Siete madri milanesi? Precari napoletani? Manager fiorentini? Politici trevigiani? Siete amanti dei reality (qualunque cosa essi siano) e state a Roma, Venezia, Torino, Palermo? Allora non risiedete soltanto in una meravigliosa città di questo grande e Bel Paese: siete tutti stipati ne Gli anni feroci di Riccardo Bocca (Rizzoli, 18.50 euro). Che abbiate dai 20 ai 40 anni o che abbiate vissuto il ’68, siete tutti protagonisti di un romanzo! Questo dovrebbe farvi felici e invece non sarebbe il caso, poiché Gli anni feroci non è soltanto il romanzo del tempo di palta che state vivendo, ma è anche e soprattutto un’autoritratto collettivo in forma di narrazione sorprendente, acuminata come la punta velenosa di certe frecce indiane, di cui si leggeva un tempo (e si continua a leggere) su Tex.
Riccardo Bocca ha scritto, col suo romanzo di esordio, uno degli atti più spietati di autodenuncia su questo Stivale bucato. Non c’è scampo: che si sia amanti del SUV o della Green Economy, che si legga Repubblica oppure il Giornale — tutti, nessuno escluso e tantomeno l’autore, si è davanti al tribunale della letteratura. Lo zoo occidentale che parla italiano sta diventando un tema centrale del romanzo che si crea all’interno di quello zoo. Alcuni nomi: Walter Siti con Troppi paradisi (Einaudi) o Letizia Muratori con Il giorno dell’indipendenza (Adelphi), Giorgio Falco con L’ubicazione del bene (Einaudi) o Leonardo Colombati con Il re (Mondadori), Giulio Mozzi con Sono l’ultimo a scendere (Mondadori) o Giorgio Vasta con Il tempo materiale (minimum fax). Questi scrittori costituiscono parti di un autore collettivo che sta stendendo i Buddenbrock 2.0, italiani, radicati in una storia che coincide con quella del nostro Dopoguerra e culmina nell’Italia Geneticamente Modificata dei nostri anni. Che sono feroci almeno quanto i decenni che li hanno preparati. Riccardo Bocca è la lingua affilata di quell’autore collettivo e il suo libro è un flash che spaventa e sconcerta, poiché formula 10 domande a cui nessuno di voi riuscirà a rispondere.
La storia di Alberto, teledipendente nel senso che non può fare a meno di essere un personaggio della tv, riassume la vicenda intera di una generazione. Figlio degenerato di un padre degenerato (che odia e che ama con un’intensità che chiunque di noi dovrebbe avere l’onestà di ammettere), Alberto è un marito consapevolmente assente per decadimento del rapporto coniugale (un’altra vicenda che imporrebbe onestà collettiva). Suo figlio Robi è un ragazzino che ama e che non capisce, da cui si sente amato ma non capito: un quarantenne che pretende di essere capito da un bambino. La sua esistenza è puro cinismo, sfiga, provincialismo, pena, rampantismo e nostalgia. Ai tempi delle contestazioni politiche, Alberto è stato protagonista di una performance memorabile, ridendo in faccia ad Andreotti davanti a telecamere e fotografi, quando il Divo era venuto ad affrontare gli studenti. Una risata che seppellirà? Per nulla: piuttosto, quella risata trascina Alberto, cooptato da Raffaella Carrà, alla conduzione di un programma in tv. Come ci è arrivato, il protagonista de Gli anni feroci esce dal pubblico servizio televisivo, dopo lo strepitoso successo del suo Supersmile, un programma in cui sembra un Luttazzi che non fa battute ma ride direttamente in faccia agli ospiti. Contratto il virus di questa non particolare teledipendenza, Alberto si ricicla (esattamente come certi rifiuti) nella consulenza in ambito comunicativo. Verrà contattato da un ex compagno di liceo, il Dandi, che con una lista apolitica aspira a conquistare la poltrona di sindaco di una minuscola cittadina. Da quell’elezione partirà uno tsunami per nulla naturale, destinato a mutare il Paese e addirittura il mondo intero. Ma, questo, Riccardo Bocca ce lo lascia intuire. E’ più importante che ci racconti come sia possibile da una frazione, diciamo delle dimensioni di Arcore, arrivare a includere l’idea stessa di futuro per farne un presente azzerato. Questo presente azzerato è l’Italia. Ne Gli anni feroci, insieme a me e a voi sono appaiono infatti determinati personaggi: Ricky Memphis, Renzo Arbore a casa sua che organizza una festa con Frassica e Boncompagni, Francesco Cossiga e Sandro Pertini, Nicole Kindman, i Tokyo Hotel e i Talking Heads, Alessandro Baricco e Andrea Camilleri, Oliviero Toscani e Claudio Lippi, gli uomini della scorta di Aldo Moro e Mark Knopfler. Senza dire degli oggetti e delle location (c’è una scena a Gardaland, il cui nome è storpiato, che vale da sola il prezzo del libro). Questa ridda di presenze fantasmatiche, triturate nel Girmi dei giorni nostri, non è per niente ironica, perché costituisce l’aria stessa che respiriamo. La credibile vicenda di Alberto (che in anni meno feroci sarebbe incredibile) è tale perché disegna una parabola collettiva: quella che tutti noi stiamo percorrendo.
La scrittura di Riccardo Bocca è nervosa e rapidissima nel fulminare i lettori con lampi di sarcasmo o abissali sentenze su cosa sia la nostra inadeguatezza. Un Revolutionary Road tricolore ai tempi di Disney Channel, che fa apparire in controluce gli elementi qualificanti di un crollo generalizzato — l’assenza di salti tra cultura e incultura, l’indistinzione tra politica e assenza della politica, l’indifferenza tra consumo e alternativa al consumo. Soltanto un autentico scrittore può allestire una storia così folgorante e leggibile, che mette a nudo la profondità dei rapporti di ogni giorno e di quelli che segnano la vita. Provate ad affrontare le scene decisive tra Alberto e suo padre o suo figlio — vengono i brividi alla spina dorsale, sono immagini indimenticabili perché universalmente vere perfino nel momento in cui gli anni si fanno tanto feroci. E ciò non vale semplicemente per le relazioni interpersonali. Il romanzo di Riccardo Bocca è soprattutto una messa a fuoco delle responsabilità di decenni che hanno preparato questo presente. Se si intravvedono in controluce le sagome indistinte di Licio Gelli e di quel demone liquido che è il berlusconismo o l’elitarismo di sinistra, coloro che hanno vissuto gli anni Ottanta li scruteranno stagliarsi in tutta la loro consistenza di pura fanghiglia.
Riccardo Bocca scrive con Gli anni feroci un libro che travolge per potenza quelli che aveva pubblicato in precedenza. Questo è un romanzo, i precedenti erano saggi. Ho volutamente omesso di informare che Riccardo Bocca è tra i migliori giornalisti italiani. Attualmente responsabile dell’attualità per L’Espresso, ha pubblicato il testo più importante e completo sulla strage di Bologna (Tutta un’altra strage, edito da BUR) e a lui si devono inchieste fondamentali, come quella sulle cosiddette “navi dei veleni” che stanno riemergendo in queste settimane con il loro carico radioattivo di collusioni violente (e questa indagine non è che non abbia lasciato traccia nel romanzo: anzi, direi che è il buco nero del libro, l’occhio del tifone Bocca). Oggi si capisce perché questo giornalista è tanto bravo: in realtà è un romanziere.
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