di Alberto Prunetti
[Al momento di completare questo articolo la stampa indiana ha comunicato la proroga di 6 mesi del visto di soggiorno in India della scrittrice bengalese Taslima Nasreen, minacciata nel suo paese da fondamentalisti religiosi. Taslima, in attesa di un visto residenziale, potrà intanto tirare un respiro di sollievo, anche se pare che questo visto provvisorio sia stato rinnovato per l’ultima volta. La redazione di Carmilla aveva partecipato alla stesura di un appello per la conferma dell’asilo politico in India.] A.P.
È una strana notte, quella tra il 13 e il 14 febbraio. È il capodanno cinese: l’anno della tigre. Il calendario gregoriano annuncia a pochi colpi di lancetta San Valentino, col corollario di e-postcards, fiori e inviti al ristorante. Anche i musulmani festeggiano qualcosa: lungo la strada a transito veloce i marciapiedi sono occupati per qualche chilometro da una striscia bianca di musulmani che costeggiano, col naso rivolto verso la luna, il mar arabico risalendo Mumbai da sud a nord, superato il consolato italiano e poi il tempio indù di Mahalaxmi, dea della ricchezza, e lo splendido santuario di Haji Ali, una moschea adagiata su un’isola che fluttua come un miraggio e nella scansione delle maree riesce a toccare terra attraverso uno stretto istmo di cemento.
Chiedo spiegazioni su questa strana parata di kurta bianchi al mio tassista ma lui non mi aiuta granché. Mi risponde col solito mantra islamofobo: questa gente non ci piace, non sono indiani, sono vestiti come gli arabi, mi fanno paura. Sono la quinta colonna del Pakistan in India. Non lo dice, ma lui ha già identificato gli autori dell’attentato che poche ore prima a Pune ha fatto saltare in aria un locale per turisti, la German Bakery, frequentata non dai ricchi del Taj Mahal di Mumbai ma da fricchetoni, backpackers e ospiti dell’ashram di Osho.
L’odio antimusulmano si estende sul Maharashtra, uno degli stati più ricchi dell’India, fomentato soprattutto dalla controparte indù dell’estremismo musulmano: quello Shiv Sena che, reinventandosi un’identità esclusivista Maharata, ha creato un movimento identitario ed esclusivista, fortificando la comunità locale (assolutamente eterogenea) attraverso l’individuazione di un nemico, un altro da colpire: prima i gujarati, poi gli indiani del sud, poi i comunisti, poi i dalit, i fuori-casta, in seguito i migranti interni e alla fine i musulmani. Un partito che, associato al BJP, l’organizzazione di destra più forte in India, quando non promuove riot che portano all’assassinio dei musulmani più esposti, organizza piccoli mob di fastidiosa spettacolarità. Negli ultimi giorni Shiv Sena ha minacciato alcune star di Bollywood per aver difeso il diritto dei giocatori di cricket pakistani di ottenere un visto di soggiorno per ragioni sportive in India. In particolare è stata lanciata una campagna contro il film “My name is Khan”, perché l’interprete, la superstar di Bollywood Shahrukh Khan, ha dichiarato di non aver nulla in contrario rispetto al fatto che i giocatori pachistani entrino in India. Il film di Khan è sostanzialmente un rifiuto, in chiave soft e bollywoodiana, dell’isteria anti-musulmana scoppiata dopo l’11 settembre 2001 (Khan è un nome molto diffuso tra i musulmani e l’attore ha subito due ore di interrogatorio in un ufficio della polizia di frontiera nordamericana dopo essere atterrato al Newark Airport nel New Jearsey: un episodio grottesco, perché il suo nome si trovava non nella lista dei “wanted” ma in quella delle 50 persone più influenti al mondo stilata nel 2008 da Newsweek, unico indiano assieme a Sonia Gandhi).
Gli sgherri del Shiv Sena — l’esercito recuperato negli slum di Bombay (ormai Mumbai, ribattezzata secondo la forma autoctona proprio per volontà del gruppo nazionalista), usato come squadra punitiva contro i comportamenti troppo “stranieri” — si è messo in azione e ha dato fuoco a qualche automobile e distrutto le vetrine di alcuni cinema, ma la gente è accorsa a vedere il film di Khan, che è un successo sia negli Stati Uniti che in India, dove sta andando in maniera superlativa al botteghino, anche se rimane ideologicamente un po’ debole: corretto, buonista ma poco tagliente. Meglio che nulla, comunque, in un’era in cui la caccia al musulmano è sport praticato su scala globale.
Quella del bando contro “My name is Khan” è una delle tante provocazioni del gruppo sciovinista patronato da Bal Thackeray (nella foto, che per paradosso ha un cognome anglicizzato dal padre ed è un fan di Michel Jackson… misteri della fede, anche se forse l’amore per Mr. Chirurgia-plastica si spiega col fatto che qualche anno fa il cantante per riuscire a ballare sulle note di “Bad” a Mumbai pare abbia donato una cospicua fetta degli introiti del concerto proprio al Shiv Sena…).
Ancora pochi giorni fa Thackeray, nel suo odio xenofobo che non gli impedisce comunque di proclamarsi ammiratore di Hitler, aveva cercato di mobilitare la gente contro Rahul Gandhi, il figlio di Sonia, lanciando la consegna: “Il principe italiano non è benvenuto a Mumbai”, ma Rahul ha fregato i contestatori che lo aspettavano al domestic airport di Santa Cruz ed è arrivato con un trenino regionale diretta a Victoria Terminus Station (anzi, mi scusino i puristi del Sena: Chhatrapati Shivaji Terminus, anche se tutti la chiamano soltanto VT).
Ancora prima un politico locale, legato al BJP, il partito di destra che qui fa coalizione con lo Shiv Sena, aveva proposto che i tassisti per avere una licenza dovessero parlate Maharathi, la lingua locale, che a Mumbai però non è usata da tutti (c’è chi usa l’inglese, chi il gujarati, chi l’hindi… il maharati alla fine è più diffuso negli slum che nei quartieri residenziali). In passato i “leghisti” locali avevano anche chiesto l’introduzione del sistema delle quote: l’80 per cento dei lavori doveva andare ai maharati, quelli del posto. Anche questo non ha funzionato, mentre il loro sogno nel cassetto, il visto per entrare a Mumbai, sembra ancora più lontano da venire.
In realtà tutte queste mosse sono risultate poco produttive: la gente fa la coda per vedere “My name is Khan”, coi tassisti si può litigare in una qualsiasi delle sette lingue che si solito si parlano a Mumbai e Rahul, come ho già detto, è arrivato col trenino, in barba all’esercito di Shivaji (Shiv Sena: l’esercito di Shivaji).
Niente di nuovo comunque. In passato Thackeray se l’è presa anche con M. F. Husain, un artista che aveva dipinto una dea indù nuda e che ha la sfortuna di portare un nome musulmano. Poi il Sena attaccò la regista canadese d’origine indiana Deepa Metha, per il suo film “Fire” che mostrava scene di amore saffico. Poi è toccata al cantante pakistano Ghulam Alì, maestro del ghazal (splendido lo slogan: “anche noi indiani sappiamo cantare”). Ossessionato dal cricket, l’ultimissimo obiettivo del supremo è la squadra degli australiani, gli “Aussies”, che sta per arrivare in India. Sembra che i nemici di turno siano scelti da un programma automatico che legge i lanci di agenzia, e il meccanismo comincia a stancare anche i media, che danno meno impulso alle notizie sullo Shiv Sena, almeno fino a quando non si infiamma la benzina o esce il sangue (cosa che capita, di tanto in tanto).
Detto questo, non bisogna pensare che il consenso che il Sena si è creato venga solo da deliri verbali e campagne spettacolari xenofobe. La base sociale del movimento è negli slum, anche se il grande capo se ne sta nel suo bungalow di Bandra, quartiere residenziale della zona nord di Mumbai, con una scorta di 170 poliziotti pagati dal governo. I suoi mobster sono tipi che lavorano 12 ore al giorno, che si prendono un po’ di schiaffi dai loro padroni autoritari, che si infilano nei treni in quei vagoni pieni di corpi e sudore in cui si scatena una rissa a ogni stazione quando bisogna uscire alla fermata. Gente che torna nella casa di mattoni e lamiera con un senso di umiliazione e di privazione per quei ricchi che vanno in taxi e neanche parlano maharati, gente che ogni tanto si lancia in uno scoppio di violenza catartica contro quei fraudolenti artisti e cricketer filo-occidentali.
In questo modo il Sena si è costruito una base sociale radicata negli strati bassi della popolazione. Ma non l’ha fatto certo solo con l’ideologia, ma col lavoro sociale espletato in senso esclusivista. Un esempio: chi vive in uno slum non ha accesso ai servizi sanitari. Lo Shiv Sena ha le proprie ambulanze che ti portano all’ospedale. Passare attraverso il Sena ti garantisce questi servizi. Ovviamente se sei musulmano fai prima a morire, anzi: forse ti aiutano loro.
Ma torniamo alla cronaca interpretata in senso complottista e delirante dal Sena. Adesso su tutti i giornali si parla dell’attentato di Pune (ma della vittima italiana non si dice molto, forse la famosa unità di crisi della Farnesina fatica a seguire l’attivismo dei colleghi nepalesi e iraniani… questo per dire che delle vittime straniere — ho provato di persona a chiedere — la memoria dei mumbaikars, quelli del posto, proporzionale al solito alla copertura mediatica, ricorda solo la vittima nepalese e quella iraniana: l’italiana se la sono dimenticata proprio, ed è pazzesco considerando che qui se sei europeo già fai notizia…) e la carta giocata da Thackeray è stata quella di dire che lui l’aveva detto. Siccome Shahrukh Khan e altri artisti (a cominciare da un’altra stella di Bollywood, il mitico Aamir Khan, lui stesso con cognome sospetto) fanno il tifo per i giocatori di cricket pakistani, ecco che i Pak possono permettersi il lusso di fare attentati a casa nostra, come è successo a Pune. Deliri shiv-senili, che ormai anche i media riprendono come bizzarrie dell’età.
Alla fine, lo Shiv Sena lancia campagne mediatiche che parlano lo stesso linguaggio dei suoi pretesi nemici musulmani: l’appello alla guerra santa e la maledizione religiosa. Di fatto, una sorta di Shari’a. Solo che c’è qualche aspetto caricaturale, dovuto forse al passato del supremo Thackeray come cartonista e illustratore: ormai lo Shiv Sena se la prende anche contro San Valentino. Che guarda caso, stava proprio per scoccare quando il mio taxi mi portava davanti al santuario musulmano di Haji Ali, a pochi minuti dall’attentato di Pune, nel momento in cui cominciava l’anno della tigre, mentre i musulmani guardavano la luna per ragioni che ancora non ho capito. Qualche complottista troverà una ragione per collegare tutti gli eventi: gli astrologi non mancano in India. Alla fine mi toccherà trovarmi un alibi.