di Alberto Prunetti
Luciano Bianciardi polemizzava ferocemente contro il provincialismo erudito degli studiosi locali, che lui chiamava in senso spregiativo “archeologi” e “medievalisti”. Li attaccò ferocemente nelle pagine iniziali de Il lavoro culturale e rispose al loro cicalio abbandonando il retroterra grossetano per seguire un nuovo progetto editoriale nella Milano del preteso “boom economico”. Rimase impantanato con un piede nella provincia e l’altro nel jet-set degli intellettuali mainstream, guadagnandosi gli odi degli uni e degli altri e conducendo male una vita agra, pieno di grappa cattiva e sensi di colpa.
Gran parte delle sue accuse contro i “localisti” erano giustificate. E lo sono anche adesso, in un’epoca in cui “locale” vuol dire qualcosa di peggio dell’epoca di Bianciardi.
Se ancora negli anni Sessanta il localismo poteva essere interpretato come un punto di vista atto a cogliere il paese reale, ai nostri giorni il rischio è che questo termine indichi una rappresentazione comunitaria e identitaria della realtà, falsamente ripiegata su se stessa. L’una e l’altra prospettiva soffrono di qualche aberrazione, ma l’astigmatismo miopico di chi vede sfocato e con colori poco vividi non è una ragione sufficiente per gettare a mare la prospettiva ravvicinata — macro, come si dice nel gergo fotografico – di chi scrive con l’occhio immerso nel locale. Sarebbe quindi un peccato consegnare gli studi locali ai leghisti mannari che si inventano lingue e tradizioni, o ai cialtroni che propagano deliri teosofici e misticismi strapaesani.
Uno studioso che difende il valore del lavoro culturale nella provincia col rigore della vecchia talpa e l’ottimismo dell’umanista è il viterbese Antonello Ricci (nella foto). Formato nella scuola degli studi folklorici e della critica letteraria, mescola la semiotica decostruttiva con uno sguardo sulla provincia che è più quello dell’antropologo che quello dell’autodidatta. Un piede nella scuola superiore (il professore che tutti conoscono), uno nell’accademia (è dottorando presso l’università della Tuscia), Antonello Ricci è il tipo che scrive articoli sul computer degli amici – il suo è sempre rotto – e che si fa un’idea delle cose biascicando il sigaro dentro al cappotto in lunghe passeggiate notturne dentro alle mura di Viterbo. In una città che un tempo era de “I vitelloni” (set magnifico del film di Fellini) e che adesso sente stringere sempre più serrato il morso della destra, il Ricci continua in direzione ostinata e contraria il suo attivismo intellettuale: scrive saggi sul fascismo viterbese, poi plot teatrali che lui stesso mette in scena assieme a un gruppo di attori autodidatti; di seguito il copione lo rovescia in versi, e intanto fruga negli archivi, intervista anziani, riscrive le loro memorie. E continua a camminare su quelle strade nere di Viterbo, una città provinciale, divenuta capoluogo solo per astuta convenienza negli anni del ventennio e che al duce e al fascio ha sempre restituito gratitudine. Una città comunque bellissima, che nelle passeggiate notturne a fianco del Ricci si apre come le pagine di un romanzo (Ricci è anche autore di una guida di Viterbo che appunto va letta come opera letteraria più che come pubblicazione tecnica).
Riassumo allora alcuni passi della bibliografia di Antonello Ricci:
_1932, racconto metricato (David Ghaleb editore, 2009): i personaggi di un racconto in rima: Gemma, una contadina orgogliosa a cui i fascisti hanno ucciso un figlio; Valerio, un bambino che un giorno inciampa e rotola tra le gambe di un regista che sta girando a Viterbo un film fascista (“Vecchia Guardia” di Blasetti); Edoardo, un fabbro trentenne podista e antifascista, innamorato di una ragazzina chiamata Libertaria, che urla il nome di lei ogni mattina all’alba mentre si allena e che quando taglia per primo il traguardo saluta a pugno chiuso, facendo incazzare i gerarchi. E poi il nonno Olindo, vecchio e un po’ sonato, cavallaro in pensione che racconta a Valerio di quando faceva il buttero in Maremma e di come sconfisse Buffalo Bill nella storica sfida tra cow-boys e butteri maremmani.
_Sottoassedio (David Ghaleb editore, 2009) è una pièce teatrale in tre atti dedicata al conflitto che oppose nel 1921-22 gli antifascisti viterbesi e gli squadristi neri, raccontata in maniera corale da una serie di personaggi: i cavatori, i poeti a braccio, i fascisti, gli arditi del popolo. Quasi una tragedia greca ambientata nello sfondo del peperino, la pietra vulcanica con cui è costruita Viterbo.
_Mezz’al Duce e Mezz’al Fascio (Malavoglia, 2003), un saggio che intreccia antropologia culturale e storia orale per affrontare il tema del consenso al regime fascista e del mito mussoliniano nella memoria contadina dell’Alto Lazio. Un lavoro interessantissimo condotto attraverso l’uso della memoria orale nell’intervista con vecchi testimoni del ventennio, attraverso le scritte murali dell’epoca, la poesia estemporanea in ottava rima e le barzellette politiche.
_Stoffa forte maremmana (Manziana, Vecchiarelli 2001) e Fare le righe (Stampa Alternativa, 2003): in questi saggi il Ricci ha raccolto una serie di articoli sull’ottava rima in Maremma, una forma di poesia contadina estemporanea in endecasillabi che sta risorgendo (e qui si coglie la resistenza e la capacità di adattamento di certi fenomeni locali tutt’altro che effimeri) e che ormai in provincia di Grosseto vede ragazzetti alternarsi, sia nel pubblico che nei palchi in cui si fanno le rime, ai vecchi pensionati.
_Una menzione speciale del lavoro del Ricci va alla curatela delle memorie pseudo-autobiografiche di semi-illetterati artigiani che hanno praticato mestieri ormai quasi scomparsi nella zona di frontiera tra grossetano e viterbese: dal vasaio al carbonaro fino a un campione dell’illegalismo maremmano, il tombarolo, ovvero il tipo che di notte andava su commissione alla ricerca di vasi etruschi nei tumuli dispersi nelle campagne, spesso tallonando gli scavi officiali in esplorazioni notturne sotterranee. Le memorie, attraverso la curatela di Antonello, raccontano la biografia di Pietro Bozzini, un tombarolo romantico, così bravo con lo “spillone” che la sovrintendenza ai beni archeologici negli anni Settanta si offrì di “comprarlo” e di farlo lavorare accanto ai professori e agli studenti, pur di non averlo come concorrente negli scavi. Questo libretto di memorie, nell’editing del Ricci, si intitola Seppellitemi con lo spillone. Autobiografia di un tombarolo gentile (Stampa Alternativa, 2003) (lo spillone è una sonda di ferro, un frugatoio di lunghezza variabile, in genere dotato di manubrio, con cui i tombaroli, percuotendo il terreno, “sentivano” — secondo alcuni, misticamente — le discontinuità del sottosuolo e individuavano le camere d’aria delle tombe etrusche, con tecniche artigianali che gli archeologi faticano a spiegare).
Sono solo pochi saggi del fronte vulcanico su cui si estende la ricerca di Antonello Ricci, che si radica come un’erica sul suolo tufaceo del viterbese ma si apre alla lotta per la difesa degli spazi pubblici e politici ( ad esempio il parco dell’Arcionello, un’aria protetta di 400 ettari a ridosso delle mura cittadine su cui gravitano mire predatorie contro le quali Antonello si impegna con attivismo inesausto), sempre più compressi da chi nel locale vede il particolare e ne fa spazio di interessi e di autoidentificazione esclusiva e comunitaria. Se la memoria dell’antifascismo e delle culture subalterne non svanirà in un’epoca di oblio mass-culturale, in parte sarà grazie a certi tombaroli resistenti come Antonello Ricci, che continuano a saggiare il terreno locale col loro spillone, in perenne ricerca di storie sommerse da condividere.