di Simone Sarasso
Paolo Roversi, L’uomo della pianura, Milano, Mursia, 2009, pp. 296, € 17
C’era una volta San Vittore. Correva l’Anno del Signore 1975 e se ti capitava di finire dietro le sbarre — magari per colpa di un maledetto errore — potevi star certo che la tua vita non sarebbe stata più la stessa. In quelle celle bastarde, tra quei passeggi lerci di sudore e brutti pensieri, osceni di rabbia e cause perse, si finiva male. In buiosa i ragazzini diventavano uomini. Uomini che le loro stesse madri stentavano a riconoscere.
Succedeva: a metà dei Settanta, a San Vittore.
Nel mondo vero.
Succede ancora: nel 2009, sulla carta. Succede al protagonista dell’ultimo riuscitissimo (nerissimo) giallo di Paolo Roversi.
Se avete letto i precedenti volumi della saga di Enrico Radeschi (il cronista di nera trapiantato a Milano dalla Bassa, già star di Blue tango, La mano sinistra del diavolo, Niente baci alla francese) e avete sempre pensato che il ragazzo fosse bravo ma non si sporcasse abbastanza le mani col lato oscuro dell’umanità, questa volta — fidatevi — resterete soddisfatti. Perché la vita dello scribacchino verrà sconvolta da un autentico uragano; un uragano tutto lama e pessimi propositi: mr. Hurricane.
Il giovane Radeschi ne ha fatta di strada: dalle trame fosche di Blue Tango (2006, Stampa Alternativa) — in cui il giornalista free-lance dal telefonino sempre scarico aveva ancora l’aria dello sbarbato e le idee poco chiare sul futuro — si è trascinato fino alle nebbie lattiginose de La mano sinistra del diavolo (2006 Mursia, vincitore della Quarta Edizione del Premio Camaiore Letteratura Gialla), ha imparato a riconoscere il sapore del sangue e della delusione (d’affari e di cuore). È cresciuto, è diventato più ruvido fra le lenzuola (se tra le pagine del romanzo appare una signorina, stai sicuro che prima o poi il buon Radeschi ci combinerà qualcosa) e più accanito a fiutare la preda (penna e taccuino non bastano più, la tecnologia diventa sempre più centrale nella detection). I morti ammazzati, sempre più numerosi, si ammonticchiano sul suo cammino e un passato di guerra, resistenza e brutte storie si fa sempre più sotto. All’alba della sua terza avventura (Niente baci alla francese, 2007) Radeschi è pronto per il gioco grosso: quando il sindaco di Milano crepa durante la prima alla Scala del 7 dicembre e pochi giorni dopo tocca una fine simile anche al primo cittadino parigino, il reporter si scatena tra Milano e la Francia a caccia d’indizi, sgomitando tra case occupate, hacker belli tosti, ragazzine svelte di mano e un quintale di piombo.
Ma è solo in questo libro che Enrico Radeschi conoscerà davvero i propri limiti. Quando si troverà davanti Hurricane — un ammazzacristiani degno del miglior cinema di Umberto Lenzi — se la farà sotto sul serio. Hurricane è LA nemesi: niente sorrisi, niente sconti all’ironia gustosa (file rouge sottopelle all’intera quadrilogia).
Un’autentica enciclopedia della sofferenza.
Roversi crea un cattivo da antologia mischiando le vecchie storie della mala milanese settantina. Il suo Hurricane (galeotto innocente, proprio come il Rubin Carter di Bob Dylan: Here comes the story of the Hurricane…) entra in gabbia vergine ed esce bandito. La sua vita, una volta fuori, è un po’ quella di Vallanzasca e un po’ quella di Turatello: rapine, sequestri, omicidi, vendette, sfregi e pallottole. Una scia di sangue che dalla Milano di piombo viaggia trent’anni e arriva fino alla Bassa, in una strana provincia abitata da indiani padani — che mungono le mucche (e scopano le figlie) dei signorotti locali —, vecchierelli distopici che s’improvvisano cronisti dialettali per la televisioncina legaiola del luogo, carabinieri ulcerosi, fricchettone ambientaliste di cui finisci per innamorarti e improbabili armadilli con la sciarpa di lana.
È un libro denso come il mercurio e maturo al punto giusto. Succoso. Con una lingua piana e frizzante, esperta e mai greve. Roversi conosce il gergo ma non se la mena mai. Infarcisce questo gioiello di citazioni (di genere e coltissime), ma risulta sempre coinvolgente. E in poco meno di trecento pagine riesce a compiere un piccolo miracolo: costruisce un universo.
Nessuno, prima d’ora, m’aveva mai raccontato l’educazione di una canaglia di casa nostra. Non conoscevo l’odore delle brande di San Vittore, né tantomeno che cavolo si beveva in bisca, all’alba, dopo una notte di poker. Non avevo idea di come si adoperasse una lama fatta in casa (quante cose si possano fare con un semplice spazzolino da denti…) né, diavolo, di quale ferro fosse più adatto per una dura al supermercato. Dettagli: ecco il segreto in due parole. Una marea di dettagli sulla vita e la morte banditesca degli anni Settanta. Un libro importante perché è il primo, autentico “Romanzo Criminale” milanese, ma è, comunque, una straordinaria sorpresa anche per chi quelle storie le ha già sentite raccontare tante volte. Un libro così profondamente italiano da lasciare il segno. Una lezione di storia di quelle che raccontano i nonni (nonni col coltello e la ballerina alla cinta, ça va sans dire) e che i nipoti si ritrovano in bocca trent’anni dopo. Una storia senza tempo. Sicuramente il romanzo più maturo del golden boy del giallo italiano. Che ha finalmente — come dice il saggio — “tolto le rotelline alla bicicletta” e pedala, Coppi redivivo, verso il Gran Premio della Maturità Letteraria senza paura.