Le relazioni tra la Colombia e il Venezuela stanno vivendo nelle ultime settimane momenti di forte tensione con la chiusura delle frontiere, le accuse reciproche di spionaggio, l’apparizione di morti e una specie di guerra fredda che rischia di trasformarsi in guerra calda. Infatti il presidente venezuelano Hugo Chavez ha spinto militari e civili a “prepararsi per una guerra” con la vicina Colombia e ha inviato 15-20mila soldati a proteggere la frontiera mentre il presidente colombiano Alvaro Uribe da Bogotà annuncia il ricorso alla OSA, l’Organizzazione degli Stati Americani, e al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Venti di guerra?
Dopo una serie di incidenti in cui due membri della Guardia Nazionale venezuelana sono stati assassinati da gruppi di paramilitari colombiani e dieci colombiani sono stati sequestrati e uccisi in Venezuela l’ottobre scorso nei pressi della frontiera di Cucuta, i due paesi si sono rivolti accuse reciproche di spionaggio e di violazioni della sovranità. Sembra che i responsabili del massacro dei dieci colombiani appartengano all’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale, la seconda guerriglia della Colombia) anche se altre fonti parlano di una mattanza causata da gruppi paramilitari.
La polizia venezuelana ha arrestato alcuni agenti del DAS (Departamento Administrativo de Seguridad) colombiano sospettati di spionaggio. Questi incidenti avvengono nel contesto di una “frontiera difficile” di 2.219 chilometri per metà occupati da una foresta tropicale e in cui operano circa 650 uomini delle guerriglie colombiane, tre bande di paramilitari che mantengono attivi oltre 100 accessi per il commercio di droga, circa 1500 contrabbandieri di benzina e alcuni gruppi di delinquenti comuni e narcotrafficanti. Una complicazione ulteriore è che già dall’estate il Venezuela aveva manifestato la sua opposizione all’accordo militare tra gli USA e la Colombia che viene considerato una vera e propria burla verso tutti i paesi del Sudamerica e i sistemi d’integrazione latino americani.
La popolazione della zona di frontiera, dotata di un certo pragmatismo e calata nella vita quotidiana fatta di lavoro, commercio, relazioni familiari e sociali a livello locale, sembra più disposta a evitare conflitti e a mantenere il proprio stile di vita che ha creato una connessione culturale ed economica peculiare in un territorio inteso come patrimonio comune dei due paesi.
Gli analisti non vedono ancora l’imminenza di una guerra quanto piuttosto una escalation nei toni e nelle ritorsioni commerciali e diplomatiche prese dai due paesi a causa dell’ennesimo incidente di frontiera in cui il conflitto interno colombiano sconfina nel territorio vicino. Simili tensioni interessano con frequenza la frontiera sud tra l’Ecuador, governato dall’alleato di Chavez Rafael Correa, e la Colombia, provocando crisi diplomatiche endemiche e pregiudicando l’economia colombiana che invia a questi due paesi il 22% delle sue esportazioni.
Invece s’identifica l’inasprimento delle relazioni bilaterali e dei toni da guerrafondai dei due mandatari con l’erosione relativa del consenso interno dei due presidenti che dovranno affrontare l’anno prossimo il test delle elezioni politiche in una situazione di razionamento energetico e crisi economica eccezionale in cui è gioco forza spostare l’asse della discussione verso nemici e minacce esterne che in qualche modo unificano l’opinione pubblica nazionale. Inoltre Uribe è anche in attesa di una risoluzione della Corte Suprema che gli permetta di aspirare a governare il paese per la terza volta consecutiva in caso di rielezione, possibilità che è attualmente vietata dalla Costituzione colombiana.
D’altro canto Chavez potrebbe desiderare il raffreddamento delle relazioni commerciali con la Colombia data la forte asimmetria che le caratterizza: il 2008 è stato un anno record per il commercio bilaterale ma il Venezuela presenta un deficit commerciale con la Colombia di circa 5700 milioni di dollari, conto da pagarsi anche tramite l’esportazione di gas e petrolio attualmente deprezzati sui mercati internazionali. A Caracas il parlamento ha ratificato il suo sostengo alla posizione del governo contro l’accordo di cooperazione militare USA-Colombia anche se dall’opposizione si sono levate voci critiche contro il discorso di Chavez sulla “sovranità nazionale” che viene difesa a oltranza con minacce di guerra se si tratta degli Stati Uniti o della Colombia mentre viene rinegoziata e allentata quando riguarda paesi come la Russia o Cuba.
Uguali e diversi
Non è la prima volta che assistiamo ai litigi e alle grandi manovre tra queste due nazioni andine (ma anche caraibiche), anzi, negli ultimi anni sono volate minacce, screzi diplomatici, ritorsioni commerciali e accuse tra i due “uomini forti” e ideologicamente lontani che le governano: Hugo Chavez, promotore del socialismo del secolo XXI d’ispirazione “bolivariana”, favorevole all’unità latino americana e allo statalismo, difensore del nazionalismo e dell’antimperialismo; e Alvaro Uribe, fedele alleato di Washington, sostenitore del libero mercato e degli investimenti stranieri tout court, indirettamente coinvolto in scandali di corruzione e para-politica (legame tra politici e gruppi di paramilitari), noto per la politica di “mano dura” contro guerriglie e narcotraffico.
In realtà i due presidenti hanno anche numerosi aspetti in comune come la forte presenza mediatica, carismatica e comunicativa nella loro relazione con le masse popolari e i mezzi di comunicazione, sono molto vicini alle rispettive forze armate nazionali e spesso ricevono critiche per i loro eccessi di autoritarismo nonostante si dichiarino profondamente democratici.
Inoltre sono noti per le loro capacità oratorie e per l’aurea di populismo che circonderebbe il loro operato e la loro retorica. Sembra anche che entrambi amino il potere e vogliano restare indefinitamente in carica grazie a modifiche costituzionali che permettono due o più rielezioni del capo di Stato, il che lascia intravedere un’alta autostima e un’idea di imprescindibilità e necessità presente nei due personaggi.
Storiche tensioni
Una piccola rassegna storica delle relazioni tra Colombia e Venezuela può aiutare a chiarire la portata della crisi attuale che sembra stia lentamente rientrando con le ultime dichiarazioni di Chavez che dice di non aver voluto istigare alla guerra ma solo “alla difesa del paese da un eventuale attacco”.
Nel maggio 2004 Chavez denuncia un complotto ordito da gruppi di colombiani e statunitensi e informa della cattura di oltre 50 presunti mercenari colombiani nelle montagne a sud di Caracas. Dopo le denunce del presidente venezuelano e la rottura diplomatica conseguente, i toni s’ammorbidiscono e il Venezuela nega il coinvolgimento del governo colombiano in quegli incidenti.
Nel settembre dello stesso anno appaiono 6 o più cadaveri in seguito a un “incidente” causato da un attacco di un gruppo irregolare colombiano alla frontiera tra i due paesi. Ad oggi non si conoscono gli autori dei delitti ma vengono attribuiti tanto alla guerriglia come ai paramilitari colombiani che trasferiscono la loro guerra interna in territorio venezuelano e causano le veementi reazioni di Chavez che sottolinea come la guerriglia colombiana “non sia una nemica ma che lo diventa nel momento in cui persevera coi suoi sconfinamenti in Venezuela”. Di nuovo due mesi dopo al vertice di Cartagena Chavez ricuce le relazioni con Uribe sostenendo che non aiuterà mai la guerriglia.
Nel gennaio 2005 Hugo Chavez richiama l’ambasciatore colombiano e sospende temporaneamente i rapporti commerciali con la Colombia in seguito alla cattura del guerrigliero Rodrigo Granda in territorio venezuelano, atto considerato come violazione della sovranità. La Colombia nega e ribadisce il suo diritto a liberarsi del “terrorismo” accusando il Venezuela di proteggere i guerriglieri. La crisi rientra dopo poche settimane, una volta superato il fuoco retorico appiccato dai due presidenti che in una riunione a Caracas dichiarano la loro “fratellanza e stima reciproca”.
Nel novembre 2007, dopo il fallimento della negoziazione del presidente venezuelano che aveva cercato di ottenere un accordo umanitario con le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) ed era stato poi estromesso dal suo omologo colombiano, Chavez descrive come “congelate” le relazioni bilaterali e come “menzognero” Alvaro Uribe che a sua volta lo accusa di voler “incendiare tutta l’America Latina” ed espandere la sua influenza nella regione.
Nel marzo del 2008 la morte del comandante guerrigliero Raul Reyes, il numero due delle FARC, durante un attacco illegale realizzato dalla forza aerea colombiana in territorio ecuadoriano provoca la reazione di Chavez che rompe le relazioni diplomatiche, chiude le frontiere nel mezzo di un’aspra polemica che sfocia nell’invio di truppe colombiane e venezuelane sui rispettivi confini.
Stranamente il Messico del presidente Felipe Calderon, vicino a Uribe politicamente, non adotta una posizione forte e decisa contro la Colombia riguardo al bombardamento in Ecuador, nonostante nell’operazione siano morti anche 4 studenti messicani della Universidad Nacional Autonoma de Mexico che si trovavano nell’accampamento delle FARC.
Hugo Chavez definisce Uribe questa volta come un “criminale, paramilitare, narcotrafficante e servo dell’impero” e rende omaggio a Reyes con un minuto di silenzio. Uribe reagisce con la minaccia di denunciare Chavez dinnanzi alla Corte Penale Internazionale per “patrocinio e finanziamento di genocidi”. Dopo il vertice del Gruppo di Rio a Santo Domingo scoppiano ancora la pace e le dimostrazioni d’affetto tra i due, vengono ritirate le truppe dalla frontiera e si ristabiliscono le relazioni diplomatiche. Uribe ritira quindi le sue minacce di denuncia formale a livello internazionale e Chavez chiede a Uribe di rinunciare alla “dottrina Bush” che prevede la lotta al terrorismo in qualunque luogo si trovi “per non far cadere nel baratro l’America Latina”.
Nel luglio 2008 Uribe ottiene una vittoria morale importante con l’operazione militare che porta alla liberazione della famosa ex candidata presidenziale di nazionalità franco-colombiana Ingrid Betancourt rapita sei anni prima dalle FARC.Nel marzo 2009 Chavez definisce il ministro della difesa colombiano, Juan Manuel Santos, come “il pupillo della destra americana”, “una minaccia per il continente” e rappresentante “della corrente più fascista dell’oligarchia USA” in seguito alle dichiarazioni di quest’ultimo sugli atti di persecuzione dei “terroristi” fuori dal territorio nazionale da lui interpretati come “legittima difesa accettata dal diritto internazionale”. Anche in questo caso il conflitto viene risolto con una serie di incontri bilaterali e la stipula di accordi economici e lo scambio di battute scherzose.
Nel maggio 2009 Chavez dichiara che si terrà lontano dal conflitto colombiano dato che si tratta “della loro guerra” ma poi nel luglio 2009 durante le negoziazioni dell’accordo militare tra la Colombia e gli Stati Uniti, che prevede l’arrivo di soldati USA per operare in 7 basi militari colombiane, la tensione cresce di nuovo e Chavez sostiene che si dovranno rivedere le relazioni con la Colombia in caso di firma degli accordi. In risposta Uribe chiede maggiore cooperazione e l’interruzione della vendita di armi ai terroristi, pratica di cui accusa direttamente il Venezuela.
Chavez sostiene che gli USA vogliono trasformare la Colombia in uno stato simile a Israele in America Latina e annuncia l’acquisto di carri armati e navi da guerra per arrivare a duplicare la sua flotta e rafforzare la presenza militare sulle frontiere.
Il 27 luglio la Svezia chiede spiegazioni al governo venezuelano per verificare che le armi da questa vendute a Caracas non siano state trasferite alle FARC. Il Venezuela ritira il proprio personale diplomatico dalla Colombia e Chavez denuncia una campagna internazionale “sporca e volgare” per giustificare la presenza militare americana nel paese vicino, stabilendo un parallelo con la questione delle armi di distruzione di massa in Iraq.
Uribe sta denunciando in questi giorni le restrizioni commerciali all’importazione di prodotti made in Colombia da parte del Venezuela anche dinnanzi alla Organizzazione Mondiale del Commercio e ha chiamato queste misure con il termine evocativo di “embargo”, paragonandolo esageratamente a quello degli USA contro Cuba. Il Venezuela ha arrestato una presunta paramilitare colombiana il 21 novembre scorso e il Venezuela ha denunciato una ventina di criminali colombiani presenti sul suo territorio negli ultimi 4 mesi. Il primo dicembre è stata formalizzata l’espulsione dal Venezuela di 450 minatori colombiani e brasiliani accusati di sfruttamento illecito di giacimenti auriferi nella selva venezuelana. Dopo le stragi di ottobre a 400km dalla frontiera di Cucuta e le relative battaglie verbali bilaterali ci si chiede se i venti di guerra tra Venezuela e Colombia siano solo carichi di retorica o se arrivino fino alla rottura definitiva. Malgrado i pur legittimi allarmismi, pragmatismo e buon senso indicherebbero che il vento potrebbe affievolirsi di nuovo sfumando in una brezza carica di tarallucci e vino che riempiano le tasche dei consensi elettorali dei due presidenti. Vedremo. per ora la crisi non sembra ancora rientrare e il presidente della Repubblica Dominicana Leonel Fernandez s’è offerto come mediatore del conflitto.
Un Commento Finale Con Le Lettere Iniziali Maiuscole
Trattando in termini teorici il caso di questi due presidenti e anche di molti altri personaggi del mondo e dell’America Latina, i quali si trasformano spesso in bandiere di una o più ideologie gemelle e simultaneamente in nemici di quelle opposte, credo sia profondamente sbagliato parlare di fascismo, nazionalsocialismo, comunismo e di etichette storicamente determinate e circoscritte per descrivere i regimi di Uribe e di Chavez in Sudamerica, così come trovo approssimativo parlare nettamente di destra e sinistra tout court per avere sempre in mano una falsa bussola e così orientarsi in cinque minuti quando si conosce per la prima volta un paese o una realtà politica. Inoltre bisogna ammettere che il tema “Chavez e il Venezuela”, così come il tema “Fidel o il Che e Cuba”, insieme a pochi altri, suscitano fin troppi dibattiti accesi e prolissi spingendo alla radicalizzazione delle posizioni che spesso restano parziali, intransigenti e accecate da troppe lenti esposte al sole tropicale.
Certamente alcune categorie servono per comunicare concetti, per abbreviare tempi e per costruire riferimenti comuni tra i dialoganti ma il loro uso deve essere oculato e calato nella dinamica sociale, culturale e storica della comunità umana cui ci riferiamo.
Mi pare che questo sia un dilemma difficile da risolvere in un post o in un articolo dato che la logica della notizia e della contemporaneità ci impone di essere diretti e immediati senza troppi “giri di parole” ed eccessi di contestualizzazione. Fatta questa premessa intendo che termini come conservatore, progressista, liberale, liberista, democratico, statalista, centrista, fascista, comunista, eccetera stanno spesso su piani diversi e vengono confusi e adulterati frequentemente da volontà deliberate ed esigenze distorte del mezzo e del comunicatore.
Per quanto riguarda l’America Latina i concetti di destra e sinistra e tutti quelli della lista citata pocanzi vengono ad assumere altri significati storici e politici che sono difficili da contestualizzare e spiegare in poche righe e che provocano probabilmente un buon 80% dei dibattiti tra giornalisti, blogger e latino americanisti in generale.
Autorità e autoritarismo sono concetti applicabili a qualunque forma di potere e dominazione dai nuclei sociali più piccoli come la coppia e la famiglia alle istituzioni pubbliche e private e sicuramente anche agli Stati che per definizione mantengono il monopolio dell’uso della forza. Quindi non credo che una Repubblica Bolivariana o Socialista, una basata sulla “sicurezza nazionale” o “fondata sul lavoro” sia priva di autoritarismo e uso della forza come dimostrato tanto da Chavez come da Uribe o Calderon in Messico o Evo Morales in Bolivia e Berlusconi in Italia, insomma gli esempi sono infiniti. La questione da risolvere è che limiti riusciamo a stabilire come società civile e politica in democrazia all’esercizio e al controllo della forza, come rispettiamo e facciamo rispettare le leggi e i diritti umani, come funzionano l’informazione, le istituzioni e il principio della trasparenza in qualità di garanti eccetera. Dovremmo valutare come si sviluppano questi processi nei due paesi di cui sopra (e perché no anche nel nostro) e probabilmente a quel punto non prenderei posizione per nessuno dei due. Quando il sovrano o il potere cominciano ad eliminare i vincoli all’esercizio delle funzioni che il popolo gli delega e a rompere i lucchetti che la società gli aveva imposto o meglio aveva accordato con esso, ecco io mi preoccupo. Anzi a volte mi preoccupo della presenza stessa del “sovrano” e mi chiedo se sia un male necessario quando invece dovrebbe essere scontato. Ma questo è un salto in avanti.
Ad ogni modo direi che la mia posizione è quella di capire, analizzare e valutare in base a delle coordinate politiche e storiche flessibili cosa sta succedendo in queste realtà, successo dopo successo e fallimento dopo fallimento con una bussola che si disfa e si ricostruisce di volta in volta ma che mantiene un orientamento generale chiaro.