di Franco Ricciardiello
Durante il 2009 è circolata voce che Jean-Luc Godard stesse lavorando a quello che sarebbe rimasto il suo ultimo film. Proprio per questa ragione il fondamentale regista francese della Nouvelle Vague (o se preferite, “il più coglione dei registi svizzeri”, come apparve scritto sui muri di Parigi nel maggio ’68) avrebbe scelto un soggetto e un titolo degni di concludere una carriera. Le riprese di Socialisme sono finalmente terminate, il film uscirà nel 2010; per fortuna però si è anche diffusa la notizia di un successivo lavoro in preparazione, Les Disparus, tratto dal libro Lost dell’americano Daniel Mendelsohn (Gli scomparsi, Einaudi 2007), storia della ricerca di una famiglia ebrea di Bolekhiv (Ucraina) sparita durante la Shoah. Buon segno, decisamente: malgrado l’età Godard ha ancora troppo da dire, e i film più recenti, specialmente lo straordinario Notre musique (2004), sono lì a dimostrare che il vecchio “mestatore semantico” è ancora all’opera.
Nel frattempo, il calendario di celebrazioni per gli ottanta anni del regista si infittisce: il 4 febbraio la Cineteca di Bologna ha inaugurato una sua retrospettiva, e un’altra ancora più “corposa” è in programma a partire dal 10 febbraio al Museo del Cinema di Torino.
Da tempo Godard sostiene che il Cinema è morto; malgrado ciò, ha continuato imperterrito a fare un film dopo l’altro. Il trapasso sarebbe intervenuto nel 1945 quando, pur essendo “un’industria della morte”, il Cinema ha evitato di riprendere i campi di sterminio. Godard non si è mai trattenuto dall’usare in proposito una terminologia molto dura, p.es. nell’episodio numero 2b di Histoire(s) du Cinéma, intitolato Fatale beauté (1994) possiamo ascoltare: “Dato che voleva imitare il movimento della vita, era normale, era logico che l’industria del film si fosse da subito venduta all’industria della morte”.
È noto che Godard non ha mai amato il più famoso tra i film sull’olocausto, Schindler’s list; in evidente polemica con gli stereotipi dei film di cassetta, il suo Éloge de l’amour (2001) è concepito al contrario del film di Spielberg, cioè con le scene al presente girate in bianco e nero, mentre il colore è riservato alla parte nel passato. A chi gli fa notare lo straordinario impatto del film di Spielberg sulla cultura americana, Godard replica chiamando in causa Hollywood come pura industria dell’intrattenimento, e ricorda che la vedova di Oskar Schindler vive in miseria in Argentina perché non ha ricevuto un dollaro di diritti.
Godard e il Socialismo: un rapporto difficile e travagliato, sbocciato alla fine degli anni Sessanta dopo un discreto corteggiamento. Già in Les Carabiniers (1963, su sceneggiatura di Roberto Rossellini) la giovane maquisarde bionda prima di essere fucilata recita una poesia di Majakovskij e cita Lenin. Ma è naturalmente in La Chinoise (1967), storia di una bislacca cellula marxista-leninista fondata da cinque giovani in un appartamento parigino durante le vacanze dei genitori, che l’amore diventa maturo, anche se bisogna attendere l’anno successivo per una adesione al maoismo, che allora era la forma di partecipazione politica più in voga tra i giovani europei (la rivoluzione culturale cinese ebbe inizio nel ’67 e durò un decennio circa). A differenza di molti intellettuali contemporanei impegnati, Godard non abbandonerà mai il lavoro artistico per consacrarsi a quello politico, anzi cercherà di boicottare dall’interno la logica della produzione cinematografica: per esempio, accettando finanziamenti e consegnando un materiale completamente diverso. Il caso più significativo è forse Vento dell’est (1969) il “western politico” commissionato dalla RAI, che si trasformerà in un sabotaggio vero e proprio, un episodio di lotta di classe del lavoratore intellettuale contro il padrone/produttore: la sceneggiatura fu affidata a Daniel Cohn-Bendit, leader del Maggio francese, e poi praticamente ignorata; i finanziamenti furono utilizzati per pagare le comparse, militanti extraparlamentari di Roma; Gian Maria Volonté, la star che avrebbe dovuto garantire visibilità, fu sottoutilizzato e trattato come una comparsa. L’esperienza terminerà con la consegna di un film praticamente senza senso, invendibile, naturalmente a danno del produttore che non poté distribuirlo. Più organici e socialmente impegnati risulteranno invece due altri film quasi contemporanei: Pravda (1969) girato in Cecoslovacchia per denunciare l’invasione delle forze del Patto di Varsavia che soffocò la breve esperienza della primavera di Praga, e soprattutto Lotte in Italia (1970), anche questo commissionato dalla RAI e in seguito rifiutato, secondo Alberto Farassino “il più perfetto e esemplare film teorico del gruppo Dziga Vertov”.
“Dziga Vertov” è il nome del collettivo cinematografico fondato con Jean-Pierre Gorin negli anni della contestazione: il riflesso occidentale della wénhuà dà gémìng, la rivoluzione culturale maoista che ebbe enorme influenza sulla gioventù europea prima che manifestasse il suo senso profondamente autoritario. Dziga Vertov è il cineasta sovietico autore di Kinoglaz (1924), che una certa intelligencija mitizzò in contrapposizione a Ejzentejn, visto come antesignano del formalismo (accusa molto in voga negli anni di Stalin e danov). La preoccupazione principale del collettivo sarà la ricerca di un linguaggio cinematografico dialettico, principalmente con l’utilizzo di accorgimenti che paradossalmente ricordano proprio la “teoria del montaggio intellettuale” di Ejzentejn.
Per Godard negli anni della contestazione il problema era quello di “fare film politicamente”, non semplicemente “fare film politici.” A partire invece dagli anni Ottanta, archiviato il periodo di militanza, i suoi film si sono trasformati in lunghi videoclip. La colonna sonora non è più un commento aggiunto a posteriori, in funzione drammatica o dinamica: anzi, si ha spesso la sensazione che le immagini, piuttosto che raccontare una storia coerente, siano la rappresentazione visiva di un’esperienza estetica che trova nella dimensione acustica la sua ragione d’essere. Troppo importante è infatti ciò che i personaggi dicono, piuttosto che ciò che fanno. Questo elemento è sempre stato presente in Godard sotto la forma della “citazione colta”, la più caratteristica cifra stilistica del postmoderno.
La differenza fondamentale con i numerosi epigoni che lo ripetono esplicitamente (Quentin Tarantino soprattutto), è nel fatto che Godard non cita il cinema che lo ha preceduto, bensì la letteratura. Quasi fino dagli esordi, i suoi personaggi si esprimono con frasi tratte dalla narrativa o dalla poesia: già in Une femme mariée (1964), Pierrot le fou (1965), 2 ou 3 choses que je sais d’elle (1966), il gioco era esplicito, poi la situazione è esplosa negli anni Ottanta in una vera e propria cifra stilistica. In Nouvelle Vague (1990) non solo tutto il recitato della voce di commento in off, ma anche la quasi totalità dei dialoghi sono tratti da testi poetici e teatrali (Chandler, Dostoevskij, Faulkner, Rimbaud, Rousseau, Schnitzler, Mary Shelley e soprattutto Dante Alighieri) mescolati a caso al punto che neppure Godard stesso riuscì a riconoscerli a posteriori. E il procedimento estetico è continuato negli anni successivi, con risultati da brivido (e con l’allontanamento dalle sale del grosso pubblico, ormai definitivamente corrotto dai gusti imposti da Hollywood). I dialoghi di quasi tutti i film che seguono sono ancora collezioni di citazioni, come pure le voci off che si intrecciano con la colonna sonora, a volte sovrapponendosi una con l’altra, o come le battute dei personaggi, che spesso sfumano nella musica che aumenta apposta di volume. Non c’è dubbio che dopo Ejzentein, Godard è l’autore che ha dato più importanza al montaggio. Quasi sempre inizia le riprese senza una sceneggiatura, inventando il materiale a mano a mano che viene girato: se appare evidente che in questo processo il momento veramente creativo è la post-produzione, è altrettanto vero che alcune scene vengano pensate non solo con un determinato commento sonoro, ma addirittura in funzione di quello. È significativo il fatto che delle sue Histoire(s) du cinéma (1988-98) in otto puntate, la casa discografica tedesca ECM abbia pubblicato una colonna sonora completa in un cofanetto di 5 CD.
È evidente l’aspettativa di cui si potrebbe caricare un film di Godard sul socialismo; ma altrettanto forte è la possibilità di rimanere frustrati. Una breve sinopsi scritta di Socialisme è filtrata in rete insieme a un trailer apparso su youtube; questo è il testo: “Una sinfonia in tre movimenti. Il mediterraneo, una nave da crociera. Numerose conversazioni in molteplici lingue tra i passeggeri, quasi tutti in vacanza. Un vecchio criminale di guerra (tedesco, francese o americano non si sa) accompagnato dalla nipote. Un famoso filosofo francese, Alain Badiou. Un agente della polizia di Mosca, squadra inquirente. Una cantante americana, Patti Smith. Un vecchio poliziotto francese. Un’ufficiale licenziata dall’ONU. Un ex agente doppiogiochista. Un ambasciatore palestinese. Come nel viaggio marino degli argonauti, c’è in ballo dell’oro, eppure ciò che si vede (l’immagine) è molto diverso da ciò che si ascolta (il suono). Questa umanità in navigazione visita sei autentici (o falsi) miti: Egitto, Palestina, Odessa, Grecia, Napoli e Barcellona. La nostra Europa. La notte, un uomo che deve apparire in tv per presentarsi come candidato alle elezioni locali viene convocato davanti al Tribunale dei figli, una giovane e il suo fratellino, che lo chiamano a rendere conto di Libertà, Uguaglianza e Fraternità.”
A giudicare da questo trailer, i dialoghi di Socialisme si sviluppano intorno a frasi costruite come slogan, citazioni o pseudo-citazioni. Una giovane di colore dice: “Questa povera Europa. Non l’hanno purificata, ma corrotta con la sofferenza. Non l’hanno esaltata, ma umiliata con la riconquistata libertà.” [la medesima citazione è già apparsa in Liberté et patrie (2002)]. Sul ponte della nave da crociera che percorre il Mediterraneo, un signore anziano dice a una giovane in gellaba: “L’Islam è l’occidente dell’oriente”. Il padre che sta per essere giudicato dal Tribunale dice: “O vivere o raccontare, non abbiamo scelta”, ma la figlia risponde: “Io racconto. 1789, la notte del 4 agosto” (è la data in cui la Rivoluzione abolì senza indennizzo mille anni di diritti feudali). Il bambino con la maglietta CCCP che gioca a fare il direttore d’orchestra dice: “Darei anche l’assalto al sole, se un giorno il sole mi attaccasse”.
Cercare di capire qualcosa di più sul film sarebbe frustrante, non c’è autore meno prevedibile di Godard. Il trailer in alta definizione dura 4’15” e presenta immagini bellissime, di una perfezione fotografica, come è tradizione per un regista che sostiene la preminenza artistica del cinema rispetto al suo valore culturale, e la sua derivazione dalla pittura piuttosto che dalla fotografia o dal teatro. Non rimane che attendere l’uscita di Socialisme, dopo che tutti ne avranno parlato, saranno ben pochi quelli che vorranno o riusciranno a vederlo nelle poche sale in cui sarà distribuito. Non è un sapore che possa soddisfare i palati del pubblico abituati, dopo decenni di sbobba in salsa piccante, al gusto di Hollywood.