di Dziga Cacace
258 – Starship Troopers di Paul Verhoeven, USA 1998
Questo Verhoeven mi dà sempre da pensare, sia che faccia una cagata immane come Showgirl, che film inquietanti come Il fiore di carne o Il quarto uomo (passando per il mainstream intelligente di Robocop, Basic Instinct o Atto di forza). Non passa indifferente, il ragazzaccio. Ha dell’intuito e lo dimostra con questo Starship Troopers, che gli precluderà Hollywood per i prossimi 2 lustri. Trama: futuro della terra, il potere in mano a una casta militare, unici ad avere il requisito di cittadini. Bisogna combattere degli insettoni spaziali che ci minacciano lanciandoci degli asteroidi. Questo il succo: seguiamo le gesta di tale Rico, un decerebrato che non muore mai e perde i pezzi strada facendo. Intorno a lui altre facce da scemi, convinti militaristi. L’eroe esce vivo dalle situazioni più disperate e tutte le classiche situazioni di guerra vengono parodiate in maniera sottile ma evidente: l’addestramento, l’incidente, la crisi di panico, l’eroismo, il salvataggio impossibile etc. e si può leggere – nei diversi episodi – riferimenti a tutte le guerre degli americani. Lo spazio va riconquistato: vanno liberate le riserve dove vivono gli aracnoidi (come gli indiani nativi d’America), asteroide per asteroide (come coi giapponesi) e bisogna bonificare ogni cunicolo (come in Vietnam) per liberare il deserto (come nel Golfo). E c’è pure Fort Apache da difendere, con la cavalleria dell’aria che arriva all’ultimo momento.
Tutto è roboante, iperpatriottico, sinistramente nazistoide e la cifra satireggiante è subito data dai telegiornali che aggiornano sulla situazione bellica, invitando a schiacciare anche gli innocui insetti di casa propria. C’è pure una smielata e irritante love story di Rico nei confronti della macrotettuta Denise Richards, che frustra lo spettatore e il protagonista, concupito anche dall’ipodotata Dina Meyer. Un po’ B-movie anni Cinquanta, Starship Troopers è fin troppo leccato e alla fine non lo ha visto nessuno. Troppo intelligente per il grande pubblico, ma non abbastanza per il pubblico “grande”. (Vhs da Tele+; 8/10/99)
259 – Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, USA 1974
Grazioso filmetto che rivedo dopo qualche anno. Un povero compositore viene rinchiuso in una sala da concerti, il Paradiso, da un produttore diabolico. La sua musica viene messa in scena scatenandone le ire. Conclusione tragica. Ovviamente tutto visto secondo un’ottica ludica molto divertente. L’aggiornamento postmoderno dell’opera di Leroux è riuscito fino a un certo punto. È ottima la collocazione nel mondo del rock (e funziona tutto: droga, successo, groupies, contratti strappati etc.), è ben innestata la commistione tra Fantasma dell’Opera, Faust e Ritratto di Dorian Gray, ma la trama soffre di qualche salto poco chiaro e il gusto per la messa in scena (godibilissima, altroché) prende la mano alla regia. Del resto costumi e scenografie sono molto belli. La musica è carina – ma non di quella da fare un patto col diavolo, a dirla tutta – e gli attori principali sono in parte. Quel burlone del De Palma si diverte con split screen e uso costante di specchi, scelte motivate dallo sviluppo del tema dell’identità e della visione, con immediata erezione, sega ed eiaculazione dell’occhialuto critico in qualche rivista di settore, letta da altri critici occhialuti invidiosi. Film non perfetto, ma meritorio. (Vhs da Retequattro; 8/10/99)
261 – L’isola della donna contesa di Josef von Sternberg, Giappone 1953 e Sex Hygiene del terroristico John Ford, USA 1941
Secondo conflitto mondiale: alcuni marinai e soldati giapponesi naufragano su un’isola abitata soltanto da un uomo e una donna, tal Keiko. Presto tutte le attenzioni sono rivolte alla chiattona, ci scappano quattro morti e non si crede alla fine della guerra. Poi Keiko scappa con una nave americana, la zoccola, e scrive agli irriducibili convincendoli a tornare: saranno accolti come eroi. L’isola della donna contesa, ultimo film di von Sternberg (che si sarà identificato con quegli ossessionati di japs che non si vogliono arrendere), è un drammone delirante, affascinante ed estenuante, ricco di una fotografia in bianco e nero coloratissima, tutto girato in studio (a parte qualche inserto documentario e le immagini del mare che attornia l’isola). Interessante, ma ero veramente in forma. Faceva parte di una bella nottata di Fuori Orario: compreso nel pacchetto (oltre a sovrapposizioni di Lumière e immagini di vulcani in eruzioni e di Tetsuo sovrapposto a Freaks – interi, giuro. In redazione deve girare dell’ottima roba) c’era anche un documentario del 1941 di John Ford, Sex Hygiene. I bravi soldati yankee vengono messi in guardia in maniera spiccia, cruda e decisamente horror sulle conseguenze delle malattie veneree: inviti all’astinenza accompagnati da immagini di peni ulcerati o purulenti. Come bersi due litri di Vecchia Romagna corretti con un chilo di bromuro. Grazioso. (Vhs da RaiTre; 10/10/99)
263 – Il tempo s’è fermato del metronomico John Farrow, USA 1948
Charles Laughton è Janoth, un magnate dell’editoria che ha un orologio al posto del cuore. Fanatico della precisione e della puntualità, licenzia i suoi dipendenti per un nonnulla. E uccide anche una sua amante per gelosia. Allora affida il caso a un suo valente giornalista (Ray Milland), mettendolo sulle tracce di un fantomatico assassino, l’uomo per il quale s’era ingelosito. Il problema è che quell’uomo è proprio il giornalista, l’ultimo a essere stato con la bionda prima che venisse uccisa. Si difende depistando le indagini che deve condurre (perché tutti gli indizi portano a lui) e, in una corsa contro il tempo, scoprirà il vero colpevole. Avete capito bene, è l’antenato di Senza via di scampo, thrilleraccio avvincente con Kevin Costner, Gene Hackman e quel bocconcino di Sean Young. Apro parentesi completamente fuori luogo: Sean Young la conoscerete perché è la replicante con gli occhioni tristi di Blade Runner, ma è stata anche compagna di James Woods e prima di lasciarsi si son menati come pochi, con lei che non risparmiava colpi grandiosi, come questo: ha trascinato il compagno in un gradevole giochino d’amore legandolo al letto e poi, lui ancora in quiete, gli ha spennellato il pene con abbondante smalto per unghie. Dopo di che ha deciso di eccitarlo. James Woods ha dichiarato asciuttamente di non avere mai sofferto tanto. Intentò causa alla Young per molestie e finì per pagare lui un’inezia come 4 milioni di dollari. Ma dopo questo interessantissimo excursus torniamo al film: veloce, brioso, con una mefistofelica interpretazione di Laughton, è abbastanza ben giocato anche se talvolta s’ingarbuglia. Il modello verrà portato alla perfezione dall’erede del 1987 (che ricordo bello e teso). (Vhs da RaiTre; 12/10/99)
264 – The Night of the Hunter di Charles Laughton, USA 1955
M’invento un non meglio specificato “impegno precedente”, scappo dall’ufficio come un carbonaro e mi nascondo in quello che potrebbe essere il mio Lumière milanese: lo Spazio Oberdan, una sala gestita dalla Provincia di Milano dedicata a eventi speciali e rassegne d’essai. La sala è molto elegante, con sedie in cuoio rigide e confortevoli (è assolutamente impossibile addormentarsi) e rivestimenti in legno alle pareti. Bello schermo e buon audio. Prendo posto in quarta fila, quarta poltrona da sinistra. Sto soffrendo molto in ufficio, è chiaro. Nell’attesa del film viene diffuso un Miles che soffia nella sua tromba troppo cool, mentre le poltrone si riempiono di un pubblico molto fighetto: compagnie di amici, finti intellettuali, gente che straparla dell’espressionismo. Temevo già di dover fare una piazzata isterica e invece, poi, staranno tutti in silenzio. Forse per educazione, forse perché il film di Laughton lascia veramente senza parole, abbacinati dalla bellezza delle immagini e dalle continue invenzioni. Splendide le intuizioni visive (la fotografia antinaturalistica, le immagini degli animali, le luci espressioniste di Cortez) e incredibile la storia, con Mitchum nei panni di un sinistro predicatore nero vestito che impalma e ammazza vedove nel sud degli States. Fiaba nera, grottesca, zeppa di passaggi onirici, lampi comici e momenti di terrore, La morte corre sul fiume attacca anche il perbenismo della provincia, la religiosità ottusa, il feroce giustizialismo e il puritanesimo sessuofobo. Troppe cose perché il pubblico americano degli anni Cinquanta potesse capire. Veramente bello. (Spazio Oberdan, Milano; 13/10/99)
269 – Le notti bianche di un estenuante Luchino Visconti, Italia/Francia 1957
Un Visconti del 1957. Rischio estremo che affronto con sprezzo. Mario (Mastroianni) incontra Natalia (Maria Schell) camminando per le strade notturne del quartiere Venezia a Livorno. Se ne innamora, ma la tormentata e frignona ragazza attende Jean Marais da un anno. Quando Mario crederà di averla conquistata, zac, in campo lungo eccoti il bel tenebroso francese, attraente come un ciocco di abete, finalmente tornato. Sarà che ero stanco morto e i miei neuroni assomigliano a una tribù di lemming pronta al suicidio di massa, ma la messa in scena m’è parsa un’immensa rottura di cazzo, così come la trama. Stupisce invece la cura scenografica: Livorno è ricostruita in studio e l’effetto è quello di creare una città magica dove l’illusione degli sfondi è respinta, per esempio, dall’uso di selciati veri. Mastroianni è ingabbiato in un ruolo che non gli consente alcuna leggerezza. Più statici ancora Marais e la Schell. Una parte da prostituta anche per la Calamai. Aiuto regia di questo perfuntorio Visconti era Fernando Cicero, quello di W la foca. I danni del cinema d’autore. (Vhs da RaiUno; 17/10/99)
270 – Il corridoio della paura di Samuel Fuller, USA 1963
Torno allo Spazio Oberdan. Stasera sulle reti televisive impazzano gli incontri di pallone e il pubblico è rigorosamente selezionato: una marea di cagoni che straparlano di cinema ad alta voce. Come me, del resto, ma io son solo e questi devono far sapere a tutta la sala che il film lo hanno già visto altre volte e in quell’edizione piuttosto che in quell’altra. C’è uno scambio di videocassette con avvertenze del tipo: “La ratio non è perfetta” oppure “Il simbolo di RaiTre è un po’ fastidioso”, “Ah! Se è doppiato preferisco non vederlo”, “Ti ringrazio, ma in videocassetta proprio non sono capace”, etc. Insomma un incubo popolato da nerd che poi, puntualmente, durante la visione, ritengono opportuno far sapere a tutti cosa pensano del film che stiamo vedendo ed è una sequela di apprezzamenti o lamentele. E io che non ho nessuno con cui commentare chi commenta, m’innervosisco molto. Per fortuna il film è talmente bello che mi astraggo dalla massa di stronzi con la sciarpetta che mi accerchiano. Fuller ci racconta di un giornalista che finge di essere un pervertito sessuale per entrare in un manicomio e scoprire il responsabile di un assassinio lì avvenuto. Quando ci riuscirà, otterrà il Pulitzer ma rimarrà catatonico (con evidente ironia). Tutto il film è ricco di queste genialate: un nero che fa propaganda per il Ku Klux Klan, un patriota del Sud che è stato fatto impazzire dai comunisti coreani, un Nobel per la Fisica receduto a livello infantile (e che, nei momenti di lucidità, si scaglia contro la corsa agli armamenti in nome dell’anticomunismo). Il tutto è sorretto da una sceneggiatura che ha poche esitazioni, in una cornice visiva notevole (Cortez, autore di un b/n ricchissimo). Bravi gli attori, belle le musiche e il montaggio: un grande, grandissimo film, consigliato a ragione dal Maestro Bernardo Bertolucci. Ma Fuller era sinceramente sereno nei confronti del pericolo rosso o è tutto frutto di un doppiaggio un po’ libero? (Spazio Oberdan, Milano; 21/10/99)
271 – Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1975
Ennesima visione a vent’anni dal celestiale impatto nel cinema di Champoluc dell’agosto 1979, evento che mi ha rovinato per sempre. Barbara, tornata per una settimana da Parigi, non l’ha mai visto e allora s’impone l’assunzione che mi consente di dire ancora una volta bene di questo monumento della satira italiana. Cattivo, acre, esilarante, con gag e sequenze splendide (e con altre meno riuscite, ma non importa) e una fotografia a tratti notevolissima. E poi movimenti di camera funzionali al racconto o il sagace utilizzo del grandangolo nelle parti più allucinate o misticheggianti. Tra i momenti memorabili tutti i primi dieci minuti (Fantozzi trovato nei cessi murati della sua azienda e la quotidiana corsa contro il tempo per raggiungere il posto di lavoro); la partita a biliardo contro il Catellani, il finale politicamente amarissimo con il Megadirettore che “può aspettare”. Sempre bello e divertente. Ah, questo Fantozzi è ininterrottamente sponsorizzato senza pudore da Cynar, Pejo e altri. Era un vizio dell’epoca. (Diretta Retequattro, 30/10/99)
272 – Le catene della colpa di Jacques Tourneur, USA 1947
Con Barbara impegnata in una cena familiare, me ne vo felice di nuovo allo Spazio Oberdan. Il pubblico stasera è buono. Poco, discreto, non puntualissimo, ma migliore di quello che si trova nelle sale di prima visione. Per cui va bene e adesso la smetto di raccontarvelo ogni volta. Il film è molto bello, non eccezionale come si poteva prevedere a leggere certe enciclopedie, ma comunque dà soddisfazione. Il buon Mitchum, stanco di fuggire per uno sgarro commesso in passato a un Douglas poco raccomandabile, accetta un ultimo incarico di cui è subito evidente il fine: incastrarlo facendogli prendere la colpa per alcuni omicidi. Mitchum pensa di essere più furbo, ma in cuor suo è già convinto che ha perso, quasi rassegnato a subire un destino inevitabile. Diviso tra un nuovo amore, puro e onesto, tant’è gli ricapita tra le braccia la maliarda che anni prima lo aveva fatto sbagliare. E il coglione ci ricasca con prevedibile fatale conclusione. Finale tagliato con l’accetta, trama che talvolta si complica (tutti ‘sti nomi… io mi fidavo: se lo dicono loro sarà vero), bella fotografia di Nicolas Musuraca. Il doppiaggio risale all’epoca e un po’ fa ridere, però certe taglienti uscite da duro sono godibili proprio per la stilizzazione oggi assolutamente improponibile. Bravo Tourneur. (Spazio Oberdan, Milano; 31/10/99)
273 – Marie della Baia degli Angeli del lubrico Manuel Pradal, Francia 1997
Barbara è tornata a Parigi e riprendo le mie solitarie visioni. Proibite, brrr! Questo è un film strano, intrigante perché originale, girato da dio e con una fotografia sorprendente. Ma ha anche una trama frutto di qualche scompenso cerebrale. È un film dove la stessa collocazione temporale della vicenda rimane incerta fino alla fine (gli indizi precedenti sono pochi) e dove il montaggio è disordinato, con lampi passati e futuri che destrutturano la narrazione lineare cui si è abituati, come se in sala di montaggio avessero buttato per aria le varie sequenze per poi rimontarle a caso. E se uno prova a capire il senso della storia, francamente, non lo trova. Costa Azzurra: Orso è un ragazzo che fugge dal riformatorio dopo averne fatte di tutti i colori. Marie è una quindicenne che loliteggia con i militari americani di una base navale. I due s’incontrano e vivono una intensa storia d’amore. Finale: non ve lo dico. Troppo comodo, eh. Gusto alla Carax, abilità cinematica, belle facce degli attori, alcune sequenze straordinarie e, a fine visione, l’impressione di non aver capito una mazza o di aver capito che non c’era una mazza da capire. Lei, Maria (Vahina Giocante), è splendida e in due sequenze di ballo alimenta anche fantasie censurabili e disagevoli (avrà quindici anni…). (Vhs da Tele+; 5/11/99)
274 – Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1976
Piove e me ne sto a casina, sotto un bel plaid, con Fantozzi che subisce su Retequattro. Secondo episodio della saga dove si spinge sul pedale della comicità catastrofica. Ancora sequenze micidiali (l’iniziale visita al casinò di Montecarlo col Megadirettore Clamoroso Semenzara; Fantozzi alle prese con il tordo, ingoiato intero, e col pomodorino rovente; la rivolta contro La corazzata Kotemkin (sic) durante Inghilterra-Italia) e tanti lampi: se la struttura è più sfilacciata rispetto al primo episodio, se qualche volta si scade in volgarità o banalità assenti nello splendido prototipo, poco importa. Averne film comici così. Fantozzi è una maschera e Villaggio si adegua magicamente, attore di gomma che prende colpi da ogni lato e risulta indistruttibile. Regia funzionale, solito uso geniale del sonoro (rumori ma anche intonazione delle suppliche del protagonista). Il film che seguirà tre anni dopo, Fantozzi contro tutti, per quanto divertente, mostrerà una povertà registica e un gioco al risparmio qui impensabili. (Diretta Retequattro; 6/11/99)
277 – Videodrome di David Cronenberg, Canada 1983
Max Renn dirige Canale 83, un’emittente che trasmette programmi violenti e/o pornografici. Scopre l’esistenza di Videodrome: immagini di tortura e morte e decide di capire chi c’è dietro, un po’ per interesse meramente manageriale, un po’ perché quei video lo sconvolgono, lo attraggono e lo ripugnano. Rimane coinvolto, dopo agghiaccianti scoperte, in un crescendo di allucinazioni che lo porteranno all’omicidio e alla follia. Consueta cifra gelida di Cronenberg, carne che si coniuga al metallo, mutilazioni, desiderio e morte, l’occhio dello schermo che ci segue ovunque, la nuova chiesa catodica. Ne avevo un ricordo confuso e la visione è stata conturbante e piacevole. Un freddo delirio che non è atto d’accusa all’odierna civiltà mediatica, ma cruda constatazione. Ve lo dice uno che a Videodrome ci lavora. “Morte a Videodrome. Gloria e vita alla nuova carne!”. (Vhs da Italia1; 7/11/99)
280 – Vixen di un ripetitivo e un po’ rincoglionito Russ Meyer, USA 1969
Ah, che bella porcata. Margot è l’insaziabile donna di un pilota canadese: approfittando delle sue continue assenze per lavoro, si spupazza una giubba rossa, due clienti (lui e lei) del marito, poi il fratello e infine quasi consuma con un transfuga di colore. Con quest’ultimo sventerà un dirottamento aereo di un comunista odioso e mellifluo. Un’ora e dieci di questa menata non valgono i peggiori cinque minuti di Lorna. Situazioni da porno d’allora, sessualità grassoccia, una intuizione fotografica surreale (le riprese da sotto il letto, col materasso mancante, mentre chi è sopra il letto è disteso sul materasso) e quasi nient’altro. Checché ne dicano critici che forse il film non l’hanno visto, la fotografia è piatta, il montaggio per nulla brillante e la storia, va da sé, assolutamente risibile e senza alcun motivo d’interesse. Ci si scoccia presto e a nulla vale il fatto che per essere di trent’anni fa, Vixen demoliva alcuni tabù. E chi se ne frega, se il film è noioso e realizzato coi piedi. Se no rivalutiamo Suor Vaselina che mostrava esplicite scene di sesso più d’un secolo fa. (Vhs originale; 12/11/99)
282 – La regina Margot di Patrice Chéreau, Francia/Germania/Italia 1994
Un bel polpettone storico condito con sesso e violenza. E allora mi butto e me lo vedo. Caterina de’ Medici trama e congiura per mantenere il potere nella Francia di fine Cinquecento. Ha quattro figli, tra cui Margot, bella, altera e ninfomane. Carlo IX subisce l’influenza di Coligny e bisogna pure ricomporre il feroce dissidio tra protestanti e cattolici. Detto fatto: si fa sposare Margot con Enrico di Navarra, si ammazza Coligny e si fa orrenda strage dei protestanti nella notte di San Bartolomeo. Però, di riffa o di raffa, i protestanti riescono a resistere e la corte andrà dissolvendosi tra intrighi e assassinii. Carlo IX si avvelena con dell’arsenico preparato per Enrico di Navarra e Margot passerà agli oppressi (difendendo sempre Enrico e innamorandosi del nobile de La Mole). Storiaccia densa d’azione carnale e bellica, con la regia che gestisce un cast stellare dove spicca una Asia Argento super fit. Meno riuscita è la gestione della trama, che si perde in compiaciute scene di sciabolate o di sesso e carnazza (ma la versione era censurata, togliendo quasi interamente i motivi d’interesse). Che altro dire? Ci si stupisce che, scopando tutti come ricci, mancassero eredi ai Valois. Ah, Enrico di Navarra è quello per cui Parigi val bene una messa e sembra che abbia anche detto “fino a quarant’anni ho creduto che fosse un osso” riferendosi al suo strumento. Visto l’interscambio carnale, c’è da credergli. (Vhs originale; 13/11/99)
(Continua — 7)