di Sandro Moiso
Qui le puntate precedenti.
Quell’area di servizio era unica
Quell’area di servizio era unica.
In realtà quella società era quasi tutta lì poiché nel cortile retrostante vi erano il deposito di carburante principale e gli uffici amministrativi.
Il cammino del progresso la vide poi inglobata da altre più grandi, mentre alcuni dirigenti finirono successivamente con l’essere coinvolti nei primi scandali petroliferi nella seconda metà degli anni sessanta.
La storia di Enrico Mattei è stata più volte ricostruita, anche al cinema, fin quasi a far rientrare la sua figura in una sorta di moderna agiografia patria.
Ma la storia degli avventurieri che sulla scia del petrolio e della motorizzazione diffusa si lanciarono nell’avventura italiana del raffinamento e della distribuzione di quella linfa vitale del nostro capitalismo deve essere ancora scritta.
L’annuncio di giacimenti di gas e, forse, petrolio nella pianura padana risvegliò in normali trafficoni il sogno di emulare i giganti texani.
Sugli schermi James Dean aveva portato la figura sia del giovane ribelle senza causa tutto dedito alle corse automobilistiche che quella del self-made man del petrolio.
Anche il mito e i reati cominciavano a puzzare di idrocarburi.
Nell’Italia del lungo dopoguerra la borsa nera ed i traffici illegali costituirono un terreno ideale per coloro che avrebbero costruito rapide fortune a danno di altri.
Dalla pineta del Tombolo alla pianura padana, passando per Napoli e il suo porto si costituì una sorta di repubblica, tutt’altro che immaginaria, di robber barons e gangster in scala minore, ma altrettanto scaltri, decisi e spietati di quelli veri made in USA.
Lattuada ne descrisse le malefatte in “Senza pietà”, ma era possibile trovarli ovunque.
Gli scandali edilizi, gli abusi, le truffe petrolifere e non, le finte mortadelle riempite di sterco per incassare i premi statali alle esportazioni ne furono la naturale conseguenza.
Mio padre odiò sempre visceralmente un parente acquisito che ostentava allora la sua ricchezza affermando che “chi a l’à nen sent milion al di d’ancheuj a l’è n’aso” (1).
Sapeva come l’aveva accumulata.
Intanto lì davanti scorreva il traffico
Intanto lì davanti scorreva il traffico.
Giorno e notte, mentre le tangenziali erano ancora ben lungi da venire.
L’asse Torino — Milano, autentica arteria economica di quei giorni, passava sul corso.
Più che le auto erano gli autocarri, singoli o con rimorchio, e i primi autoarticolati, di ogni dimensione, colore e misura a costituire la vera meraviglia per i miei occhi di bambino.
Quei colossi sembravano promettere viaggi infiniti, talvolta misteriosi, spesso tortuosi e pericolosi.
La realtà della vita dei camionisti, però, mi giungeva attraverso la notizia di qualche grave incidente, talvolta mortale, o del furto del mezzo occorso a qualche autista o padroncino conosciuto mentre mi trovavo sulla piazzola.
Anni dopo “Convoy”, di Sam Peckimpah, rispolverò in me quel primo mito infantile.
Erano anche gli anni del grande Fred.
Buscaglione, il dritto di Chicago, il bluesman di Torino, lo shouter ironico e alcolico di “Guarda che luna “ e “Piccola”.
Le sue canzoni puzzavano di whisky, benzina e di America rivisitata attraverso la periferia torinese.
Perennemente in corsa sulla sua Jaguar, fino allo schianto e alle fiamme finali alle porte di Roma in coincidenza col mio settimo compleanno.
Un’altra figura ad alto contenuto di ottani fu certamente quella di un medico, cliente abituale del distributore.
Si diceva che fosse un abilissimo chirurgo cui non tremava mai la mano, anche se perennemente ubriaco.
La sua specialità era far correre al suo inseguimento i vecchi Guzzi Falcone della Stradale e dei vigili urbani, ignorando costantemente ogni limite di velocità.
Il colmo fu quando, raggiunto e bloccato da alcune pattuglie e riconosciuto come il Dott. …, alle rimostranze degli agenti e ai loro predicozzi reagì pisciando sugli stivali di un capo pattuglia.
Entrò nella leggenda della Barriera, che non aveva bisogno di “Gioventù bruciata” per scoprire il brivido nichilista della sfida.
Per tener fede a quel mito anche lui finì con il fracassarsi contro un TIR.
Gli operai, i prule, pur cominciando a donare un numero molto alto di vittime agli altari d’asfalto, non riuscivano però a entrare lo stesso in quelle leggende metropolitane antenate del Ballard di Crash e delle sue entomologiche descrizioni di incidenti e susseguente strazio dei corpi.
Forse perché la 600 Multipla, con cui spesso avvenivano quei tragici incidenti, non era adatta al mito della velocità e del rischio fine a se stesso.
Erano gli anni in cui la FIAT iniziava la sua politica di convenienti offerte ai suoi dipendenti.
Il presidente Einaudi si era fatto fotografare a bordo di una Seicento, ma la Multipla era veramente orrenda con la sua linea da supposta.
Era la versione“monovolume”, come si direbbe oggi, di quella prima vettura di massa del dopoguerra.
I fortunati che potevano comperarla a rate, indebitandosi con l’azienda per cui lavoravano, la stipavano all’inverosimile di familiari la domenica e di colleghi di lavoro nei giorni feriali.
Era soprattutto con quelli a bordo che avvenivano gli incidenti più spaventosi.
Nella nebbia delle strade che raggiungevano la fabbrica per l’ingresso del primo turno o al ritorno, dopo l’uscita serale delle ventitré.
Anche per noi la FIAT 600 fu la prima autovettura
Anche per noi la FIAT 600 fu la prima autovettura.
Quell’utilitaria dal colore azzurro chiaro, dai copertoni bordati di bianco e ricca di cromature segnò un’autentica svolta nel nostro modo di vedere il mondo.
Finalmente mio padre, e io e mia madre con lui, eravamo liberi di viaggiare.
Sui nastri d’asfalto che percorrevano le periferie in direzione est, sud, ovest e nord avrebbe potuto immaginare nuove rotte per i momenti di libertà.
Vennero in seguito una 1100, poi una 124, poi altre automobili ancora.
Ma fu quella prima a marcare la differenza o forse a rappresentare un immaginario biglietto d’ingresso per la middle class.
La prima Seicento era uscita dagli stabilimenti FIAT nel 1954.
Per noi arrivò, con la patente di mio padre, nel 1959.
L’anno successivo tornò in Italia, per un breve soggiorno, la sorella di mia madre che fin dal 1945 era emigrata negli Stati Uniti.
L’occasione era importante e venne organizzato un viaggio a Venezia, offerto da un cugino tenente colonnello dell’esercito.
Partimmo da Torino in cinque: i miei genitori, mia zia, mia nonna e io.
Come ci stipammo nella seicento resta ancora un mistero, considerato che la nonna si avvicinava al quintale e che la zia d’America viaggiava con due voluminose valigie da cui non si separava mai.
Fu forse allora che iniziai a patire l’auto, anche se i cinquecento chilometri che separavano Torino da Venezia si srotolavano in gran parte su strade poco curvilinee.
Era estate e io ero seduto tra mia madre e mia zia sul sedile posteriore.
Non smisi più, da allora, di patire i tragitti automobilistici superiore ai cinque chilometri.
Negli anni seguenti lasciai tracce del mio passaggio sul bordo delle strade che univano Torino alla Liguria, all’astigiano, alla Val di Susa o in qualsiasi altra direzione imboccata dall’auto di mio padre.
Una vera e propria cartografia del vomito infantile che ebbe sempre, nei pressi del santuario di Vicoforte, in direzione Savona, la sua stella polare.
Regolarmente mi addormentavo e quando mi risvegliavo, per le curve o chissà che altro, l’odore del fumo delle sigarette fumate da mio padre mescolato a quelli dell’auto e del carburante facevano scattare immediatamente dei coloratissimi fuochi d’artificio destinati a sporcare tappetini e rivestimenti in finta pelle di quella e dell’auto che venne ancora dopo.
Ciò iniziò a marcare un severo limite biologico per i sogni di libertà di mio padre.
Comunque un po’ di libertà era arrivata
Comunque un po’ di libertà era arrivata.
I distributori iniziarono a rispettare dei turni di riposo settimanale e fu anche possibile organizzare dei periodi di ferie di quindici giorni durante l’estate.
Finalmente era possibile uscire dalla città e infilarsi in ingorghi e code di auto senza fine.
Fermi sotto il sole cocente si potevano pregustare i divertimenti e i piaceri che la Riviera ligure di ponente riservava ai fortunati vacanzieri torinesi.
Prima della costruzione della Torino — Savona, Mondovì costituì l’incubo di ogni autista e di ogni famiglia partita per le vacanze.
In prossimità dello stretto ponte che permetteva l’accesso al suo territorio, o delle curve che lo precedevano e lo seguivano, si scatenava l’inferno.
Ed era inutile svegliarsi all’alba e cercar di partire con i primi chiarori: tutti avevano avuto la stessa idea.
Una cacofonia di clacson, pianti di bambini, bestemmie degli autisti, litigi tra mogli e mariti e tra auto e auto, costituiva la colonna sonora ideale per i futuri peccatori di Albenga Beach.
Poi lentamente, apparentemente senza un perché, le auto si rimettevano in movimento.
La Terra Promessa tornava a delinearsi all’orizzonte e più era distante da Savona la meta di arrivo, più si saliva nella scala sociale.
La nostra meta era costituita da Finale Ligure, località già un po’ distaccata dal capoluogo, ma ancora ben distante da Alassio, San Remo e dalle altre località prossime al confine con la Francia.
La Costa Azzurra sembrava essere allora il paradiso perduto per ogni buon piccolo borghese e la gita in giornata a Montecarlo, Nizza e Cannes divenne il fulcro di ogni vacanza ligure che si rispettasse.
Naturalmente altre code, altre levatacce all’alba, altro vomito coloratissimo.
Ma appena passato il confine… alé, via con i croissant e i café au lait dei bar del lungomare francese.
Lungomare non molto dissimile da quello lasciato prima della frontiera, ma lì eravamo in Francia e tutto doveva essere, per forza, più bello e più buono.
Forse anche più costoso, ma che importava: la Côte d’Azur valeva bene una certa spesa.
L’Acquario di Monaco e il Museo marino collegato costituirono per me una meta fantastica.
Lo scheletro di una balena primeggiava nella sala principale, promessa di avventure che le prime letture salgariane cominciavano a farmi sognare a occhi aperti.
Oggi sorrido dell’entusiasmo con cui mi si parla di viaggi in Thailandia o alle Seychelles.
Mi ricorda quelle gaudenze d’allora, che erano soltanto più semplici e meno costose.
Poi venne l’autostrada
Poi venne l’autostrada,
Come al solito fatta al risparmio, la A6 Torino — Savona, con le sue tre corsie, divenne un vero e proprio cimitero di vite e illusioni perdute.
Tre carreggiate: una per entrambi i sensi di marcia e una centrale per il sorpasso.
Chi l’aveva progettata avrebbe dovuto essere processato per crimini contro l’umanità.
Ma che importava… Il traffico era più veloce e anche i torinesi avevano la loro highway per il mare.
Era una delle prime autostrade italiane, aperta nel 1960 e lunga centoventiquattro chilometri.
Di questi solo il primo tratto di 14 km e una galleria in prossimità di Mondovì erano a doppia carreggiata.
La 500 miglia di Indianapolis erano nulla in confronto ai duelli che si scatenavano su quel percorso.
Tra auto che sorpassavano e auto che non volevano farsi sorpassare, e soprattutto tra auto in sorpasso che, occupando la corsia centrale, non volevano mica mollarla al primo venuto in senso opposto! BANG!
Fine delle vacanze e di tutto il resto. Ma, almeno, la galleria Gay evitava code e vomito.
Aumentò così vertiginosamente il numero di aspiranti James Dean e i viaggi verso il mare iniziarono a riservare qualche emozione in più alle madri di famiglia che, rigidamente sedute alla destra di spericolati capifamiglia, iniziarono a rimpiangere le buone, vecchie code e gli ingorghi arroventati dal sole; mentre i figli a bordo tifavano ognuno per il proprio genitore-pilota, in attesa di potersi anche loro scatenare in qualche sarabanda d’asfalto, metallo e benzina, una volta raggiunta la maggiore età.
Chuck Berry nel 1961 compose e incise Route 66.
Celebrava quella che allora era una delle più importanti vie di comunicazione statunitensi.
Da noi si sarebbe potuto cantare così:
Take the way / On the Highway / That’s the Best
And Get your Kick / On the Route A6.
Impiegati di banca, capiofficina, commercianti e operai arricchiti dagli straordinari sembravano perdere ogni ritegno, ogni attitudine alla sottomissione e all’obbedienza e alla disciplina per scatenarsi in furiosi e insospettabili rock’n’ roll delle tre corsie.
Fornendo così un luminoso esempio di comportamento e sfida ai propri pargoli gioiosi.
Le colpe dei padri ricadono sempre sui figli.
A proposito di padri e figli
A proposito di padri e figli…
Il mio era stato partigiano nelle brigate Garibaldi, mentre Osvaldo era venuto da Cosenza con chiare simpatie per la destra e il fascismo.
Finì così che, nel gran marasma del ’68, io diventai un estremista di sinistra mentre Mario, suo figlio, entrò a far parte dell’estrema destra.
Più grande di me di un paio d’anni era stato, per me, un amico d’infanzia e mi aveva trascinato in burle, risate e sfide a chi riusciva a mangiare di più.
Quando, nell’autunno del ’69, me lo ritrovai davanti in uno scontro davanti al liceo rimasi scioccato.
Non abbastanza però da non inseguirlo durante la precipitosa ritirata che era seguita al primo assalto.
Catene, spranghe e coltelli: questo avevo visto brandire contro il nostro picchetto.
Versammo sangue, ma avemmo la meglio.
Mario si salvò precipitandosi sul cofano di una volante della polizia che stava giungendo a sirene spiegate.
In seguito diventò un leader dell’estrema destra torinese.
Poi, tra il ’72 e il ’73, ci ritrovammo a lavorare insieme alle pompe di benzina.
I nostri genitori avevano acquisito un’area di servizio più grande, sull’altro lato del corso.
Anche la società petrolifera era più grande. La Esso.
Osvaldo si ammalò di tumore in quel periodo e noi subentrammo momentaneamente per sopperire alla sua assenza.
Le Olimpiadi di Monaco ci colsero insieme al lavoro.
L’azione di Settembre nero con il sequestro della squadra israeliana ci trovò complici.
Per motivi affatto differenti, parteggiammo entrambi per la causa palestinese.
Cosa che non mancò mai di scandalizzare alcune sue vecchie conoscenze.
Poi Osvaldo morì e io diventai militante a tempo pieno di LC.
Mario sostituì definitivamente suo padre nel lavoro, diventando militante in pianta stabile della distribuzione di carburanti.
Osvaldo, in punto di morte, aveva chiesto a mio padre di tenere il figlio come nuovo socio.
La promessa fu rispettata.
Non tornammo mai a essere amici, ma ormai si era costituito un legame particolare.
Negli anni bui degli agguati, delle vendette e delle ritorsioni lo stabile in cui tutti e due abitavamo con le nostre famiglie divenne off-limits per entrambi gli schieramenti politici.
Ci proteggemmo a vicenda senza mai dovercelo dichiarare.
Non ci frequentammo più, se non per quelle domeniche in cui dovemmo lavorare insieme per far fronte alle lunghe code di auto in attesa di fare il pieno per uscire dalla città per una gita.
Dopo la cessione di quell’area di servizio non ci siamo mai più rivisti.
Quella anomalia non mi turbò allora e continua a non turbarmi a distanza di anni.
Sono ancora convinto che le promesse vadano mantenute e i debiti onorati.
Anche quelli ereditati.
A lui rimprovero, soltanto, di non esser venuto al funerale di mio padre.
All’inizio ci fu un terzo socio
All’inizio ci fu un terzo socio.
Si chiamava Renato e veniva da Monza .
Di fatto era il custode del deposito che si trovava sul retro di quel distributore.
Abitava lì con la moglie, in un piccolo appartamento che si affacciava su un cortile ingombro di autobotti e bidoni.
Tutti e tre insieme non facevano novant’anni.
Per un breve periodo avrebbero potuto ricordare i tre moschettieri immersi nello smog del traffico moderno.
Poi, un giorno, Renato decise di cambiare vita e mestiere e saltò su uno di quei camion che si fermavano lì per il pieno abituale. Di lui non c’è rimasta nemmeno una fotografia.
Le storie che, più avanti negli anni, lessi poi di Kerouac non mi trovarono impreparato.
Fin dall’infanzia avevo visto le persone andare e venire lungo i nastri d’asfalto.
Da quel punto di vista un’area di servizio era un ottimo punto di osservazione.
La gente si spostava per lavoro, per divertimento, per delusione, per coltivare illusioni oppure semplicemente perché non aveva niente di meglio da fare.
Il nomadismo moderno ha spesso avuto nelle aree di servizio le proprie oasi.
Benzina, gasolio, acqua, olio, birra, panini, carte stradali, deodoranti per auto, servizi igienici, vino e toast: ecco gli elementi cui si rivolgeva l’attenzione dei moderni Ulisse a quattro ruote.
Dove si fermavano i camionisti spesso sostavano gli autostoppisti e fin dai primi anni sessanta mi abituai a vederli lì, in piedi o seduti, sotto le pensiline in attesa di un passaggio.
Di notte e di giorno, tanto il distributore era sempre aperto e le luci accese.
Con il sole, con la pioggia, con il vento, con la nebbia e con la neve.
In certi inverni la nebbia era così fitta da non riuscire a vedere, attraverso le vetrate del piccolo ufficio interno, la pensilina più lontana che si trovava a meno di dieci metri di distanza.
In altri, per il freddo, la pelle delle mani si incollava al metallo delle pistole delle pompe.
Ma mai quel flusso di persone, merci, vite, sogni, fatica e speranze sembrò rallentare.
Capii, prima ancora di imparare a leggere, che la vita è un viaggio e che il viaggio, da sempre, ne costituisce la migliore metafora.
Gli eroi di Omero, Stevenson, Conrad e Melville sono separati da Jack Duluoz, Dean Moriarty e Cody soltanto dall’elemento che spinge i loro mezzi: vento, carbone o benzina.
Mio padre stava lì seduto e vedeva passare davanti a sé tutte quelle vite, tutte quelle storie.
E ciò che non vedeva sentiva raccontare.
Di disavventure in Germania, di avventure erotiche ovunque, di incidenti e accidenti tra Torino e tutte quelle parti di mondo che fossero raggiungibili percorrendo piste di asfalto.
Per me significavano anche cioccolato svizzero, formaggini danesi e yogurt olandese.
Perché, al ritorno da ogni viaggio, gli autisti portavano con sé merci per quel tempo esotiche, da vendere o regalare ai gestori del distributore.
Tutto aveva un po’ il sapore del proibito, specie quelle sigarette americane senza filtro per cui papà andava matto.
Alla faccia dei controlli doganali di allora e della mondializzazione di adesso.
Era l’Italia del boom economico
Era l’Italia del boom economico.
Sfruttamento, sudore, fatica, repressione, speranze, contrabbando, lotte e juke-box.
Un benessere, agognato da molti e non sempre raggiunto,che era un misto di cultura contadina, rabbia metropolitana e mito americano.
Non è stato il peggio di ciò che la seconda metà del Novecento ci ha regalato.
Quell’Italia spinse ragazzi come me, che qualche anno prima sarebbero stati indirizzati senza scampo alle scuole di avviamento professionale, a iscriversi al liceo scientifico.
Cazzo, che passo avanti! Grazie alla scuola media unica, un esercito di giovani di borgata invase le scuole alte.
Ma queste ci rifiutarono in tutti i modi.
L’iscrizione al Galileo Ferraris, allora e ancora oggi prestigioso liceo della borghesia torinese, per un giovane della Barriera di Milano non era assolutamente prevista, per cui iniziai una vera e propria odissea attraverso nuove strutture scolastiche destinate ad accogliere i futuri acculturati delle classi medio – basse.
I, II, III, IV e V Liceo Scientifico.
Non era solo l’ordine con cui erano stati improvvisati per far fronte alla crescita delle richieste di iscrizione, costituiva anche una specie di gerarchia degradante da quello più vicino al Galfer, in zona Crocetta, a quello più prossimo a quartieri meno snob.
Dopo essere transitato nei primi due anni per il terzo, finalmente, a partire dalla terza classe, fui affidato alle cure del quinto.
Peccato che nel frattempo il ’68 fosse già esploso e che i ragazzi della mia classe fossero già passati attraverso l’esperienza di corso Traiano nell’estate del ’69.
Così, tra manganellate, lacrimogeni e manifestazioni inesauribili, la benzina cominciò a odorare diversamente, anzi a profumare.
Di rivolta e di rivoluzione.
Da Torino a Detroit, da Berlino a Tokio, da Parigi ad Atene le rivolte puzzavano e puzzano di benzina.
Signori per bene: tappatevi il naso.
Poi venne la crisi petrolifera
Poi venne la crisi petrolifera.
Nell’inverno tra il 1973 e il 1974 gli italiani si abituarono alle domeniche dalle targhe alterne.
Calarono i consumi, il vinile diventò più leggero ed elastico, aumentarono i prezzi dei carburanti e dei dischi.
Chi poteva si rifugiava fuori città il sabato sera per rientrare poi la domenica sera, dopo mezzanotte.
Il modello economico basato sull’imprescindibile binomio auto-petrolio sembrava destinato a entrare in clandestinità.
E quei sabati e domeniche passati spesso in qualche baita sperduta, diventarono per alcuni anticipazione di clandestinità future.
Comunque, in attesa di rovesciare il mondo, noi si giocava a Risiko.
Quella prima crisi, comunque, si portò via un bel po’ di sogni di sviluppo infinito e fu all’inizio del primo catastrofismo capitalistico.
Improvvisamente sembrò che il capitale e la società industriale scoprissero i propri limiti.
I limiti dello sviluppo si intitolò proprio un primo rapporto ufficiale pubblicato in quegli anni.
Ma le sette sorelle non videro diminuire i propri profitti, anzi.
Piuttosto furono i lavoratori a veder uscire dalle proprie tasche ciò che era appena entrato con le lotte.
Ovaldo morì proprio nel 1973, a quarantatre anni.
Anni dopo molti benzinai ammalati, come lui, di tumore intentarono causa alle società petrolifere per le sostanze cancerogene contenute nei carburanti.
Non so che fine abbiano fatto quelle cause.
Ma per molti le piccole fortune basate sul commercio finirono lì.
Mio padre rimase solo sullo spiazzo del distributore.
Quella magia e quell’amicizia erano finite.
Forse cominciò lì a morire, perché il primo infarto lo colse sul lavoro. E il secondo anche.
Nel 1976, con il governo Moro, ci fu un altro forte aumento del prezzo della benzina.
Ci si aspettava rivolte e proteste: non avvenne nulla di tutto ciò.
A ripensarci ora c’è da dire che forse i due sogni cominciarono a svanire insieme: quello dello sviluppo infinito e quello delle rivoluzione proletaria.
E, forse, l’uno aveva generato l’altro.
A noi rimasero comunque il rock’n’roll, i viaggi on the road, il sogno della rivolta e la spavalderia da giovani imbroglioni.
Forse non ho mai voluto o chiesto, davvero, di più.
FINE DEL SECONDO “CANTO”
NOTE:
1) “Chi non ha cento milioni, al giorno d’oggi, è un asino”.
(8-CONTINUA)