Linguaggi, tempi e narrazioni in Niccolò Machiavelli
di Girolamo De Michele
Testo dell’intervento letto al Convegno di Studi “Machiavelli: tempo e conflitto”, Università di Bologna, 16-17 novembre 2009
In questo intervento prenderò spunto da alcuni aspetti della lingua di Machiavelli, e collegherò questa lingua in variazione alla presenza di una pluralità di tempi nel testo machiavelliano. Sosterrò che questa pluralità dei tempi è coerente con la riflessione fenomenologica sul tempo ed esclude la necessità di postulare un tempo provvidenziale o divino. Esaminerò un caso di tempo narrato, con riferimento alla figura di Lorenzo de’ Medici, per proporre un modello educativo machiavelliano in esplicita polemica con gli ideologi della rifascistizzazione dell’istruzione in corso in Italia. Accennerò poi al tema del conflitto e al pessimismo machiavelliano, e concluderò sull’importanza dell’aver mantenuta l’attenzione critica su Machiavelli e Spinoza negli anni Ottanta e Novanta.
Scrive Machiavelli, nella lettera a Francesco Vettori che annuncia la composizione di «uno opuscolo De principatibus»:
«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».
Questa lettera ci mostra la giornata di un intelletto all’opera. Colpisce, in questa narrazione, l’entrare e uscire da boschi, compagnie, luoghi. Il Segretario che indossa a sera l’abito curiale — un’immagine sulla quale ritornerò in conclusione — ha goduto dei poeti classici, ha discusso «delle nuove de’ paesi» coi frequentatori d’una hosteria, sempre con la curiosità e l’attenzione d’intendere «varii gusti e diverse fantasie d’huomini»: e, come sappiamo, «non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso». Con la sua brigata ha poveramente desinato, da uomo che, nato povero, ha imparato «prima a stentare che a godere» (18 marzo 1513). S’è ingaglioffito giocando a cricca assieme a «un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai». E, «rinvolto in tra questi pidocchi», ha tratto «el cervello di muffa».
La prima annotazione che vorrei fare è sulle variazioni del registro lessicale machiavelliano: un registro regolato sul linguaggio della scienza storica, che accoglie toni e vocaboli della Biblioteca colta. Ma che si apre al toscano volgare quando l’argomento tende al basso. Il toscano di Machiavelli ha questa capacità di mettersi in vibrazione, orientandosi sul lettore implicito, ma soprattutto sull’oggetto del discorso: basti pensare, come esempio di registro basso, ossia “volgare”, a questo incipit della lettera a Luigi Guicciardini (8 dicembre 1509) che narra una boccaccesca avventura: «Affogaggine, Luigi: et guarda quanto la fortuna in una medesima faccenda dà ad li huomini diversi fini. Voi, fottuto che voi haveste colei, vi è venuta voglia di fotterla et ne volete un’altra presa». E notate la lingua del Principe che s’inserisce, per nominare la fortuna, – guarda quanto la fortuna in una medesima faccenda dà ad li huomini diversi fini – in questo vernacolo postribolare.
La lingua di Machiavelli, insomma, oscilla sempre tra un dire e un detto: è, per dirla col Pasolini dell’Empirismo eretico (e con Deleuze-Guattari) «una lingua X, che non è altro che la lingua A nell’atto di diventare realmente una lingua B». Una lingua in evoluzione: «cioè la nostra stessa lingua». Dante, e non Petrarca, insomma: in coerenza con la decisione machiavellica tra il modello repubblicano fiorentino e quello principesco milanese. Ma, più che all’alternativa monolinguismo/plurilinguismo di Contini, faccio riferimento alla contrapposizione tra indirizzo omolinguale ed eterolinguale di Naoki Sakai: al ruolo delle forme delle relazioni sociali che «permeano l’attività linguistica complessivamente intesa». Nell’homolingual address, il soggetto dell’enunciazione presuppone e assume la stabilità e l’omogeneità tanto della propria lingua quanto di quella di chi lo ascolta, postulando l’appartenenza di chi dice e di chi ascolta ad una medesima comunità linguistica: viene così a costituirsi una comunità omogenea nello spazio e nel tempo. Le costruzioni dei concetti di “modernità” e di “Occidente” sono generate da questo tipo di narrazione. In Machiavelli, al contrario, abbiamo una lingua in variazione, che assume come mutevole non solo il destinatario — che viene presupposto di volta in volta come oscillare tra il complice d’avventure e il membro della comunità intellettuale — ma il linguaggio stesso, che varia col variare degli oggetti d’enunciazione: ecco quindi il toscano volgare, poi la lingua colta dietro la quale senti il latino degli storici e dei classici, e le molte sfumature che tessono tra questi due poli l’ordito del discorso. «Chi vedesse le nostre lettere – scrive Machiavelli a Vettori dopo essersi cimentato nel sonetto amoroso – et vedesse la diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti volti a cose grandi […]. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe noi medesimi esser leggieri, incostanti, lascivi, volti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia» (31 gennaio 1515).
La mia ipotesi è che questa variabilità, questo vivere in transizione tra boschi, strade, uffici, hosterie e biblioteche, in uno spazio disomogeneo e striato, sia sottesa da una pluralità dei tempi.
Il pensiero fenomenologico, da Blumenberg a Ricur, ha definito e approfondito un orizzonte problematico che prende le mosse da Agostino. Il filosofo d’Ippona compie una mossa decisiva: separare il tempo del soggetto da un tempo incommensurabile, il tempo di Dio, l’eternità. Solo grazie a questa scissione sono possibili la distensio e la distratio, cioè le variazioni dell’anima che costituiscono la trama del tempo della coscienza. Una coscienza che, come la sentinella del profeta Isaia, si apre all’avvenire. In Agostino non è problematica la relazione tra distensio animi ed eternità, perché è la certezza della fede a costituirne il raccordo. Il problema sorgerà quando le scienze determineranno la durata del tempo del cosmo come smisuratamente lunga, facendo della natura qualcosa di temporalmente inconcepibile, rispetto ai pochi millenni della durata desunta dalla mitologia biblica. Questo tempo oggettivo, smisurato e inconcepibile, non è desumibile né derivabile dal tempo della coscienza. Come raccordare allora il tempo del mondo e il tempo del soggetto? Col tempo della narrazione, risponderà Ricur, richiamandosi non a caso ad Agostino: non è forse all’interno di una narrazione, di un esercizio di memoria, di un tempo narrato che Agostino si domanda cos’è mai il tempo?
Se ora torniamo al Segretario fiorentino, non faticheremo a scorgere la stessa tripartizione fenomenologica. Esiste infatti un primo tempo, il tempo della natura, «del diluvio e della peste» che «spegne la memoria delle cose» (Discorsi, II, 5): la ciclicità e l’ampiezza di questo tempo eccedono la capacità umana di modificarne il corso e l’avvento. E negano ogni finalismo, dunque ogni ipotesi di ragione prudenziale metafisicamente sovraordinata: una ragione che, come dimostra l’esempio del Savonarola, troppo facilmente si presta a mutare mantello e a colorire le proprie bugie per secondare i tempi (lettera a Ricciardo Becchi, 9 marzo 1498). Vorrei aggiungere, a costo di sembrare kantiano, che ciclicità e ampiezza dal punto di vista della percezione umana rendono poco proficuo l’affannarsi a sciogliere l’enigma dell’eternità del mondo.
In secondo luogo, c’è il tempo dell’umano agire: il tempo del tumulto moltitudinario, della passione pubblica e privata, della costruzione e della ricostruzione delle repubbliche. Questo tempo si articola in un’enorme ricchezza di sfumature: lo si potrebbe articolare come tempo della ripetizione, cioè del ricorrere delle costanti naturali e umane (i cicli e il carattere), e tempo della differenza, nel quale la ripetizione viene rotta dall’agire, dal tumulto, o dalla fortuna.
E c’è un terzo tempo, il tempo della scienza e dell’intendere, tempo della progettualità politica e — come vedremo — dell’educazione. E questo tempo, che raccorda l’esperienza del passato all’agire progettante, è un tempo narrato: il tempo della Prima deca di Livio, delle Historie fiorentine, della lettera a un’ignota gentildonna sul ristabilimento dei Medici (16 settembre 1512). La narrazione storica è un passato che si attualizza e apre all’avvenire. Un tempo che apre, ma al quale l’impossibilità di «ordinare una repubblica perpetua» (Discorsi, III, 17) nega una conclusione. È un tempo che, volendo giocare con la dialettica, non ha la propria fine nel proprio fine: come la lingua che traduce l’esperienza del passato nel problema del presente, l’intendere della scienza attua una traduzione senza fine.
All’interno di questo schema non v’è alcuna necessità di presupporre un tempo provvidenzialistico, eterno o divino: l’incommensurabilità e l’eccedenza del tempo della natura e della fortuna esauriscono questa esigenza. La dimensione temporale che sovrasta l’agire umano non si dà come l’istante infinito e immobile dell’eterno dal quale discenderebbe un ordine provvidenziale, ma come una matassa smisurata, da nessuno ordita, al cui interno sono intrecciati i fili delle temporalità umane, pur all’interno, per dirla con Negri, del «grande vento dell’essere e della distruzione».
Due sono, a questo punto, le questioni che si aprono. La prima è quella che vorrei chiamare “il problema educativo in Machiavelli”, la seconda è quella del perché affannarsi nel tumulto e nella costruzione, se l’orizzonte ontologico appare essere vanità, distruzione, oblio.
Il problema educativo in Machiavelli, dunque. Quello che propongo è un esercizio di metodo machiavelliano: proiettare la sua scienza sulla trama del presente, su un problema di urgente attualità — la ri-fascistizzazione del sistema-istruzione. Sempre che sia ancora possibile criticare il professor Giorgio Israel senza essere tacciati, com’è accaduto a Piergiorgio Odifreddi, di razzismo ed antisemitismo. Certo, v’è un abisso tra le altezze machiavelliche e la pochezza pedagogica e cognitiva di questo venditore di apocalissi pedagogiche, eminenza grigia del ministro Gelmini — ma del resto ogni epoca ha i Romanov e i Rasputin che si merita.
Sostiene Israel — e con lui sostiene Gelmini – che vivremmo un’emergenza educativa, alla cui origine sarebbe la cosiddetta “pedagogia progressista”: un calderone nel quale sono confusi Dewey e Morin, Rousseau e don Milani, Piaget e Zapatero. A questa pedagogia viene opposto un unico modello, una sorta di Ercole del pensiero pedagogico: la “educazione secondo testimonianza” di don Giussani. Sostiene Israel, appoggiandosi a poche, infelici pagine di Hannah Arendt tirate come il chewin gum — Quandoque bonus dormitat Homerus -, che l’educazione non può che essere conservatrice, perché improntata ai modelli del passato. Non mette conto, qui, rilevare l’estrema scorrettezza del richiamo ad una Arendt decontestualizzata e separata da quella riflessione sulla facoltà del giudicare che non può che condurre in direzione non di una “testa ben piena”, ma di una “testa ben fatta”: teoria che Israel, con l’acume che gli è proprio, apparenta a Macarenko e alla pedagogia stalinista. Nondimeno, il problema del conservatorismo pedagogico resta. Ebbene, è proprio Machiavelli a fornirci un modello opposto, laddove riflette sulla figura di Lorenzo de’ Medici [a sinistra] con toni che fanno risuonare il Nietzsche della storia monumentale. L’eccezionalità di Lorenzo emerge nel libro VIII delle Historie fiorentine dapprima implicitamente, nella descrizione dei tumulti in difesa di Lorenzo vittima della congiura de’ Pazzi: «non fu cittadino che, armato o disarmato, non andasse alle case di Lorenzo in quella necessità» (VIII, 9); poi, con un esercizio tucidideo, nel discorso di Lorenzo stesso (VIII, 10); infine, nel ritratto storico del celebre capitolo 36, dove tutte le qualità di Lorenzo sono associate ad una creazione — strade ed edifici per il popolo e il decoro della città, fortezze per la difesa della repubblica, un’accademia per l’istruzione della gioventù e un monastero per la predicazione virtuosa. Ma la grandezza stessa di Lorenzo si mostra come «impossibile congiunzione di due nature diverse», come eccezionalità irripetibile: la natura umana insegna infatti che di norma «un uomo che sia consulto a procedere in uno modo, non si muta mai […]; e conviene di necessità che, quando e’ si mutano i tempi, disformi a quel suo modo, che rovini» (Discorsi, III, 9). Ed è su questa verità fattuale che s’innesta quella verità di ragione che dice che «una repubblica ha maggior vita, ed ha più lungamente buona fortuna, che uno principato». La grandezza proveniente dal passato non è dunque riproposta nell’illusione di creare col mero esempio la ripetizione nel presente: essa entra in relazione con la mediazione politica tra l’impossibilità di stabilizzare il tumulto e rendere perpetuo l’ordine della repubblica (Discorsi, III, 17) e la virtuosità delle repubbliche nate dai tumulti che partoriscono «leggi ed ordini in favore della pubblica libertà» (Discorsi, I, 4). «Il compito di una società illuminata, scriveva B.R. Ambedkar (un allievo indiano di John Dewey), è di non conservare e trasmettere i propri frutti nella loro interezza, ma solo quelli che possono migliorare la società futura».
E questa mediazione è la relazione tra virtù, ordini, educazione, leggi e fortuna in una città che «si può chiamare libera» e in uno Stato che «si può stabile e fermo giudicare; perché, sendo sopra buone leggi e buoni ordini fondato, non ha necessità della virtù d’uno uomo» che «o per morte può venire meno, o per travagli diventare inutile» (Historie, IV, 1). È la repubblica — pur con i suoi contrasti, le sue lacerazioni, i suoi tumulti — ad essere, con i suoi ordini regolati da buone leggi, con il consenso del popolo, con le sue accademie e i suoi studi, l’artefice dell’educazione. La testimonianza della passata grandezza non si pone come principio d’autorità, ma come modello da proporre «in favore di un tempo futuro» (Nietzsche), e solo nella relazione con l’intera società l’esempio (cioè il passato) mette in atto la sua potenzialità educatrice. La repubblica virtuosa è una vera e propria società educante: non perché propone una visione e un modello unico e univoco, ma proprio in ragione della parzialità delle diverse visioni che si agitano al proprio interno è protesa verso un compito senza termine: con buona pace dei consiglieri e degli artefici della ri-fascistizzazione della scuola in corso oggi in Italia.
Rimane, ed è a questo punto compito agevole, la risposta al quesito: perché affannarsi nel tumulto, se tutto è vanità? La risposta l’abbiamo negli stessi luoghi dell’agire pratico che ho via via indicato: la continua rottura della ripetizione, l’alterna immissione di ordine nel caos della fortuna, e di disordine nella ripetizione ciclica, produce il bene comune — se la scienza bene intende e ben ritiene. V’è un’altra risposta, che potremmo dire foucaultiana: il tumulto che sgorga quando il potere insiste sulla nuda vita e si fa intollerabile. Ma senza ricorrere a Foucault, mi piace segnalare un esempio di questa spontaneità insorgente nelle Considerazioni sui fatti d’Italia del 1848 di Carlo Cattaneo, laddove il rivoluzionario lombardo narra come, a fronte di una Giovine Italia che «parlava una lingua ardua alle plebi» e ad un re sabaudo «accosciato sul letamaio del gesuitismo e della polizia», la rivolta contro l’intollerabile oppressione assume il tono, e financo il lessico — e non è un caso! -, d’una cronaca machiavelliana: «allora fremevano contro i capi le fratellanze [poche righe dopo dirà: “moltitudini”]; e li gridavano servili e sleali; e prorompevano a incomposti e tumultuarj disegni».
Piuttosto, vorrei suggerire un ripensamento del pessimismo machiavelliano. Per Machiavelli esistono, è innegabile, delle costanti antropologiche nella condotta dell’uomo; e un orizzonte di rovina e oblio incombe sempre sulle costruzioni umane. Nondimeno, questi dati si configurano come linee temporali, come serie di eventi, all’interno di una pluralità di linee e di sequenze alternative. Il presente è sempre prodotto da cause intellegibili, ed è al tempo stesso custode di linee alternative che solo la prassi umana può dispiegare. È la stessa variabilità della natura a negare l’assolutizzazione del pessimismo: questi è, piuttosto, la registrazione di alcune costanti, di alcune linee di tendenza, all’interno di un orizzonte sempre dinamico. Con un’immagine platonica, il tumulto è espressione di un demiurgo collettivo che continuamente immette forme nella caotica materia.
Anche nel più cupo presente c’è sempre un di più di tempo in cui sperare, o un passato da attualizzare: «pure io sto, con la grazia di Iddio, bene, et mi vengo vivendo come io posso, et così mi ingegnerò di fare, sino a che i cieli non si mostrino più benigni» (a Giovanni Varnacci, 26 giugno 1513).
Ci sarà sempre una brigata con cui godere di un piatto in comune, foss’anche povero. E ci sarà sempre una biblioteca in cui entrare con l’abito curiale.
Ed è proprio su questi panni regali che vorrei richiamare, in conclusione, la vostra attenzione. La dignità di questo studioso che solo per sé veste l’abito migliore non potrebbe staccarsi in modo più netto da quegli anni Ottanta dai quali ancora non siamo usciti. Quei giorni della Merla della coscienza civile, quei dark and stupid times (per dirla con David Foster Wallace) nei quali, come in un romanzo di Brett Eston Ellis, la griffe esibita serviva a nascondere il vuoto di chi, nulla avendo da dire, lo diceva con l’abito firmato. Erano anni in cui andavano per la maggiore i pensieri deboli e le categorie della modernità, del politico e dell’impolitico, la seria apocalisse viennese e gli angeli necessari, gli squisiti teologi all’amatriciana e le mistiche col bollino blu, la nientificazione del niente e la camolatura dell’essere. Non sapendo trovare l’ago, si praticava la fenomenologia del pagliaio, e i libri erano per lo più bibliografie commentate. Una comunità di studiosi traeva allora di muffa il proprio cervello studiando nottetempo le selvagge anomalie della politica, il rovesciamento della servitù della mente nelle passioni gioiose, il potere costituente: e Machiavelli era uno di quegli autori coi quali non avevamo vergogna di parlare, e che per loro humanità rispondevano, e grazie ai quali non sentivamo la noia e sdimenticavamo ogni affanno. Ed oggi che quei serissimi libri del nulla griffato restano invenduti sui muriccioli dei Navigli, in seconda fila dietro i tomi di don Ferrante, in questo luogo dove già ci eravamo ritrovati con Spinoza siamo in dialogo con Machiavelli, come aggrappati al nostro sacco di noci di cocco come Steve McQueen nell’indimenticabile Papillon, e come lui possiamo ben urlare contro il cielo: «Maledetti bastardi… Siamo ancora vivi».