di Girolamo De Michele
qui la prima parte
Questo concreto esempio serve a introdurre le tesi centrali del volume. Il modello educativo proposto viene presentato come alternativo a due diversi modelli educativi generali.
Il primo è quello che «punta sulla divaricazione di educazione e formazione, in funzione dell’acquisizione di conoscenze, abilità, competenze coerenti con l’assetto tecnologico del mondo contemporaneo»: un modello aziendalistico, nel quale «l’educazione, in definitiva, si risolve in trasmissione di informazioni e di capacità e in socializzazione culturale».
Non è difficile individuare la radice di questo modello: si tratta dei modelli educativi proposti dall’OCSE, dalle grandi lobbies industriali interessate al ricco mercato dell’istruzione, con diverse sfumature dalla stessa Commissione Europea. È un modello col quale, in parte, la politica scolastica dell’ex ministro Berlinguer e dei suoi collaboratori (Vertecchia, Frabboni) si è compromessa. Ma col quale anche l’attuale governo si compromette in eguale, e forse maggiore misura, nella sua ossessione di ridurre il sapere a unità oggettive, univoche, misurabili quantitativamente, espungendo qualsivoglia forma di autonomia e di soggettività. È una contraddizione che va tenuta presente.
Ma va anche tenuta presente la scorrettezza di questa presentazione: che suggerisce che ogni prassi didattica che privilegia lo sviluppo delle competenze sulla centralità dei programmi e delle nozioni lo faccia per spirito aziendalistico. Che ogni didattica orientata non alla trasmissione dei contenuti derivanti dalla tradizione, ma allo sviluppo di un’autonoma capacità di orientarsi nel mondo attraverso l’acquisizione di strumenti cognitivi — la didattica dell’imparare a imparare, del privilegiare la testa ben fatta alla testa piena (Montaigne) – sia di per sé veicolata al modello aziendalistico. È un esercizio di occultamento e di messa in caricatura delle tesi contrarie di cui è cattivo maestro Giorgio Israel, e che qui viene sapientemente occultato dalle forme retoriche.
Il secondo modello generale, «valorizza la spontaneità. In prospettiva antiautoritaria, questa concezione contrasta l’idea di educazione come trasmissione di modi di comportamento, di valori, di tradizioni e pensa anzitutto in termini di autoeducazione, con al centro la qualità del soggetto, la sua espressività e la sua creatività, intese come spontaneismo soggettivo, e quindi anche sperimentale e nomade» [p. 9].
Qui è chiaro cosa si avversa: l’idea che l’essere umano sia capace di autodeterminazione; che sia in grado di creare un senso a partire dall’assenza di senso; che sia autonomamente capace di scegliere tra la pluralità delle proposte, dei valori, delle concezioni del mondo attraverso la propria esperienza auto-formativa. Che lo scetticismo sia un metodo che non conduce, come crede Joseph Ratzinger, al prevalere di insoddisfazione, vuoto esistenziale, sradicamento, fragilità emotiva, precarietà delle relazioni, sfiducia, odio di sé, confusione dei ruoli di genere, calo del desiderio, impotenza generazionale — e chi più ne ha, più ne metta; ma che, d’accordo con Giacomo Leopardi — piaccia o non piaccia, il maggior esempio del nichilismo europeo — sia la condizione per giungere, attraverso l’esperienza dell’arido vero, alla dimensione dell’etica, alla social catena.
Da questo punto di vista non stupisce che gli autori di questo volume, e i loro eminenti ispiratori, abbiano un approccio allarmato e allarmistico della relazione tra infanzia e esperienza informatica: «fin di primi anni di vita la mente è invasa dalle forme analitiche e frammentarie delle pratiche informatiche e l’esperienza emotiva è eccitata e sovraccaricata da un volume spropositato di sollecitazioni immaginative» [p. 8]. Un dato che contrasta con quanto studiosi della mente del calibro di Steven Johnson e Henry Jenkins hanno notato sullo sviluppo di capacità logiche, di connessione del reale, financo mnemoniche della mente infantile sollecitata dai nuovi media. Riemerge qui l’idea che il bambino — anzi: il fanciullo — non sia un essere dotato di ragione (come presuppone la didattica per moduli nella scuola elementare), ma un essere «tutto intuizione e sentimento»: che, con le parole del ministro Gelmini che ha bisogno di vedere nella maestra un sostituto della figura materna.
Ma è proprio questo, in ultima analisi, che unifica il variegato schieramento politico-culturale che stiamo esaminando: l’autodeterminazione dell’essere umano. Il suo non essere gregge, ma pastore di sé. È per questo — non certo per bazzecole sul corso del sole o sull’infinità dell’universo — che Giordano Bruno finì al rogo, e Galilei ci andò vicino.
Per contro, il modello educativo cattolico-giussaniano incardina il soggetto alla trasmissione della tradizione attraverso l’autorità del maestro-testimone, la cui superiorità risiede(rebbe) nel possedere un disegno unitario dotato di un centro; nel presupposto (se-dicente) antropologico che «l’essere umano non è dotato di tutto ciò di cui ha bisogno per diventare se stesso» [12]; che la ricerca di senso dev’essere subordinata al riconoscimento che un senso è già dato, e che tale ricerca si configuri come libera solo nella misura in cui è libera di riconoscere quel senso — meglio: quel pre-giudizio — come “Verità”. Che la fine dei “grandi racconti”, cioè le «narrazioni delle grandi tradizioni culturali, religiose, morali o politiche, che hanno proposto sensi unitari dell’esistenza, del mondo e della storia» [16] sia un male — oh, Salamanca! — perché solo un grande racconto può giungere «sino alla questione di Dio», e solo tale questione può far sì che l’uomo attribuisca un senso unitario alla realtà.
Che le “grandi narrazioni” siano finite perché erano sì dotate di senso, ma di un senso imposto dalle classi, dai generi, dalle potenze dominanti non sembra sfiorare la mente purissima di questi dotti. Così come non ha spazio la constatazione che la capacità di produrre narrazioni plurali riempie il vuoto lasciato dal “grande racconto” dimostra la capacità autopoietica dell’essere umano.
Si tratta, in definitiva, di una riproposizione “debole” di un sapere disciplinare che assoggetta l’educato ad una rassicurante tutela. Che, davanti al rischio di vivere e di dare un senso alla propria esistenza, ripropone lo scambio tra rassicurazione e rinuncia alla libera creazione di sé. Che è una delle risposte possibili alla crisi della società disciplinare: il rifugio nel caldo tepore delle passioni tristi, nell’autopercezione di incompiutezza e incapacità come premessa alla cessione del consenso verso l’autorità. In altri termini, in risposta a una società globale che non si lascia governare, e spesso neanche amministrare,viene proposto anche sul piano educativo un potere pastorale che piega a proprio vantaggio paura e incertezza.
Tutto chiaro?
No: c’è dell’altro.
Discutibile quanto si vuole, la linea politico-culturale perseguita attraverso libri come Il rischio educativo e La sfida educativa avrebbe pur sempre la dignità di un’opposizione alle correnti politiche educative: come accade, ad esempio, in Spagna.
Cosa accade in Italia?
Accade che, accanto all’opposizione “culturale”, le lobbies cattoliche si dimostrano capaci di uno sfrenato consociativismo, incassando con la sinistra da quello stesso Stato che con la destra contestano, accusandolo di perseguire «l’ideologia della professionalizzazione».
Per capire come ciò accada, è necessaria una rapidissima ricognizione dei rapporti tra scuola pubblica e scuola privata nell’ultimo decennio: nel corso del quale si è affermato un «sistema pubblico integrato» che ha trasformato le scuole private, e segnatamente quelle confessionali, in scuole pubbliche private.
Cominciò il ministro Berlinguer, con la parificazione del sistema educativo pubblico e privato: a condizione che il sistema privato aderisse ad una serie di norme e controlli, si disse. Un compromesso storico-educativo: il destino nei cognomi, diceva uno striscione studentesco all’epoca.
Il passo successivo fu, ad opera del ministro Moratti, la parificazione dei titoli degli insegnanti nelle scuole private con quelli delle scuole pubbliche: facendo sì che decine di migliaia di insegnanti che avevano costruito una carriera secondo le regole della scuola pubblica si videro scavalcati da insegnanti che avevano avuto accesso all’insegnamento non per titoli, ma per conoscenze personali, selezionati non secondo le competenze acquisite, ma secondo gli stili di vita e le adesioni ideologiche graditi ai rettori delle scuole private.
Infine, i Decreti che consentono alle scuole private di accedere al finanziamento pubblico, con buona pace della Costituzione, che all’art. 33, comma 3 stabilisce che scuole ed istituti privati devono essere istituiti senza oneri per lo Stato. Prima il ministro Moratti (DM 11 febbraio 2005), poi il ministro Fioroni (DM 21 maggio 2007) stabiliscono che la condizione ineludibile per le scuole private per ottenere il finanziamento pubblico sia un numero minimo di alunni per classe: 8 (OTTO)! Questo mentre il numero minimo di alunni nella scuola pubblica sale, di anno in anno, sino a 30-32.
Il tutto senza alcun riguardo per la qualità della didattica. Perché, con buona pace degli esaltatori delle virtù delle scuole private, le nostre private sono tra le peggiori del mondo, come attestato proprio quelle rilevazioni OCSE-PISA abusate e manipolate per denigrare la scuola pubblica. Nello specifico, l’Italia è l’unico paese dell’area OCSE nel quale le prestazioni degli alunni delle scuole private sono non al di sopra, ma decisamente al di sotto di quelli delle scuole pubbliche. E questo divario è ancora più grave se si considera che gli istituti privati sono in buona parte istituti liceali: perché, se la media delle prestazioni degli studenti italiani esaminati nei test PISA risulta inferiore alla media OCSE, è però altrettanto vero che le prestazioni degli studenti dei Licei sono al di sopra della media OCSE, laddove — vale ripeterlo — le risultanze degli istituti privati sono agli ultimissimi posti della classifica OCSE.
E dunque, oggi le scuole private sono finanziate dallo Stato: sono, cioè, un onere per lo Stato. Per quello Stato la cui Costituzione dice senza oneri per lo Stato: così come dice che l’Italia ripudia la guerra.
Di quanti soldi stiamo parlando?
La Finanziaria appena approvata assegna alle scuole private 540.1 milioni di euro. Ma a questa cifra andrebbero aggiunte altre voci sparse tra le pieghe della Finanziaria: il Rapporto Sbilanciamoci 2010, che ogni anno elabora una dettagliata e motivata contro-Finanziaria, calcola in 732 milioni il contributo effettivo alle scuole private.
Ma non basta: poi ci sono i contributi degli enti locali. Perché la Costituzione dice per lo Stato, non per gli Enti Locali: così come la Maga Magò, nel duello dei Maghi (clicca sull’immagine), aveva promesso a Merlino «niente draghi», non «niente draghi viola».
Ad esempio, la Regione Lombardia, governata da 15 anni da Roberto Formigoni e saldamente in mano alla lobby politico-confessionale CL-Compagnia delle Opere, assegna alle scuole private, nelle quali studia il 9% della popolazione studentesca lombarda, l’80% dei fondi regionali per il diritto allo studio, cioè circa 50 milioni di euro all’anno, ricorrendo, come denuncia un rapporto sindacale, a un vero e proprio trucco contabile: «Mentre i genitori degli studenti della scuola pubblica devono esibire il certificato Isee — il riccometro – per poter accedere a un piccolo contributo, i richiedenti il buono scuola godono di un meccanismo inventato ad hoc per loro, denominato “indicatore reddituale”, dove i limiti di reddito sono molto più tolleranti e, soprattutto, dove non si deve dichiarare la propria situazione patrimoniale, sia mobiliare, che immobiliare. E il risultato di questo trucco è tanto stupefacente, quanto indecente, considerato che oltre 4mila beneficiari del buono scuola dichiarano al fisco addirittura un reddito tra 100mila e 200mila euro annui oppure che altri risultano residenti nella zone più prestigiose e costose delle nostre città, come per esempio Galleria Vittorio Emanuele o via Manzoni a Milano».
Questo mentre alla scuola pubblica vengono tagliati, in tre anni, più di 8 miliardi di euro. E, per restare in Lombardia, la storica esperienza delle Scuole Civiche milanesi rischia di morire per mancanza di finanziamenti.
E intanto, come scrive Marco Lodoli, proliferano le scuole private d’élite: «Chi se lo può permettere si tira fuori dal mazzo e iscrive i suoi bambini nelle scuole più care ed esclusive: e non lo fa perché lì si studia di più e meglio, ma solo perché i suoi pupi fanno comunella con altri rampolli dorati, amicizie che faranno comodo più avanti, e tutto il resto vada pure in malora. Siamo tornati al darwinismo sociale, preparato fin dall’infanzia». E si comincia a capire perché banchieri, affaristi, finanzieri si interessino tanto all’educazione.
Ricordate cosa scriveva Dina Bertoni Jovine sulla doppia politica della Chiesa in materia di educazione e istruzione? Diffondere una crescente indifferenza per la scuola dello Stato; sviluppare e rinvigorire una legislazione che favorisca la scuola privata. Con una mano, le lobbies cattoliche agitano l’allarme sull’emergenza educativa per denigrare e svilire la scuola pubblica, con l’appoggio di un curioso esempio di ministro che, per la sua incapacità di saper fare altro che sparare sul proprio quartier generale, potremmo definire catto-maoista; con l’altra mano, attingono a volontà alla cassa dell’affare-istruzione, grazie a quei fondi che si rendono disponibili con i tagli alla scuola pubblica.
E potete star certi che, in questo caso, la mano destra sa benissimo cosa fa la mano sinistra.
E ambedue, una volta incassato, applaudono.