di Chiara Cretella
Giovanna Campani, Veline nyokke e cilici. Femministe pentite senza sex e senza city, Odoya, Bologna, 2009, pp. 210, € 14,00.
A partire dagli anni Ottanta in America si assiste al fenomeno del backlash (letteralmente colpo di frusta, balzo indietro), un periodo che azzera tutte le conquiste delle donne impoverendo l’esperienza di emancipazione nei fenomeni del postfemminismo di massa, incarnati dagli stereotipi di Sex and the city, Bridget Jones’s diary o Desperate Housewives.
A partire da una ipotetica e totalmente presunta parità raggiunta, queste donne sono libere sì, ma libere di esplicare la propria indipendenza economica e sorellanza solo nella ritualità mercificatoria dello shopping compulsivo, del gossip e in una effimera libertà sessuale, solo apparentemente trasgressiva. Tutte queste pratiche sono in realtà inserite nell’ideologia del “consumo” volto a consolare il femminile della propria limitatezza nella performance sociale, performance ancora tenacemente in mano al potere maschile.
Eroine vittime di una sindrome post-traumatica, quella del femminismo storico, ripudiato come incarnazione di una rivendicazione “non seducente”, dunque non utile al raggiungimento dell’unico potere nascosto dietro questa apparente “libertà”: quella del ritorno all’eterno mito del “matrimonio”, unica àncora di salvezza per queste donne sempre sull’orlo di una crisi di nervi, obbligate solo alla riproduzione e alla bellezza, obbligo che deve esser portato avanti fino al sacrificio estremo della manipolazione del corpo con tecniche e protesi sempre più invasive e mortificanti.
Viene da chiedersi dove siano finiti il desiderio, il motore delle relazioni e della conoscenza, la felicità della maturità e della crescita, nello specchio di una vecchiaia che agisce come spettro in ogni manifestazione mediatica del femminile, che non può concedersi di capitolare al divenire ma deve immobilizzarsi — paralitico come queste labbra senza flatus vocis — in una fase di eterna ed eterea disponibilità, giovinezza, bellezza, mancanza di problematicità e di conflitto.
Una donna — o meglio un “corpo” — dunque perennemente accessibile, vivo — o meglio “visivo” — solo nell’illusione dei bisogni che riesce a creare, proprio come una merce che deve competere nel mercato globale.
Ma questo fenomeno non è soltanto americano. L’Italia, nel periodo del riflusso dei movimenti degli anni Settanta, instaura un backlash probabilmente ancora più nefasto, inaugurato dallo sfruttamento mediatico del corpo femminile, dal sessismo politico, dalle ingerenze del Vaticano e da un’agorà di iconografie femminili ornamentali, spesso anche quando appaiono nei media in vesti politiche.
Probabilmente il machismo italiano trova lo spazio di una ripresa così priva di ostacoli e di ribellione popolare in una storia culturale già di per sé anomala, in cui al gallismo fascista si è aggiunta la venerazione cattolica della mater, e dove anche la tradizione filosofica dell’amore ha trovato il più alto raggiungimento nello stilema stilnovista, non certo nella filosofia libertina.
Maria e Beatrice condividono un destino di sublimazione che impedisce loro di incarnarsi, condividono inoltre il loro ruolo di “intermediazione”, di intercessione al potere del Padre, un uso forse, non esattamente ornamentale ma certamente strumentale che le colloca a latere del discorso.
Sull’uso “ornamentale” del femminile nei media italiani la regista Lorella Zanardo ha dato una precisa definizione nel suo documentario Il corpo delle donne, lavoro che ha avuto negli ultimi mesi una grandissima diffusione, anche grazie alla recente Giornata mondiale contro la violenza sulle donne (25 novembre).
Ora Giovanna Campani racconta la sociologia di questo fenomeno, attraverso il raffronto ragionato di una enorme mole di articoli di giornali, interviste, dati, documenti, programmi televisivi e campagne pubblicitarie, esponendo le tappe di una vera e propria discesa negli inferi della discriminazione femminile, sostenuta da una politica fortemente indirizzata a mantenere il ruolo delle donne nelle due direttrici classiche già appannaggio della cultura cattolica: la santa e la puttana.
Nel 2005 un documento del’Onu riguardo all’attuazione del CEDAW (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women), adottato nel 1981 da molti stati anche del terzo mondo e che gli Stati Uniti non hanno ancora firmato, così si esprime riguardo alla situazione italiana: «La donna in Italia è ancora percepita come oggetto sessuale e principale responsabile della crescita dei figli».
Il risvolto della medaglia è il precariato infinito, l’assenza di assistenza e di diritti, prima di tutto quello alla maternità, lo sfruttamento fisico e psicologico, la flessibilità infinita dei ruoli e dei lavori, la discriminazione salariale, la molestia e il mobbing, fino al fenomeno globale del femminicidio.