di Gioacchino Toni
Matteo Guarnaccia, Ribelli con stile. Un secolo di mode radicali, ShaKe edizioni, Milano, 2009, € 18,00.
Bohémien, Apache, Wandervogel, Squadristi, Rebeti, Sorelle della strada, Flapper, Wilde Cliquen, Edelweiss Piraten, Zootie, Viper, Swingjugend, Zazou, Biker, Rockabilly, Esistenzialisti, Gang di New York, Gutai, Teddy Boy, Beat, Beatnik, Gammler, Provo, Mod, Raggare, Stilyagi, Rocker, Surfer, Hot rodder, Skater, Hippie, Punk, Glam, Skinhead, Paninari, Rasta, Hip Hop, Raver, Clubber, Traveller, Bike Messenger… una marea di stili ribelli sospesi tra pretesa di cambiare il mondo e voglia di rinnovare semplicemente il guardaroba, tra la ricerca di una via di fuga dall’omologazione e il fornire idee di rinnovamento al mercato della moda. Se in passato gli stili delle cosiddette subculture giovanili sono stati osteggiati e ogni simbolo di devianza rispetto all’ordine codificato non mancava di essere condannato, oggi assistiamo a un nuovo meccanismo che così Guarnaccia, nel suo vero e proprio manuale degli “stili radicali” che hanno attraversato il Novecento, ha magistralmente descritto: «Oggi il consumo individuale di look, grazie all’indefesso lavorio delle subculture, è stato liberalizzato – o meglio, la dose personale consentita è stata innalzata a livelli mai raggiunti in passato. Il motivo di questa magnanima tolleranza è semplice: il mercato è diventato sempre più dipendente dalla devianza, che si rivelata un’efficientissima palestra di innovazione. Centro (mercato) e frontiera (devianza) collaborano sempre più strettamente alla solidità del sistema, si completano reciprocamente (…) La devianza — dopo strepiti e conflitti — più o meno rassegnata, viene ricondotta nell’alveo rassicurante del consumo.» (pp. 11-12)
Il testo di Guarnaccia può essere considerato in linea con il saggio in cui Dick Hebdige (Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan), analizzando le culture giovanili inglesi tra gli anni Cinquanta e Settanta, indica come quelle sottoculture, nate in ostilità ai gruppi sociali dominanti, finiscano con l’essere anche “vittime compiacenti” del mercato della musica e della moda. Altro autore anglosassone che vale la pena citare per le sue analisi circa pratiche di risignificazione alternativa ai significati “ufficiali”, seppure concentrato sui media, è certamente John Fiske (Understanding Popular Culture, Routledge, London, 1989).
Oltre che fornire un’utilissima mappa delle ribellioni giovanili, Ribelli con stile offre numerosi spunti di analisi teorica. Il meccanismo che sembra ripetersi in tanti stili radicali sembra procedere attraverso un’operazione di decontestualizzazione di elementi sottratti ad “ambienti altrui” e successiva ricontestualizzazione creativa volta a risignificarli. Si tratta, per certi versi, di un meccanismo del tutto simile a quanto accaduto in ambito artistico con le esperienze radicali dada-surrealiste di inizio Novecento. La loro messa in discussione della razionale e cinica civiltà del macchinismo e della mercificazione avviene attraverso una ludica elaborazione contestataria e beffarda di “macchine celibi” volte ad azzerare le logiche razionali di funzionamento. All’utilitarismo si contrapporre il puro divertimento, il ritorno al “principio di piacere”. In qualche modo diversi stili radicali, nella scelta dell’abbigliamento, hanno smontato e rimontato ludicamente il guardaroba ufficiale del tempo e/o di epoche precedenti. L’accostamento spiazzante, tanto nelle mode radicali, quanto nei fenomeni artistici dada-surrealisti, tende a privare le varie componenti della loro funzione e del loro connaturato significato quotidiano, esponendole a una risignificazione ironica e liberatoria. Nella loro insolita combinazione, le unità minime riconoscibili risultano svincolate dal valore assegnato loro dalle convenzioni e dall’utilitarismo e proiettate in una sfera immaginativa in cui il desiderio è libero di agire.
Uno dei motivi che spiegano il successo delle mode radicali opportunamente addomesticate dal mercato è ben segnalato dall’autore: «Tutti vogliono sembrare ribelli, pochi vogliono essere ribelli sul serio. Il ribelle nelle sue molteplici inclinazioni — anticonformista, outsider, maledetto, irriverente — è una figura fondamentale dell’età moderna, ed è allo stesso tempo la stampella e la cattiva coscienza del mondo borghese, che vive nell’illusione di poter controllare totalmente la propria vita. Il ribelle è il beniamino del pubblico e gode di un particolare appeal (…) Quello che interessa allo spettatore, è partecipare per interposta persona a quel sistema esistenziale, illecito, libertino ed esotico che tanto lo attrae pur essendogli fondamentalmente nemico. (…) La moda (…) rende fruibile a chiunque il look del ribelle» (pp. 12-13) Nei servizi giornalistici (spesso vere e proprie marchette) che trattano il mondo della moda sono abusati patetici riferimenti alla ribellione, alla provocatorietà, alla dissacrazione, all’irriverenza, all’anticonformismo, al libertinaggio. Non di rado oscillano tra l’irritante e lo spassoso le dichiarazioni in tal senso di stilisti ed addetti ai lavori.
Guarnaccia evidenzia bene come il meccanismo storico della ricercata devianza dal conformismo e del suo riassorbimento da parte del potere risulti, per ceti versi, mutato negli ultimi tempi. «Il conformismo contemporaneo, a differenza di quello assai rigido d’antan, si è dimostrato più che disponibile ad accettare e incorporare l’eredità estetica, a patto che naturalmente il messaggio originario — morale, immorale o amorale che sia — venga depotenziato, decontestualizzato» (p. 13). Nelle società compattamente conformiste risultano necessari piccoli accorgimenti per differenziarsi: si pensi, ad esempio, agli ambiti disciplinati come quello militare e di un’istituzione totale come quella carceraria, ove un semplice dettaglio (come un nodo in più in un cordone o un bottone slacciato o un’inclinazione accentuata del copricapo) segnala la volontà di differenziarsi, di fuoriuscire dalla norma codificata dalla divisa d’ordinanza. «La faccenda diventa complicata quando una maggior tolleranza sociale nei riguardi delle scelte estetiche individuali costringe a essere più innovativi sul piano dello stile» (p. 13)
I tempi di consumo sempre più incalzanti non solo, come suggerisce Ribelli con stile, impongono al mercato di non attendere che i segnali escano dalla strada e di andare a cercarseli direttamente e di farli propri sul nascere, ma, forse, non ha nemmeno il tempo (né l’interesse immediato) di “ripulirli” del loro (eventuale) portato di ribellione: li prende così come sono incurante del loro significato. Sarà il loro divenire merce a svuotarli di ogni pericolosità sociale e, anche se ciò non avvenisse, nel frattempo si sarà arraffato il bottino, poi ci penseranno “altri” a fare i conti con l’eventuale deriva innescata. Si può far soldi anche producendo la corda con cui si rischia di venir prima o poi impiccati. Se il tempo sarà o meno galantuomo, si vedrà.
Alla corposa mappatura di Guarnaccia andrebbe aggiunta un’analisi del variegato mondo giovanile del tifo negli stadi (hooligans, ultras…) con i suoi riti, il suo stile di vita e con tutte le contraddizioni circa il rapporto conflittuale e/o connivente nei confronti della trasformazione degli eventi sportivi in spettacolo. Anche le comunità, più o meno virtuali, nate e sviluppate nel web negli ultimi tempi meriterebbero un’analisi approfondita e una loro messa a confronto con i fenomeni più tradizionali indagati dal testo. Queste comunità cresciute sui monitor rappresentano un fenomeno che, se per certi versi mantiene alcune caratteristiche delle classiche culture giovanili, per altri palesa elementi di estrema novità.
Da segnalare, purtroppo, la mancanza nel testo di riferimenti puntuali circa le fonti utilizzate. L’indicazione bibliografica, magari al posto dello schema finale riassuntivo, di cui non si sarebbe sentita la mancanza, avrebbe permesso ai lettori utili suggerimenti per eventuali approfondimenti.
Concludendo, Ribelli con stile risulta decisamente un buon manuale delle mode radicali che hanno attraversato il Novecento.