e nero
I cani randagi e i galli domestici cominciano a cantare nei cortili prima delle 5 mentre le zanzare ci accompagnano numerose nel mondo dei sogni, tormentato dai veleni emanati a causa delle loro punture e dal calore intenso d’afa tropicale. La doccia si fa con l’acqua di un pozzo raccolta in un secchio gigantee deposto al centro del bagno. Un generatore di corrente a benzina ci permette di avere l’energia elettrica per qualche ora al giorno anche se il prezzo da pagare per ogni pieno di serbatoio è molto alto, siamo oltre l’euro al litro di essence o gasolio, quasi come in Italia. La moneta locale, la gourde, si cambia a 50 per un euro e 38 per un dollaro USA tanto per la strada come nelle poche banche aperte o presso gli uffici onnipresenti della Western Union. Sulla grande rue Delmas c’è l’ambasciata canadese presidiata dai soldati di quella pacifica repubblica ghiacciata che viene presa d’assalto dalla gente in attesa fuori, davanti, nei dintorni, ovunque, per ottenere un visto e scappare via lontano in cerca di gelo e lavoro.
Dopo un paio di giorni di ambientamento e pratica intensiva di un francese precario, lingua sempre utile per farsi capire anche se la gente parla di preferenza il creolo, mettiamo a frutto il lavoro di raccolta dei primi contatti svolto prima di partire con lo scopo di poter intervistare cooperanti, attivisti e giornalisti che conoscono bene il paese e che possono aiutarci nella comprensione della situazione politica e sociale ad Haiti e nelle fasi di orientamento nella selva delle procedure per l’ottenimento dei famosi aiuti internazionali. Un progetto di cucina comunitaria e uno di riabilitazione di una piccola clinica di quartiere sono quelli che l’Aumohd ha in mente di realizzare. Riusciamo nel nostro intento e prendiamo due piccioni con una fava. Due incontri in due ore che ci fanno conoscere una realtà sconosciuta ai più.
Lusso nella polvere
Il giornalista del Corriere con cui chiacchieriamo nel giardino del lussuoso Hotel Plaza conosce bene la situazione e la storia recente di Haiti e intervista Evel Fanfan con veemenza alla ricerca di qualcosa che spesso non c’è, la notizia. Una storia che dovrebbe e potrebbe coincidere semplicemente con la realtà, o meglio le rifrazioni e i riflessi di essa, ma che spesso deve diventare qualcosa di più, deve rasentare i confini del morbo scandalistico o dell’ordinaria verità politicamente corretta per poter essere raccontata all’estero, in Italia per esempio, sui media mainstream. Nell’hotel l’ambiente è surreale, estremamente rilassato e tipico dei non-luoghi alla Marc Augé, cioè di quegli spazi della postmodernità che sono identici ovunque nel mondo, come ad esempio gli aeroporti o certe note catene globali di supermercati e fast food. Schiere di giornalisti provenienti da ogni angolo della terra si scambiano opinioni, guardano partite di football, navigano su Internet a velocità da sogno e possono scegliere tra varie marche di birra al bancone del bar mentre a cento metri in linea d’aria dalla reception s’intravvede il più grande accampamento di sfollati della città con migliaia di polverosi tendoni di plastica in successione che invadono piazze, strade e panorami. Siamo a pochi passi dal Palazzo nazionale, l’edificio sede del potere esecutivo distrutto dal sisma, simbolo di uno Stato inesistente, corrotto e debole prima e dopo che la terra tremasse per un minuto il 12 gennaio scorso.
Uno Stato che attende gli aiuti e governa da una tenda allestita dagli oltre ventimila americani sbarcati in terra haitiana per evitare “problemi di sicurezza” e garantire il flusso di aiuti in natura che stanno intasando i magazzini e spesso giacciono abbandonati nei loro anfratti. L’intervista serve anche a noi per comprendere meglio il dibattito politico haitiano e la collocazione dell’attuale presidente Renè Preval di fronte all’opinione pubblica locale ed estera: dopo la cacciata del popolare presidente Jean Bertrand Aristide nel 2004, oggi in esilio in Sud Africa, in seguito a un periodo di rivolte, violenza politica e instabilità economica con un’opposizione che boicottò le elezioni del 2001 e denunciò frodi elettorali, Preval è stato visto come il suo successore naturale dato che faceva parte del suo movimento ed era già stato presidente negli anni novanta. Dal 2004 al 2006 dopo le dimissioni forzate di Aristide, il giudice della Corte costituzionale gradito agli USA, Boniface Alexandre, ascende alla presidenza per due anni caratterizzati da un alto livello di repressione politica e sociale, dopo i quali Preval sembra un’alternativa accettabile per il popolo haitiano che s’illude di trovare un nuovo “Aristide ma senza Aristide”. Di nuovo le poche famiglie dell’elite nazionale alleate con gli interessi stranieri, soprattutto americani, riescono a determinare i processi politici nazionali in funzione dei loro interessi e a far sì che il movimento e la popolarità dell’ex prete Aristide vengano neutralizzati da uno dei suoi ex alleati che garantisce loro maggiore sicurezza e stabilità rispetto al suo “radicale” predecessore.Il secondo incontro di questa dinamica serata è invece con alcuni rappresentanti italiani della rete di ONG riunite sotto il nome di AGIRE che in Italia hanno raccolto in pochi giorni oltre 10 milioni di euro solo con gli SMS per finanziare le loro attività umanitarie qui ad Haiti. Anche da queste parti non se la passano male. Non siamo in centro ma poco importa, siamo comunque in altro mondo, fuori dal mondo. Evel Fanfan entra insieme a noi, questa volta in veste di traduttori e “mediatori culturali”, in un altro hotel dorato, il Palm Inn, una specie di grosso residence con piscina, camere e appartamentini ben decorati, puliti, con uno stile impeccabile e tutti i servizi, insomma un’oasi di tranquillità nel bel mezzo della sabbia e le rovine di Delmas 31, una via non asfaltata e non percorribile senza una jeep o un pick-up. Anche qui il ricordo catodico di Bagdad mi abbaglia ripetutamente, ma quel flash mi abbandonerà presto per lasciare posto alla visione concreta di un albergo del tipo “luna di miele a Cancun, Mexico”. Spieghiamo ai cooperanti i nostri progetti per capire che margini ci sono per ricevere degli aiuti direttamente da loro oppure da altre organizzazioni della rete, ma chiaramente non è così facile. Non è che avessimo grandi aspettative ma, nonostante la gentilezza e cortesia dimostrata dai nostri contatti del Palm Inn, c’è un po’ di delusione nel constatare come sia difficile collegare alcuni gruppi locali presenti sul territorio qui a PAP (Port au Prince come la chiamano qui con affetto) con le grosse realtà italiane del volontariato e del settore non profit. Comunque siamo solo all’inizio e ogni organizzazione ha le sue politiche. In questo caso i nostri non si occupano della zona in cui ci troviamo noi e quindi non se ne fa niente. Ci vengono dati alcuni utili consigli su come partecipare nei campi allestiti dalle Nazioni Unite alle riunioni, dette cluster, dove ci si iscrive per ottenere i materiali e beni come cibo, medicine e della solidarietà internazionale. Ci vengono dati inoltre degli indirizzi per trovare il centro di distribuzione degli aiuti italiani che si trova a Tabarre, vicino all’aeroporto. Ma senza nomi e contatti precisi è dura da quelle parti, dicono. Non è un gran bottino.
La donazione coraggiosa
Rinnovo l’invito a donare qualcosa per le attività dell’Aumohd qui a Porto Principe. Sento di poter garantire senza esitazioni circa la loro onestà e integrità nell’uso delle risorse raccolte: http://prohaiti2010.blogspot.com/ . Ringrazio chi ha già contribuito e chi deciderà di farlo saltando i canali tradizionali per aiutare direttamente questo gruppo presente in loco.
Alla prossima puntata…
Foto da Haiti: http://picasaweb.google.com/FabrizioLorussoMex/HaitiCanale Video Da Porto Principe YOUTUBE: http://www.youtube.com/user/FabrizioLorussoMex#p/a/u/0/_yFH73PqTS4