di Gioacchino Toni
Giovanni Iozzoli, I terremotati, Manifestolibri, 2009, pp. 158, € 14,00.
Il ventinovesimo anniversario, da poco trascorso, del terremoto irpino del 1980 è passato inosservato, come spesso capita in un paese in cui l’agenda politico-culturale è dominata da un frenetico presente fatto di guerre di palazzo e scaldaletti tristi. Eppure quel terremoto, nella sua devastante estensione, produsse molti grandi eventi le cui conseguenze si proiettano fino ai giorni nostri, nella drammatica attualità di un paese che vive una perenne emergenza in termini di sicurezza sismica e assetti idrogeologici. L’autore, con una scrittura amara, senza mai farsi pedante, lascia parlare le piccole storie di piccoli uomini, alle prese con le devastazioni materiali e morali del cratere. Comunità lacerate o distrutte, rapporti sociali saltati, figure patetiche alle prese con la malamodernizzazione forzata del nostro Mezzogiorno, indotta dalla forza del sisma ma soprattutto dal flusso di spesa pubblica che investì quei territori, ridisegnandone, in peggio, gerarchie e vocazioni.
La narrazione ruota attorno a quel maledetto 1980: alle spalle gli anni della grande ribellione, ormai al tramonto (rappresentati dalla sorella del protagonista che scompare nel vortice della clandestinità), davanti gli anni effimeri dell’ “Italia da bere”, tra i guappi di Don Raffaele Cutolo, socialisti rampanti, preti con poca fede e ancor meno fedeli, colate di calcestruzzo che cementano i nuovi rapporti di forza, gli ultimi scampoli di una Prima Repubblica allo sfascio, di un’era della nostra storia che si chiude.
Le ruberie e gli sprechi che accompagnarono quella stagione (pur nelle innegabili difficoltà di una ricostruzione che riguardava un territorio grande come il Belgio), avranno un effetto finale nefasto: la cancellazione dall’agenda politica del Meridionalismo, una corrente nobile della nostra cultura politica della quale persino la denominazione diventerà un tabù.
Il sisma che ha sconvolto l’Irpinia non è dunque stato soltanto un disastro naturale esauritosi con il lutto per i tanti caduti di quel maledetto 23 novembre quando «Cristiani, cani, ciucci, signori e cafoni, tutti si inchinarono», ma anche un terremoto sociale che, arrivato con le scosse telluriche, si è protratto nel tempo, dilaniando una disarmata comunità di uomini e donne. Sono proprio gli anni successivi al sisma, quelli in cui «il tempo era merce abbondante» e «i giorni che si misero a girare vorticosi e selvaggi, insieme ai soldi, agli ingegneri, ai ricottari e agli spacciatori, alle pale meccaniche, alle facce stranite della gente» a essere raccontati da Iozzoli.
Merito del romanzo è quello di riuscire a coniugare le piccole storie dei personaggi di paese con la portata delle trasformazioni che hanno riscritto la vita sociale del Sud, in particolare, e dell’Italia degli anni ’80 e ’90, più in generale. Tali cambiamenti si sono dati in Irpinia in maniera ancora più traumatica, come se tutto fosse successo con la potenza del piede del terremoto a spingere sull’acceleratore della storia. Si badi bene, nella narrazione viene concesso davvero poco spazio al rimpianto, qua non si tratta di nostalgia per un’Irpinia “dai mulini bianchi” perduta con il sisma. Le uniche tracce di rimpianto sono ravvisabili nell’irrinunciabile tenerezza che il protagonista riserva alla propria infanzia e agli affetti perduti.
La comunità che, prima del terremoto, dallo Stato non si aspettava altro che la chiamata alle armi, puntuale come la morte, improvvisamente scopre un nuovo, inaspettato trattamento, fatto di donazioni e risarcimenti, di pensioni e finanziamenti. Un trattamento resosi necessario nel momento in cui «Qualcuno si stava accorgendo che il Mezzogiorno scricchiolava, che tra Napoli e la provincia infetta del cratere, il vecchio edificio puntellato non reggeva più, sotto i colpi non solo della antiche ciurme sottoproletarie ma anche di una nuova piccola-borghesia povera, incazzata e scolarizzata senza prospettive». Lo stesso sogno dell’arrivo dell’industrializzazione matura, più che dalla voglia di chiudersi in fabbrica, dalla speranza di non dover «viaggiare in mezza Europa a guadagnare un salario operaio in marchi o sterline».
Nella galleria di personaggi raccontati, non manca la figura di chi, partito per il Nord per fare il militante a tempo pieno, anziché restare e, «con le mani a megafono davanti alla bocca», tentare una battaglia locale «spericolata eppure matura e possibile», rientrato al paese, si lascia cooptare dalle sirene del rampantismo socialista «sempre a caccia di ex rivoluzionari di qualità con i quali rafforzare una classe dirigente locale mediocre o malandrina»
Di tanto in tanto, nel corso della narrazione, si incontrano brevi passaggi capaci di descrivere in maniera ineccepibile la portata dei cambiamenti o il nocciolo delle questioni. Ad esempio, in poche righe l’autore, senza fare sconti alla “sua gente”, riesce a descrivere il senso di rassegnazione che attraversava la comunità irpina sin da prima dell’evento tellurico: «Ricordo pure uno, un bel tipo, un po’ matto, che venne a giocare ad Avellino (doveva essere il ’79) e alla prima conferenza stampa, quando gli chiesero cosa pensava dello stadio nuovo, rispose: bello, peccato che l’ospedale fa schifo, potevate pensare prima all’ospedale. E aveva ragione, non dico mica di no: ma noi, noi tutta la popolazione, eravamo rassegnati agli ospedali schifosi, pieni di topi e umidità, non era una cosa nuova. Era la serie A la cosa nuova e di quello ci inorgoglivamo».
Emblematica, quanto toccante, per certi versi, anche la figura del tizio che per tutta la vita ha sognato di “fare il teatro” e finisce col trovarsi, disperato, squilibrato come i ruderi del post-terremoto, a intraprendere la carriera di mago «C’era sì la degenerazione di un uomo sfortunato che era andato fuori di testa, ma dietro questa parabola umana si leggeva anche la degenerazione di un’intera comunità, un senso di crisi, di sgretolamento, di perdita»
«Tutta questa storia non finisce bene. Non poteva finire bene», inizia così l’ultimo capitolo del libro.
Tutte le storie e tutti personaggi declinano verso il fallimento, nella mediocrità di un nuovo presente che si accetta ma non si capisce; e all’adolescente “terremotato” non resta che riprendere la via di fuga verso il Nord, per non farsi inghiottire nella gelatina di una società meridionale che perde l’ennesimo treno del suo riscatto. Sullo sfondo una sorella perduta e lontana, come gli anni della ribellione e della speranza e un Nord triste sotto cui già viaggiano le onde telluriche della grande crisi che stiamo vivendo si interrompono le storie narrate. Un Settentrione, quello in cui si rifugia il protagonista, sempre meno ospitale. Una terra disposta ad aprirsi al nuovo arrivato soltanto a tempo determinato: l’orario di lavoro. Per le restanti ore occorre che ognuno si arrangi nel “suo giro”, se ne ha uno. Magari senza farsi troppo notare.
Il terremoto narrato da Giovanni Iozzoli ha investito tutto e tutti. Quello che il libro narra ci tocca da vicino. Tutti. E non per, pur nobile, empatia o solidarietà, ma per il dilagare di disgregazione, di rassegnazione e di cattiveria: «Non ce la prenderemo con chi ci ha illuso (…) Ce la prenderemo con quelli che stanno sotto».