di Ade Zeno
Pubblichiamo una poesia per Stefano Cucchi di Ade Zeno, che ha esordito con l’ottimo romanzo Argomenti per l’inferno, edito da No Reply.
M’hanno tenuto le mani:
ferme bloccate immanettate
mentre aspettavo domani
le mani le loro ferite infami
gli uncini cerchiati di ruggine invisibile
pungeva la ruggine stringeva la pelle in polvere
le vene essiccate dalla paura di starmene.
Scalciavano fredde in punti precisi
sulla superficie del niente
mescolate all’odore sporco delle stanze, del muro
spiavo il disco tondo la sua assenza d’orario sicuro
nei corridoi lenti, le lancette al contrario
lampioni bianchi, appesi
sul soffitto zampe, occhi di ragni accesi
poi spenti.
I pavimenti, macchiati di giallo,
e dal di sotto spingeva il vento
un soffio stupido, caldo
(il vento delle stanze biascica a mollo
schianta le pareti frantuma un cimitero di crepe, sordo).
E’ brutto questo giallo senza vetro, non ci stanno finestre,
solo un sediame incompleto
e tavoli verdi panchinelettucci che spuntano dietro
oltre i muri le porte derubate, senza ante, fantasme,
anche loro ferme, vuote
erose piano piano dalla furia delle tarme.
Che gusti osceni avranno queste tarme,
quanto orrendo deve essere stato il sapore delle porte fantasme.
È la fame, la chimica del sedarsi inabissando:
divorare ogni cosa, ogni tipo di legno,
ogni piega di sguardo.
Ma siete state brutte, come me, porte:
le tarme con calma vi hanno condotte a morte.
È stata la vostra unica opera di bene: insieme, porte,
avete alimentato le loro labbra corte
blatte insette che si muovono di notte
come noi, io e le mie gambe cotte:
bestemmiavamo pregando alfabeti morse,
le loro dentature malferme
lacrimando livide e insorte.
“Non c’è posto non c’è,
non c’è più posto per me per te, qui,
il nostro posto — sì — sarà altrove: lì!”
Correvamo, io e le mie gambe di viaggio,
in questo macello insettico, umido, giallo,
ci tenevamo le mani
— m’hanno tenuto le mani —
“Cheffai piangi, ti torci?”
Nella pancia rigida di una stazionecaserma
questa moviola di corpi sbagliati, porci:
“Avanti piano, imputato, andiamo,
i tuoi capelli i tuoi nasi i tuoi occhi storti adesso,
adesso sono nostri, nient’altro che morti.
Non c’è un mondo là fuori che voglia amarti,
il gusto cannibale dell’amore non compete a te,
ma ai ragni.”
(Gli uncini cerchiati di fuliggine invisibile mi pungono i polsi).
“Checcifai così magro in questa tana d’orsi?
Non lo sai, scemo, che coi tuoi ossi costruiranno un treno?”
Per portarvi per portarci
— su questo treno, su questo vagonaio oscuro —
negli anfratti più dolci più dolci,
spinti a calci su binari torti ritorti, caldi sbilenchi
no non si sa dove vanno a finire
è tutto un inarrivabile arrivare
un fluire di corpi di colpi (il tuo, i nostri)
ci faremo un treno coi tuoi ossi,
col tuo teschio maschio giocheranno i nostri figli nel nevischio
a natale dicembre i regali la neve,
tu sarai morto in quelle ore,
già contorto nel tuo corpo che non può più sentire,
sarai un grido senza ascolto questo natale,
le tue sorelle le tue madri mangeranno da sole.
M’hanno tenuto le mani,
i corpi i colpi in questo puzzo d’ospedale,
ecco che arriva
un nuovo colore:
è dolore, questo, la spinta buia della fame.
“Vuoi mangiare? Mangia,
mangia è il tuo ultimo pasto prima del salto finale…”
“Ha dei segni dottore,
sulla fronte sulla pancia…”
“Non è niente, non importa,
il buio vero arriverà domani”
Merda, mi sono spuntate le ali.