di Dziga Cacace
236 – Castelporziano Ostia dei Poeti di Andrea Andermann, Italia 1980
Visto nottetempo due anni fa, mi ricapita tra le mani e me lo scoppio di nuovo: è la documentazione del primo Festival Internazionale dei Poeti, tenuto a Castelporziano dal 28 al 30 giugno 1979, con ricco cast internazionale. La prima sera del festival presenta – ci prova – Victor Cavallo. Una ragazza di neanche 16 anni prende il microfono e non lo vuole mollare: dice “Ccioè, di avere, ccioè, anche lei, ccioè, delle cose da esprimere, capito?”. Sembra la parodia di Verdone che fa la parodia dei fricchettoni. Gli organizzatori non sanno che fare e la matta rimane sul palco per tutta la serata strappando talvolta il microfono ai poeti per commentare: “Ccioè, cos’è questa cosa?”. Tale Piromalli dedica una poesia ai filosofi: Affanculo. Poi ci prova Dario Bellezza che non ottiene reazioni. Allora provoca: se non mi applaudite, almeno fischiate. E la platea viene giù di fischi. Poi un tizio nudo sale sulla pedana ed esibisce il pendaglio; Bellezza: “Siete delle persone volgarissime e immonde, siete dei fascisti”. Fischi, risate, invasione del palco che rischia di collassare. Panico, con Allen Ginsberg ammutolito di fronte alla disorganizzazione.
Cesare Viviani prova a leggere i suoi componimenti. Contestato, reagisce ironicamente. Al pubblico sballone non gliene può frega’ de meno. Ci prova anche la Maraini che non dura più di quattro secondi (record!) ed esce di scena dicendo che “la poesia è inutile”. Il secondo giorno la contestazione continua e il festival va avanti nell’impotenza: sul palco sale chi vuole e i pochi veri poeti sono trattati malissimo. Un russo, Issaev, se ho capito bene, declama nella lingua natale e un matto con un mantello rosso gli urla “Siberiaaa!”. Poi un altro sballato annuncia che il minestrone è pronto e, già che c’è e ha il microfono tra le mani, insulta gli organizzatori perché si aspettava di trovare Patti Smith. Afferma che della poesia non gliene frega un cazzo e manda tutti violentemente a cagare. Il palco viene invaso, la gente si azzuffa per una ciotola di minestra, volano gavettoni, di nuovo il palco pericolante. Gli appassionati di poesia – i pochi – protestano: vengono zittiti al grido di “anche il minestrone è poesia!”. Si cerca un dottore per un attacco di epilessia, sul palco anarchia totale. Viene esibita una bimba seminuda che s’è persa: è la Woodstock de noantri. Ginsberg tenta invano di riportare la calma con la resistenza passiva e intonando un Om… fine seconda giornata. La terza giornata i poeti invitati ufficialmente (Ginsberg, LeRoi Jones, Evtushenko, Corso, Burroughs e altri) discutono in albergo se affrontare il temibile pubblico o rinunciare: vince la linea della partecipazione e il pubblico è tranquillo e attento alle performance. Evtushenko ammalia, Ginsberg ipnotizza, LeRoi Jones (Amiri Baraka) rappa e rapisce. Intanto la vita ha continuato a scorrere tra nudismo, schitarrate, canne gigantesche, scene da festival, aggregazione e discussioni. E come a Woodstock, c’è pure il parere della donna delle pulizie. Regia vivace, intelligente, capace di documentare in maniera puntuale la manifestazione, attentissima ai rumori, alle voci, ai commenti: film molto bello e divertente, se mi si passa il termine. E altamente lirico quando Evtushenko va in pellegrinaggio sul luogo dove è stato ucciso Pier Paolo Pasolini (15 anni prima di Moretti). Il Fuori Orario che presentava questa perla, aveva anche altre chicchette di alterno valore, tra cui il concerto per Demetrio Stratos. Era il 14 giugno 1979 e all’Arena di Milano doveva essere una serata benefica per raccogliere i fondi necessari a curare il cantante degli Area afflitto da tumore. Si trasformò in un omaggio postumo: Demetrio era morto il giorno prima. Dall’evento è stato tratto un montaggio che non brilla granché: l’acustica è pessima, il mixer è squilibratissimo e le performance sono di valore variabile. Sugli spalti e sul prato sessantamila persone affamate di musica, testimoni di un concerto che sarebbe diventata l’emblematica chiusura di una stagione. Intervengono: gli Area (un pezzo di jazz purissimo), Guccini (Canzone per un’amica, chitarra classica sola), Banco del Mutuo Soccorso (brano letteralmente mortale), tal Venegoni e company (e chi è? Fusion niente male, comunque), Branduardi (rinascimentale e molto palloso), Finardi (belloccio e cagone, come sempre), Ciotti (valido blues, fuori contesto), PFM (jam strumentale, piacevole ma senza nerbo). Poi c’è una parentesi di musica sperimentale: sul palco sale tale Cardini, in completo smoking nero, e parte con un’esibizione pianistica che prevede percussioni sulla tastiera con gomiti e manate. Finalmente si sente il pubblico. Che fischia, sghignazza, contesta e poi si quieta. Cardini passa a eseguire un brano di solfeggio, sembrando né più né meno Bracardi quando fa il Maestro Biscroma: coro “scemo, scemo”, lazzi goliardici e infine un applauso per il coraggio dimostrato. Torna la musica leggera: De Piscopo, Del Piano e Liguori (fusion anemica se non fosse per il drumming di Tullio; gli altri due non li ho mai sentiti, sorry), gli Skiantos (lettura di poesie demenziali che non fanno ridere), Venditti (con Bomba o non bomba e qualche errore esecutivo perché è un po’ cane – lui dirà che era l’emozione), i Carnascialia con De Sio, Esposito, Pagani, Tavolazzi e Capiozzo (fusion etnica, mah). Si conclude con L’Internazionale, interpretata dagli Area, in una versione moscetta. Documento interessante, però. E comunque viva il rock. E la contestazione, di tutto. (Vhs da Rai; 11/8/99)
238 – Il funerale delle rose del pazzo Toshio Matsumoto, Giappone, 1969 e altre cosine strambe
Mi rifaccio ai commenti salmodiati da Ghezzi per dirvi chi è Matsumoto, giacché sulle mie enciclopedie non l’ho trovato: ex-critico, collaboratore di Mishima, regista che s’è cimentato in diversi generi, esordisce nel ’69 con questo titolo. Il funerale delle rose è un’opera folle, sconcertante, geniale, un’autentica sorpresa. In un’ora e cinquanta viene espressa tutta la suggestione della Nouvelle vague, formalmente e tematicamente: questo è uno dei film più liberi e coraggiosi che abbia mai visto. Si parla di travestimento, maschere e identità, di omosessualità, di droghe, di contestazione politica e sociale, si sente musica rock, si fa metacinema, si gioca con le inquadrature, con le didascalie, coi fumetti, coi fermo immagine, col doppiaggio, con le velocizzazioni… si passa dall’altamente drammatico al comico, in una commistione coerente, senza sbavature, credibile. E poi la splendida fotografia, che ti fulmina sulla poltrona dalla prima scena (per la cronaca Tatsuo Suzuki e Shigeo Kume: “Aaaah, ecco chi erano…”): tutte le variazioni del grigio, abbacinante, argenteo, contrastato e sempre virato in verde. È evidente l’influenza di Godard, ma la cosa non infastidisce: non è un Godard mal digerito, ma perfettamente compreso e messo al servizio di una storia. Eddie è un travestito, orfano di padre, in rivalità con Leda per la supremazia in un locale chiamato Genet e per avere l’amore del proprietario. La vicenda si snoda attraverso flash-back e flash-forward, tra incontri nella Tokyo che cambia e contatti con un gruppo di cineasti underground, intervallati da interviste agli attori che parlano dei personaggi che interpretano. Forse è un ricordo, forse è una scena al presente: Eddie accoltella la madre, poi — suicidatasi Leda — può finalmente amare quello che si rivela essere suo padre. Eddie è quindi un Edipo sessualmente “ribaltato”: il padre si suicida per la vergogna e Eddie si trafigge gli occhi in un finale agghiacciante, interrotto da un ometto (forse il regista) che commenta: “era un film singolare, pieno di crudeltà e risate. Ci rivedremo per il prossimo film. Sayonara, sayonara”. Giuro. Beh, eccezionale. Non sono sicuro al cento per cento di avere afferrato tutta la parte edipica della faccenda, ma sono abbastanza sicuro di quello che ho scritto. Bisognerebbe capire quale rilevanza abbia avuto sul mercato un film così, se fosse un caso isolato o se rispecchiasse una particolare inclinazione… del Giappone, dell’autore, boh. In ogni caso la produzione è di prim’ordine e non fa pensare a un’opera clandestina. Al film segue La casa delle perversioni di Noburu Tanaka (quello di Abesada. “Aaaah, ecco chi…”) la cui visione rimando al 2032. Due giorni prima ho provato anche a vedere La sua giornata di gloria, film settantottino di Edoardo Bruno, odierno direttore di Filmcritica (provate a leggerla, sù, provate). Ho rantolato per venticinque minuti, poi ho gettato la spugna. C’è un prologo in bianco e nero tratto da Partner e poi una bella sequenza, strana ma intrigante, con degli uomini nero vestiti che arrestano o giustiziano dei fuggitivi. Uno di loro si nasconde e ricorda: lo vediamo che discute vacuamente con Carlo Cecchi e si fa raccontare di Brecht (pronunciato “Brescht”, come in Manhattan dicevano Van Gaag): cos’ha scritto, com’è vissuto, cos’è lo straniamento etc. Esiziale, didascalico, verbosissimo, lento come una lumaca ferita, girato con pochissimi mezzi economici e soprattutto espressivi. Abbandono la visione e nella nottata cancello tutto, registrandoci sopra il Fuori Orario dedicato a 10 anni di Blob. Tiè. (Vhs da Rai; 16/8/99)
239 – A letto con il nemico di un Farabutto Pelandrone, USA 1991
Un mercoledì sera, in attesa di partire per il mare. Barbara m’impone questo martirio su pellicola: lei, quando vede l’inizio, deve arrivare fino alla fine, quale che sia la qualità del prodotto in visione. E questo A letto con il nemico è una schifezza micidiale, straziante, come non mi capitava da tempo: Julia Roberts riesce a fuggire, simulando la morte, a un marito manesco e psicopatico, fanatico dell’ordine e geloso alla follia. La bella si rifà una vita, ma il marito la ritrova e volano sberle. Trama esilissima e prevedibile, personaggi inesistenti, recitazione altamente improbabile: una puzzonata, grado zero dell’impegno registico (Joseph Ruben) e degli sceneggiatori. (Diretta su Italia1; 18/8/99)
242 – Detour di uno Confuso, USA 1945
Definito “il miglior film di serie B di tutti i tempi”, pluristellato nelle varie enciclopedie, cult di Fuori Orario, imprescindibile riferimento per ogni cinéphile che si rispetti, citatissimo in ogni saggio critico in cui inciampo: che faccio se non proporlo a una disperata compagnia di amici riunitasi un sabato sera settembrino? Lo vendo come un vero piazzista da fiera strapaesana, canto le lodi del regista Ulmer (“Chi non ha mai sentito parlare di Ulmer, eh?!”) e tutti si fidano. E sbagliano. Tra Alessandra che dorme come una pietra, Luca che sghignazza per ogni battuta e Simona che parla tutto il tempo (“per farselo passare”), Barbara e io siamo gli unici a impegnarci in una visione che, nonostante i 65 minuti, risulta leggera come un capitello corinzio sui coglioni. Oddio, abbiamo gli anticorpi per i film pesanti, noi cresciuti a mazzate brasiliane e iraniane, ma gli altri me la giurano e così queste due righe di commento sono sicuramente influenzate dal clima di linciaggio che s’è creato a fine visione. La trama è uno spasso: Al Robinson decide di andare a trovare la fidanzata che è a Hollywood a cercare fortuna. Prende un passaggio da un ambiguo figuro che gli muore nel sonno, in macchina. Allora questo scalognato del protagonista si libera del cadavere per poi tirare su una provocante autostoppista. Che sa tutto! Incubo! Al deve stare al gioco della tipa che ha uno sguardo un po’ folle, ma poi si ribella e la uccide per errore. Non scherzo. Disperato, Al vagabonda sicuro di esser trovato dalla polizia. Non si capisce come, ma giacché tutto sfugge a una logica, allora tutto torna. Sarà l’atmosfera ostile, i dialoghi vecchi di 45 anni, il ritmo ipnotico come un cobra e letale come il suo morso, ma non m’ha preso per niente. All’epoca, l’apologo così crudele di Edgar G. Ulmer avrà fatto scalpore (“onirico”, “ribalta le convenzioni”, “non ha consequenzialità”, e vaffanculo!) ma il film è indubbiamente disordinato, alterna idee a sciatterie clamorose. E siccome è strambo, molto strambo, fa figo dire che è geniale. Ma non lo è, credetemi. (Vhs da RaiTre, 4/9/99)
247 – Lorna di Russ Meyer, USA 1964
Partita Barbara alla volta di Parigi, mi dedico ad alcune vhs che mi aspettano da tempo. Quelle con le donne nude. Allora: Lorna è una cavallona con i seni puntuti come due palle da rugby che vive col giovane marito in una capanna sul fiume. Il giovin consorte è un coscienzioso lavoratore che le nega, però, un po’ di dolcezza. Ci siamo capiti. Manco a dirlo, in assenza del ragazzo ed esattamente nella ricorrenza del loro matrimonio, Lorna si va a fare un bagnetto perché accaldata e annoiata; e chi ti incontra? Un bell’evaso che di fronte alla prorompente carnalità della bionda se la succhia come un’ostrica e Lorna, la stessa che voleva un po’ di dolcezza, dopo la classica iniziale resistenza si fa ridurre a uno straccio. Tipico luogo comune maschilista: in fondo sono tutte zoccole, no? Vabbeh, concedo l’attenuante dell’ironia e vediamo come va a finire. Il marito torna a casa, capisce di indossare un curioso copricapo cornuto e la vicenda si conclude malino. La trama è esile ma Meyer sa evitare la prevedibilità: siamo in un profondo sud affetto da cretinismo e il ricorrente apparire di un predicatore dà spessore ironico (e tragico) alla storia. In più s’aggiunga che la fotografia non è mai banale e l’economia di scelte registiche e di montaggio diventano assolutamente originali punti di forza. Due momenti, poi, sono assolutamente riusciti: la camminata indolente di Lorna per i campi montata parallelamente alla fuga concitata dell’evaso (e di seguito la nota balneazione biotta della protagonista) e la scena in cui Lorna va in paese felice: viene a sapere chi è l’uomo che l’ha appena sessualmente massacrata e torna a casa in subbuglio, indecisa sul da farsi, perché anche se delinquente, quello là tromba come un macaco in calore e rinunciarci sarebbe da matte… Film divertente, un po’ lento, ma con un suo motivo d’essere. (Vhs originale; 28/9/99)
248 – Faster, Pussycat! Kill! Kill! di Russ Meyer, USA 1966
Tre ballerine poco raccomandabili passano il loro tempo scorrazzando per il deserto e menando gran strage di uomini imbelli e imbecilli: un incubo ambientato nell’accecante luce del deserto del Mojave per un film violento, perverso, dotato di una riuscita carica erotica animalesca. Meyer ci mette in guardia da queste donne, ma in cuor suo tiene evidentemente per loro. Le tre protagoniste sono pettorute tutte curve, mammiferi violenti, affamate di carne, legate da un lesbismo per niente occulto, impegnate a combattere l’idiozia del maschio americano. Lo attirano nella trappola e poi se ne fanno un boccone. E Meyer le adora, mica come il vecchietto che vedendole esclama: “Women! They let ‘em vote, smoke and drive, even put ‘em in pants! And what happens? A Democrat for president!”. Alla fine trionfa il “bene”, ordinario, insapore, ma l’inquietudine rimane e lo spettatore ci rimane male perché parteggiava per quell’incredibile faccia di Tura Satana, ci giurerei. (Vhs originale; 28/9/99)
253 – Svegliati Ned del furbetto Kirk Jones, Gran Bretagna 1998
Una domenica bestiale, passata sdraiato sul sofà a togliermi un po’ di sfizi. Inizio con questo filmetto, carino, simpatico etc. che vive di una ideuzza e la spreme con mestiere sino in fondo. Di contorno una zuccherosa storia d’amore. Ti passa, eh?, tra attori simpatici e bravi, una fotografia cartolinesca e qualche trovata (la sorte della paraplegica cattiva). Comunque questo è il cinema inglese che riscuote incredibile successo in questi anni bui: roba innocua per rincoglioniti spaparanzati sul divano. Come me e come tanti spettatori borghesucci in sala. Boh. Ho fatto bene a non andarlo a vedere al cinema, mi sarei incazzato come una pantera. (Vhs originale; 3/10/99)
255 – Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner, USA 1968
Caposaldo della mia infanzia, questo capolavoro della fantascienza mi appare sul video, appena spento il videoregistratore. Che fare? Riguardarlo per la settima volta, senza dubbio. La vicenda è nota: che gioia ritrovare Cornelius e Zira che intuiscono che Charlton Heston non è un uomo come gli altri, ma pensa e parla! Girato in location suggestive, tra Arizona e Utah, Il pianeta delle scimmie ha intuizioni notevoli, scenografie efficaci, musiche evocative per una regia funzionale che si concede diversi spunti di humour (“Cornelius, sii scimmia!” o i tre giudici oranghi che non sentono, non vedono e non parlano). Inoltre questo film è pacifista, ecologista, antirazzista e contro la religione dogmatica e la scienza autodistruttrice. Tante belle cose che vanno a braccetto con un inestinguibile pessimismo (la straordinaria ed emozionante scena finale con la Statua della Libertà sulla spiaggia deserta del 3972). Era sicuramente politica di maniera, compiacente col pubblico giovane, ma Heston non ha mai interpretato un film così di sinistra. Grande. (Diretta Retequattro; 3/10/99)
257 – Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar, Spagna 1999
Dopo più di un anno ritorno all’infame Ritz e scopro che finalmente hanno riparato i proiettori. Accendono sempre le luci sui titoli di coda, ma ormai questa è una pessima abitudine in voga ovunque: “Bisogna liberare il cinema per lo spettacolo dopo, abbiamo fretta, qui si lavora, aria, ariaaaa, sgom-be-ra-re!”. Mi adeguo senza discutere. Anche perché il film è stato talmente bello che sono senza parole. Provo imbarazzo a dire che mi sia piaciuto così tanto: come si fa a essere sicuri di aver visto un capolavoro? Non lo so, infatti, ma a me questo ultimo Almodóvar è sembrato perfetto. Splendide le attrici (o attori: in certi casi era magnificamente vago), splendida la musica, il montaggio, la fotografia, i dialoghi, i tempi della messa in scena, l’alternarsi di scene madri (come definirle, se no?) e momenti comici esilaranti. È tanto che non rivedo i film di Almodóvar e avevo vacillato molto con le ultime opere (specialmente con l’orrendissimo Kika), ma oggi mi sembra che Pedro si sia ripreso tutta la sua capacità inventiva e, pur lavorando su situazioni a lui caratteristiche, sia riuscito a non ripetersi e a elevare quanto già fatto alla perfezione. Qui c’è tutto il suo amore per le donne, per le icone hollywoodiane e per il melò, per le situazioni paradossali e le battute fulminanti e c’è una straordinaria capacità di costruire rapporti credibili ed emozionanti tra personaggi che altrimenti sarebbero assolutamente “incredibili”. È un film bello da seguire, catturati dalle emozioni della storia, e bello da vedere. È bello il viso incantevole e purissimo di Penelope Cruz e sono splendide le facce più mature e intense della Paredes e della Roth, la protagonista principale. E poi le idee assurde e geniali che ci colpiscono all’improvviso: una bigotta che dipinge Chagall falsi, un trans dal cuore d’oro che sa improvvisare un monologo esilarante, un bel travestito che seduce una suora… non c’è una scena che non sia meno che eccellente per qualche particolare. E in ogni caso è eccezionale soprattutto la scrittura: questo è un film scritto da dio, senza sbavature, senza esitazioni, intensissimo, dove attraverso tanto dolore si arriva a un finale che si apre (finalmente!) alla speranza. Bello da piangere. (Cinema Ritz, Genova; 3/10/99)
(Continua — 6)