di Dziga Cacace
118 – Crimini invisibili del pagliaccio Wim Wenders, Francia/Germania/USA 1997
Crimini invisibili è un’opera sconcertante, così brutta da lasciare basiti. È un po’ che il maestro teutonico rilascia interviste in cui si scaglia contro la presenza della violenza nel cinema. Giù mazzate su Scorsese (“Sono uscito dopo dieci minuti di Casinò”: cazzi tuoi), Tarantino, Stone e tutto l’ action americano. E vabbeh. Ma il Maestro deve farcelo sapere mettendolo anche in immagini. Tra citazioni e autocitazioni, rimandi a Hopper e all’hard boiled, Wim racconta una vicenda complicata — che, non affannatevi, non si risolverà neppure — il cui succo è esplicitato in qualche tirata retorica sulla violenza e sulla nostra abitudine a digerirla. Pensiero di una profondità degna di un australopiteco. E ovviamente tutto ciò è mediato dalle ennesime considerazioni sulla visione, sul potere della visione, sull’ossessione della visione etc., così semiologi, architetti e critici parolai potranno masturbarsi anche questa volta, non sia mai.
Giusto due cenni alla trama per non sembrare criptico come questo regista ormai comico: Bill Pullman è un produttore cinematografico che ha fatto carriera con film improbabili come Omicidi creativi (qui bisognerebbe ridere); viene rapito da due killer da barzelletta ma, quando sta per essere giustiziato, qualcuno li secca, non si sa né come, né perché, e lui deve scappare. Parallelamente c’è uno studioso, Gabriel Byrne, che controlla tutti gli USA per conto del governo con una sofisticata rete di videocamere. Praticamente un angelo custode (arridaje!). Quando il sistema sarà perfezionato la violenza scomparirà perché nulla potrà sfuggire a questo grande fratello. Vabbeh, metafore su metafore, il valore positivo della visione, etc. Pullman fugge e trova accoglienza in una famiglia di chicanos buoni, generosi e lavoratori (e la sveglia al collo non gliela mettiamo?). Byrne, consultando le registrazioni degli occhi elettronici di tutto il mondo, capisce che Pullman non ha ucciso i suoi due rapitori: vuole riferirlo all’investigatore che deve ritrovarlo ma, non si sa da dove né come, PEM!, un altro colpo e rimane bello stecchito anche lui. Non sapremo chi voleva rapire il personaggio principale, né chi lo ha difeso, né chi ha ucciso Byrne: boh. Mi si chiudeva pure l’occhio, per cui datemi retta fino a un certo punto. È Wenders un violento! Ma chi è che parla tra sé dicendo immani cazzate come i suoi personaggi? Ci troviamo in mezzo a un Piccoli omicidi che si prende bestialmente sul serio e che si conclude con il personaggio principale che, guardando l’oceano, non ha più il terrore che gli incutevano i violenti film dell’infanzia, in cui i cinesi erano i cattivi; oggi si sente in grado di vederli, augurandosi che loro vedano lui. Non sto inventando nulla: micidiale. Ultime note per un film completamente sballato: in omaggio abbiamo anche il protagonista principale, Pullman, che non è un automezzo, ma recita tale e quale. Di contorno c’è il povero Samuel Fuller, costretto a reggere discorsi con il perplesso Gabriel Byrne, discorsi irriferibili per demenziale afflato poetico. Film disastroso, neanche simpatico nella sua insopportabile imbecille presunzione. (Vhs originale; 19/10/98)
119 – The Truman Show di Peter Weir, USA 1998
L’evento cinematografico dell’anno raccoglie consensi tra critica e pubblico, direi per una capacità obliqua di fornire diversi spunti di commento da un lato e perché ben orchestrato entertainment dall’altro. La storia è risaputa e se ci sono alcune incongruenze le si accettano di fronte al paradosso narrativo che ne è alla base. Bello è il rapporto figlio/padre che s’instaura tra Truman e Christof, autentico deus ex machina. Una regia divina che rende schiavo Truman e che, amorevolmente, lo preserva dalle brutture del mondo vero. Come in ogni tragedia edipica Truman uccide il padre (ne fa crollare lo show) e si libera: non sappiamo come sarà il dopo ed è un ulteriore segnale: finisce la fiction e inizia la realtà. Ormai la vita è l’unica finzione vendibile, se accuratamente truccata, e chi cura la regia non è padrone del destino soltanto dei suoi attori ma anche degli spettatori. Regia che non si perde in tirate sentimentali, secca e intelligente. Bravi attori. Non male. (Ritz di Genova; 19/10/98)
121 – Gattaca di Andrew Niccol, USA 1997
Gattaca è il luogo da dove partono le imprese stellari di un futuro per niente remoto. Il povero Vincent, Ethan Hawke, è un “figlio della fede” — come vengono chiamati gli esseri la cui nascita non è stata programmata dopo un’accurata selezione tra gli ovuli fecondati — e risulta destinato a un’esistenza grama. E’ una chiavica con un’aspettativa di vita di trent’anni perché cardiopatico e ha la vista di una talpa: in un mondo in cui il codice genetico è la prima fonte d’informazioni sull’individuo e tutto è rigorosamente controllato, gli è di fatto preclusa ogni carriera ambiziosa. Ma vuole a tutti i costi diventare un astronauta come Grisù voleva fare il pompiere e, con l’aiuto di un chirurgo compiacente, assume l’identità di una persona dalle qualità fisiche pressoché perfette, rimasta però paralitica dopo un incidente. L’inghippo funziona: con le sue qualità intellettive e fornendo a ogni controllo il sangue e le urine del sosia di cui ha preso l’identità, Vincent viene selezionato per volare sull’inesplorato Titano. Ma viene commesso un omicidio: è stato ucciso il principale oppositore del progetto interstellare. Siccome nelle precisissime indagini è rinvenuto un capello (ovviamente spaccato in quattro, ah ah… ehm) di Vincent, il nostro ambiguo eroe deve portare a casa la pellaccia. C’è ritmo, ambiguità (Vincent, per quanto in nome di un’aspirazione umana, è ferocemente determinato a ottenere ciò che vuole), molti indizi e anche qualche colpo di scena abbastanza riuscito e si perdona la voce narrante del protagonista che ci fa la morale. Gattaca è un film intelligente: niente apparati scenografici miliardari, basta una costruzione di Lloyd Wright o un appartamento a metà strada tra razionalismo anni Venti e architettura “bianca” anni Ottanta. Non c’è bisogno di mostri, maree, pipistrelli: è l’uomo il protagonista. Anche se orbo e malato. (Vhs originale; 20/10/98)
122 – Spy del volenteroso ma pasticcione Renny Harlin, USA 1997
Questo film avrebbe potuto essere una piccola gemma. Non lo è. Sullo schermo si dipana una vicenda talmente assurda che fa quasi tenerezza. La accettiamo, vogliamo crederci: quando ci capiterà ancora di vedere un’eroina così muscolare, praticamente un Bruce Willis con le tette, fare coppia con un sfigatissimo investigatore nero che vive ancora negli anni Settanta e riesce sempre a chiosare con battute fulminanti? Mai più, credo. Se da Spy vi aspettate uno svolgimento coerente, dei personaggi credibili, dei riferimenti alla realtà, dei messaggi, siete molto fuori strada. Ma se volete un film d’azione leggermente più originale della media potreste anche godervi serenamente questo pateracchio. Geena Davis è insegnante in un tranquillo paesino del New Jersey: otto anni fa l’hanno recuperata dal mare, completamente smemorata. S’è sposata, ha avuto una figlia e ignora il suo passato. Per umana curiosità paga un investigatore completamente spiantato, (Samuel L. Jackson) per fare ricerche. È la settimana precedente il Natale e la sfilata del paese dove la Davis vive viene trasmessa in televisione. Un detenuto orrendamente sfigurato la vede, la riconosce, urla come un ossesso, fugge, la raggiunge e prova a vendicarsi (è stata lei a ridurlo così). La Davis inizia vagamente a ricordare qualcosa, anche perché, a spizzichi e bocconi, le tornano istintivamente familiari certi comportamenti come: sparare con mira olimpionica, menare colpi da peso massimo e lanciare coltelli come un circense. Sta a vedere — pensa lo spettatore che ricorda il titolo del film – che era una spia… Il primo tempo scorre con la protagonista non ancora convinta, confusa tra l’identità di mamma e insegnante di scuola e la vecchia attività muscolare che continua a riemergere. Poi, dopo l’ennesima prova che a Batman je farebbe un bucio così, la Davis si trasforma completamente e diventa consapevolmente cattiva come l’aglio. I vecchi capi dei servizi segreti la vogliono eliminare, tengono in ostaggio la figlia, pestano a ripetizione il povero Jackson. Ce la farà? È dai tempi della Weaver in Aliens che non vedevamo un ruolo d’azione affidato a una donna e dove è la donna a proteggere la prole, la famiglia, il maschio. E, altra cosa interessante, il maschio è un nero, ironicamente molto poco cacciatore, desideroso solo di tornare dalla sua famigliola al punto di rifiutare la corte di Geena che, dopo anni di digiuno sessuale, l’avrebbe eviscerato come un tacchino prima del Thanksgiving. Piacevoli alcune battute, sostenuto il ritmo, intelligente la colonna sonora (San…tanaaaa e Muddy Waters!), però il film non parte mai e non mantiene le promesse: troppi passaggi meccanici e troppa violenza da cartone animato dove, dopo due minuti sono tutti nuovamente puliti e pronti a ricominciare. Peccato. (Vhs originale; 21/10/98)
123 – Figli d’Annibale di, mah, Davide Ferrario, Italia 1998
Orlando, operaio, dopo dieci anni di reparto verniciatura alla Falchera di Torino, non ce la fa più ad andare avanti. Organizza una rapina suicida, ma ha la fortuna di prendere come ostaggio un imprenditore dalle idee strampalate, Abatantuono, che, per fuggire dai creditori, lo convince a puntare a Sud, verso l’Africa. La strana coppia attraversa l’Italia in treno, fa tappa a Otranto dove Abatantuono rivela il suo amore impossibile per un agente di Polizia e poi, unitesi al duo anche la sorella cieca di Orlando e la figlia insoddisfatta dell’inusuale ostaggio, arrivano sul tacco d’Italia e prendono il mare, incrociando dei clandestini che tentano invece di sbarcare. L’idea è buona e l’apparato tecnico è come sempre interessante: grandangoli, riprese sghembe, velocizzazioni, commenti musicali per niente banali (Should I Stay Or Should I Go riproposta da un sestetto d’archi), bravi attori. Allora cos’è che non va? La storia, che manca assolutamente nello sviluppo ed è affidata all’istrionismo dei due personaggi principali. Istrionismo godibile, ma sprecato se manca lo scenario narrativo su cui farli muovere. Il film dura un’ora e venti e non ha ritmo, forza, coinvolgimento. Rimane tutto nelle intenzioni e Figli di Annibale non decolla mai. Peccato. (Vhs originale; 21/10/98)
124 – Lola corre di Tom Tykwer, Germania 1998
Vesna va veloce, ma Lola corre, fortissimo. Adesso scriverò delle cose infantili, perlomeno più infantili del solito, ma l’attacco ai sensi provocatomi da Lola corre ha pochi precedenti. La storia è nota, ma la ripetiamo per chi era assente: Lola viene chiamata da Manni, il suo ragazzo, che ha appena perso una sacca con dentro 100.000 marchi. Tra venti minuti arriva il principale e se non recupera i soldi verrà ucciso. Lola ha venti minuti per aiutarlo: che fa? Corre, come un ossesso. Come in un videogioco deve affrontare in un tempo limite un percorso irto di difficoltà: arriva due volte alla conclusione ma perde. Insert coin e alla terza, finalmente, ce la fa, vincendo pure la cifra in palio. A prima vista questo Lola corre affronta ludicamente il caso, come in Smoking — No smoking, certo Kieslowski e Sliding Doors. Ma lo fa con un linguaggio adrenalinico: “la palla è rotonda e la partita dura 90 minuti”. Non è un cinema che rielabora criticamente o con astruse divagazioni: mostra semplicemente per immagini. Ed è per questo che può non piacere: c’è chi si ferma alla confezione e magari la trova troppo patinata e perde il testo che queste immagini un po’ leccate raccontano. Sostanzialmente Lola corre è formato da tre corti, tre variazioni sullo stesso tema e questo autorizza a trovarlo un semplice esercizio di stile. Ho visto troppi pochi film per sancire giudizi definitivi ma un’ora dopo avevo ancora il fiatone e se durante la proiezione avessi avuto un Ventolin contro l’asma me lo sarei inalato ripetutamente. Odio i film ammiccanti, furbetti, compiaciuti, quelli che ti trascinano abilmente nel trabocchetto ricattatorio. Ovviamente mi piacciono solo quando, inconsapevolmente, ci casco anch’io. Forse stasera è accaduto così ma quest’anno ho visto quasi 400 film e ho una fottutissima voglia di vedere qualcosa di diverso. Prendete, per esempio, i destini delle persone incontrate da Lola, un destino visto attraverso sequenze fotografiche velocissime che sanno raccontarci in pochi secondi una vita. Ed è intelligente — nel terzo episodio — fare aspettare allo spettatore degli incontri che prima avevamo visto, che ora sono scomparsi e che poi appaiono di nuovo quando meno si aspettano. A me sembra che il film sia ricchissimo di cose originali: la vita è un videogioco? No… ma forse sì, con gli ostacoli, le prove e anche i superpoteri: come giustificare se no quell’urlo spacca cristalli da super eroina Marvel che Lola sfodera nei momenti di massima tensione? Tante invenzioni che neanche in un anno intero di prime visioni. E poi non comprendo le accuse di cinema videoclip: che c’entra? Il montaggio spedito è qui consapevole e, se non altro, ha una precisa funzione narrativa. La musica che accompagna tutto il film può forse non piacere, ma, di nuovo, è assolutamente appropriata: pompa come il cuore della podista, ci restituisce il suo ritmo vitale, ci trasmette la trance di una Berlino quasi addormentata e semivuota mentre una giovane corre all’impazzata per salvare il suo amore. E Franka Potente ha due occhi che non si dimenticano. Lola corre, eccome. (Ariston di Genova; 22/10/98)
130 – Apollo 13 di Ron Howard, USA 1995
Inizio la serata guardando Donne amazzoni sulla Luna di un Landis (et alii) più demenziale del solito, al limite del demente proprio. Infatti lo mollo dopo mezz’ora in cui ho riso due volte soltanto. Ma perché il cane ha l’aerofagia e ha pensato bene di mettersi davanti al televisore a scoreggiare. Cambio canale e seguo le disavventure della missione spaziale più sfigata dell’universo (di quelle che non son finite col botto, chiaramente). La drammaturgia è ben gestita e se si perdonano alcune semplificazioni retoriche e qualche lungaggine documentaria, lo spettacolo risulta solido, piacevole e inoffensivo. Lo seguo fino in fondo come un film di fantascienza perché non credo che l’uomo sia mai stato sulla Luna. Ma figurati. (Diretta su Canale5; 26/10/98)
138 – Radiofreccia di Luciano Ligabue, Italia 1998
Propongono al Liga di fare un film e lui non ci pensa due volte. La cosa potrebbe risolversi in una vaccata e invece ne viene fuori un film che funzionicchia, meglio costruito e girato di tanti prodotti sfornati da bellimbusti che fanno gli autori senza sapere cosa raccontare e soprattutto come farlo. Radiofreccia però sconta i difetti dovuti all’inesperienza del regista e lo si vede nella recitazione degli attori giovani, alcuni decisamente canissimi. Ma Ligabue dissemina il film di indizi bertolucciani e la cosa mi predispone bene: dopo cinque minuti c’è un travolgente omaggio a Strategia del ragno. Dopo dieci c’è un funerale di marca novecentesca al suono bandistico di I Can’t Help Falling In Love. E poi uno dei personaggi si chiama Spaggiari. Certo, c’è anche Zibetti che era ultracane in Io ballo da sola e si conferma bestiale anche in questo frangente. Ma queste sono pinzillacchere che nulla vi dicono del film, per cui: l’emittente Radiofreccia chiude dopo diciott’anni di vita e Bruno racconta nelle ultime due ore di diretta la storia della radio e il perché del nome, dovuto all’amico Freccia ucciso dalla droga. I due attori principali, a differenza degli altri, se la cavano discretamente. Convincono, a parte il prefinale, la storia e le derive aneddotiche tipiche del paese; forse banali i riferimenti alla droga (ma chiari e ci si chiede come si sia potuto pensare di vietare il film) e la ricostruzione storica del periodo. Alla regia non importa la Storia degli anni Settanta, semmai la vita di provincia di cinque ragazzi. Liga racconta l’amicizia, la musica (splendida colonna sonora rock) e le ingenue utopie. Non ci sono scadimenti retorici, né scene a effetto, e il film fila abbastanza bene, senza pause. C’è un’evidente misoginia ma la si vive con la consapevolezza del maschilismo italico. A me Radiofreccia, tutto sommato, non è dispiaciuto. È un film con diverse pecche, ma anche con una freschezza che sarebbe inutile cercare in tanto cinema italiano. (Ariston di Genova; 11/11/98)
145 – Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, USA 1998
Premetto che il film m’è piaciuto. Nel senso che, a livello epidermico, me lo sono goduto. Sono uscito dal cinema, come dire?, divertito, anche se ronzava nel cervelletto un non so che di irritato. Salvate il soldato Ryan è un buon film di guerra, di quelli che la guerra non la giudicano, la mostrano soltanto, per far vedere dell’uomo la vigliaccheria e l’eroismo. Chi asserisce che i famosi primi venti minuti mostrino la guerra vera, svicola dal punto che dovrebbe più interessarci: sarà forse così la guerra, ma a Spielberg l’estremo realismo serve soltanto per dare emozioni primarie, non cercare di ragionare sulla guerra stessa. È perfezionismo il suo. Puntigliosa ricostruzione, spettacolo accuratissimo… che poi le braccia mozzate e gli intestini li avevamo già visti anche in Platoon, e mi volete dire perché tutta ‘sta pignoleria chirurgica e poi, per fare un mutilato, devono metterci un tizio con il braccio — visibilissimo — nascosto dietro la schiena? Boh. La crudezza delle immagini mi sembra puramente spettacolare e se c’è un messaggio è che, per quanto brutta, la guerra sia necessaria. Naturalmente se la facciamo noi americani, che abbiamo sempre ragione perché siamo il baluardo della libertà, la prima democrazia e qui da noi possiamo mettere sotto accusa anche il presidente perché la stampa è libera e le solite fregnacce. E infatti qui cominciano a girarmi i coglioni come le palline dell’estrazione del lotto. Aspettarsi un minimo di riflessione critica sugli Stati Uniti di allora e di oggi da questo Spielberg è come chiedere a Zucchero di scrivere una canzone originale. Lasciamo stare lo spunto narrativo tipicamente yankee (e se non è una storia vera comunque è verosimile, da parte di uno yankee, s’intende): assolutamente inutili il prologo e il finale, retorici e imbarazzanti (e per piacere, basta con il morphing per passare da un’epoca all’altra) e pessime quelle bandiere americane come primo e ultimo fotogramma con l’equazione che lampeggia in fronte allo spettatore: “ci sono guerre ingiuste e guerre giuste. Noi facciamo quelle giuste, quelle per le quali bisogna tollerare ‘sto popò di dolore e violenza che ti ho fatto vedere”. In ordine sparso, altre cose che imbarazzano: l’episodio del soldato tedesco liberato e poi nuovamente avversario, il soldatino che si riscatta uccidendolo (ah: allora era un errore non uccidere il prigioniero prima!), la totale mancanza di soldati di colore che mi pare assolutamente antistorica, giacché erano sempre in primissima linea. Poi: per un attimo mi sono illuso sperando che ci fosse un po’ d’ironia nella scena delle condoglianze scritte in serie. Sbagliavo. Così come rappresentare la bestialità dei soldati americani sui prigionieri tedeschi appena catturati, che non è a stigmatizzare e a dire che i cattivi sono anche di qua, figuriamoci: c’è simpatetica approvazione per la reazione a lungo covata. Ma allora, direte, come cazzo ha fatto a divertirti ‘sto film? E che ne so? Questo bambinone di Spielberg lo spettacolo lo sa dare, basta non chiedergli altro, anche se gli scappa qualche banalità. Mah, non so più che dico, per cui taccio. (Cineplex di Genova; 23/11/98)
146 – Spider Baby di Jack Hill, USA 1964
Grazioso dono di Fuori Orario: un fantastico, strampalato, geniale horror di serie B denso di momenti di sincera apprensione, divertente e ironico (p.es.: l’irreprensibile donna violentata da un subnormale e poi insaziabile, gag ripresa in Frankestein Jr.). La spider baby è Virginia Merrye (Jill Banner), una bella adolescente, paurosamente sensuale e completamente sciroccata. Ama i ragni e ammazza la gente considerandola grossi grassi insettoni. Come altri suoi familiari, affidati al buon tutore Bruno (Lon Chaney, che canta anche sui divertenti titoli di testa), è colpita dalla sindrome di Merrye, malattia che fa regredire a uno stato mentale tipo Marzullo, con annessa antropofagia. Nella casuccia di campagna dove vivono i Merrye si nascondono però altri segreti: per esempio il padre che dorme comodamente il sonno eterno nel suo letto, oppure il giulivo zio Ned che si ciba di cadaveri in cantina. Dei parenti ignari vanno a visitare l’allegra comunità di freak, ma mal gliene incoglie perché si fermeranno inopinatamente per cena. Spassoso. (Vhs da RaiTre; 25/11/98)
147 – Addio mia concubina di un mortale Chen Kaige, Cina 1992
Mereghetti, nel suo dizionario dei film, definisce Addio mio concubina “a volte didascalico e tirato per le lunghe”. Eh sì, come dire che tutto sommato la carne di cadavere è solo dolciastra e stucchevole. Questo film è una seccatura che non vi dico: e va bene la messa in scena sfarzosa, i costumi colorati, le scenografia ricchissime, la fotografia curata, ma che due maroni! E dopo due ore e quaranta del miagolio dell’Opera di Pechino, si comprende la politica della rivoluzione culturale tesa a spazzare l’eredità teatrale millenaria. Recensione pigra e sprezzante, ma che denota personalità, tiè. (Vhs originale; 27/11/98)
152 – Johnny Mnemonic di uno Longo e asino, USA 1995
Johnny Mnemonic è tratto da un racconto di William Gibson e attinge all’universo delle sue creazioni letterarie. Oh: io ho letto giusto due racconti, confesso, ma se fossi veramente esperto di qualcosa non starei qui a scrivere, eh. Comunque: il problema è che le cose belle sulla carta qui si afflosciano dopo pochi minuti, dal momento che il film di Robert Longo è piegato a una logica da film d’azione. Qualunque fascino è azzerato, ogni visionaria rappresentazione del futuro prossimo venturo è annegata in effetti speciali d’accatto e patetiche scenografie di cartone. Insomma, il cyberpunk non si può ridurre a cascatoni e sberle. Nel cast c’è un pessimo Keanu Reeves, ormai relegato sempre a ruoli da isterico, con urla, sbracciamenti laocoontici e pianti sfrenati. Merita l’ineffabile Kitano, mentre Dolph Lundgren definisce la categoria del film; completano l’allegra compagine il caricaturale Udo Kier, il litico Henry Rollins e la bevanda ghiacciata Ice T. In sintesi estrema e meramente tecnica, questo film m’ha fatto cagare. Due giorni dopo — giacché dovrò pur cominciare a studiare — mi sono concesso una botta di vita televisiva, dedicandomi a X-Files. Sarà sfiga, ma ho beccato delle puntate nulle come suspense, dominate dalla faccia inespressiva di Scully. È tarchiata e chiatta e ha una gamma interpretativa che va dal terrorizzato al terrorizzato scettico, sia che le annuncino che gli alieni hanno invaso la Casa Bianca, sia che è finito lo zucchero. Tutti i presunti colpi di scena, scanditi con lentezza iraniana, sono poi sottolineati da commenti musicali grossolani. Per me X-Files è il classico caso in cui difetti (monotonia, ripetitività, paresi facciali, ritmo blandissimo) vengono scambiati (o venduti) per pregi come: ambiguità, fascino, mistero, indicibile etc. Mah! E già che ci sono: visti dieci minuti, anche il tanto decantato Millennium è una cagata. (Vhs da Mediaset; 4/12/98)
155 – Small Soldiers di un indeciso Joe Dante, USA 1998
Filmetto mediocre. Non funziona per molti motivi, ma principalmente perché è sempre in bilico tra il pubblico adulto e quello infantile, senza soddisfare le esigenze né dell’uno né dell’altro. C’è un gioco citazionistico molto spinto (musica e immagini) e allusioni politiche diffuse, ma innestati su impianto narrativo stravisto e denso di strizzate d’occhio all’adolescenza (il tredicenne eroe innamorato di una quindicenne, la consueta lotta coi genitori). Il film, poi, soffre di una latente contraddizione: è un veicolo di pubblicità per i prodotti ispirati ai giocattoli protagonisti del film, quando la morale del film vorrebbe essere contro un certo tipo d’intrattenimento freddo e industriale (qui siamo alle estreme conseguenze: giocattoli costruiti con tecnologie militari). È un bel paradosso poi che il messaggio antimilitarista del film (finzione, andata male nelle sale) vada a braccetto con le vendite stratosferiche di pupazzetti dei soldati (realtà, andata benissimo nei negozi). Come si può dare colpa di ciò a Dante? Si può, si può. Già La seconda guerra civile americana era un pastrocchio banale e mal servito per cui qualche asino aveva gridato al miracolo. Qui Joe si conferma un pasticcione che crede di riformare il Sistema dall’interno e fa una figuraccia. (Cineplex di Genova; 12/12/98)
156 – Gatto nero, gatto bianco di Emir Kusturica, Francia/Germania/Jugoslavia 1998
Torna Emir e torna allegro, scanzonato, senza grandi messaggi. Per tutti. Infatti ho visto il film in una sala zeppa di caproni che ridevano per ogni cagata, di cui peraltro il film è pieno, non solo metaforicamente. Underground è stato criticato perché troppo denso di contenuti? Arizona Dream era troppo poetico (vabbeh, una palla al cazzo, ma i criticonzi…)? Gli altri film troppo dilatati? Bene, si deve esser detto Kusturica: stavolta vi do i gitani, la musica che vi piace, i Balcani delle nuove mafie e tanta comicità primaria: cascatoni, torte in faccia (non proprio, ma quasi) e parentesi scatologiche. E non rompetemi più le palle. Per cui si ride, in Gatto nero, gatto bianco. Si ride tanto e anche sullo schermo (ma con dentature equine e spesso marce) si partecipa ilari al gioco messo in campo dal regista bosniaco. Però poi si esce dal cinema e si ha l’impressione che siano state due ore piacevolissime che non lasceranno il ricordo (e la voglia di rivederlo presto, subito) di Underground. Comunque bel voto, ci mancherebbe, anche perché per una volta il regista sa sintetizzare le sue qualità. E poi, come sempre, c’è un ritmo (visivo e musicale) coinvolgente e i colori, i suoni e anche gli odori dei Balcani risultano convincenti nella loro trasfigurazione magica. (President di Milano; 14/12/98)
(Continua — 3)