di Marco Philopat

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Vent’anni fa a Berlino crollava il muro, ma nessuno di noi era particolarmente contento. Sapevamo che la città dei balocchi sarebbe cambiata in peggio. Nelle nostre scorribande in autostop o per interrail, arrivare a Berlino voleva dire viverci un’esperienza di pura liberazione dalle costrizioni, sperimentare alternative esistenziali, giocare con l’utopia, scoprire nuovi ideali per cui valesse la pena combattere. Quel muro che vedevamo all’orizzonte di Kreuzberg, al di là dell’austera porta di Brademburgo non solo ci divideva dall’est, ma anche dalla svolta reazionaria portata avanti in quel periodo da Reagan, Thatcher, Kohl e in Italia da Craxi. Era il simbolo dell’oppressione di un totalitarismo morente e di uno nascente, Berlino Ovest era ancora la vetrina della libertà, dei diritti civili, forse anche dell’egualitarismo e della fraternità. Gli equilibri si spezzarono in quel novembre dell’89, il capitalismo chiamato già allora neoliberismo, si fece strada ovunque, arrogante e pervasivo più che mai. Nella società civile occidentale tutto cambiò, fu conquista e delirio di onnipotenza che provocò un devastante ripiegamento individuale, egoismi e prepotenze infinite. Ogni libera aggregazione subì una impensabile stretta repressiva persino nella ‘nostra’ Berlino. Nonostante fossero in molti a blaterare di una nuova pacificazione, la prima guerra del Golfo partì poco più avanti, la bolla del benessere si gonfiò lungo l’ultimo decennio del secolo, scoppiando all’inizio di quello nuovo. Nuovi muri crebbero ovunque, non solo in Palestina e sulle acque del Mediterraneo, o alla frontiera tra Messico e Stati uniti, ma anche in tutti i centri storici e commerciali delle nostre metropoli, dove in breve si installarono cancellate, presidi di polizia e check point.

La guerra si è espansa. Al di qua della nuova cortina di ferro è rimasta solo la rinuncia a ogni ipotesi di cambiamento.
La guerra era richiamata, anticipando di almeno quattro anni i tempi, in una canzone dei Black Flag, un gruppo punk californiano, e la seconda volta che andai a Berlino mi capitò di ascoltarla spesso.
Qui vi racconto come andò quella volta, è una narrazione allucinata che però spiega bene quale fosse il nostro rapporto con il muro e come la sua caduta non rappresentò per noi solo una fine, ma anche un inizio di un possibile percorso di opposizione, seppur primitivo.

Nel 1985 andai a Berlino Ovest per il primo maggio. Nelle favole metropolitane si narrava di scontri con la polizia, sesso libero in squat superorganizzati, canne a iosa e grandi bevute di birra in una città che assomigliava a quella dei balocchi. Arrivato in autostop e pagato il salatissimo pass per transitare nel territorio proibito della Germania Est, approdai verso mezzanotte al centro della giostra, il quartiere Kreuzberg. Lungo l’Oranienstrasse era un pullulare di persone stravaganti, i locali si susseguivano addobbati con i simboli di tutte le mode e gli stili di vita dell’epoca. All’orizzonte le luci e i festoni colorati s’interrompevano bruscamente, e con loro anche le due file parallele dei lampioni. Il buio. Laggiù c’era il muro di Berlino che divideva la festa dalla guerra…
Il covo dei punk si chiamava “Tek”. Davanti all’unica vetrina piena di volantini in bianco e nero, una trentina di ragazzini e ragazzette sfoggiavano moicani, borchie, scarponi pesanti, giubbotti neri con scritte battagliere, collant a rete e mutandoni leopardati. Ognuno aveva una birra in mano. All’interno era una bolgia indescrivibile. Avevo ancora sulle spalle il mio zaino e non sapendo dove appoggiarlo lo ficcai sotto un calcio balilla, dove quattro redskin stavano facendo una partita provocando baccano come se avessero tra le mani una motosega. Feci la fila per la prima birra in mezzo alla ressa di venti ubriaconi. Al terzo giro riuscii finalmente a socializzare con un gruppo di punk un po’ meno alcolizzati, ma forniti di joint alla bio-erba termonucleare. Uno di loro, Ron, mi informò sulla manifestazione per l’indomani, il primo maggio. Mi disse altre cose per poi perdersi nella discussione accesa, scoppiata nel frattempo. Capii che stavano organizzando la guerriglia urbana per il corteo che si preannunciava tesissimo. Andai immediatamente in paranoia. La marijuana stava rilasciando le sue preoccupanti controindicazioni.

Fui travolto da una fiumana di gente che si gettava nello scantinato per assistere all’inizio dello show. Non era un concerto, si trattava di una performance dell’assurdo. Su un palco raffazzonato quattro tizi s’erano schiacciati i peli rizzati infilandosi delle parrucche con i capelli lunghi da metallaro. L’impianto sparava a manetta The Ace of Spades dei Motorhead e i quattro, senza avere in mano proprio nulla, mimavano dei chitarristi metal muovendo la testa su e giù in una cascata di capelli sintetici. Era un concerto di airguitar, una stronzata totale. Eppure il pubblico era in visibilio, chi sghignazzava di gusto, chi molinava la testa come quelli sul palco. Semplicemente schifato tornai sopra alla ricerca dei resti dello zaino sbranato. Dopo un paio di birre ero disceso con il mio fagotto sottobraccio mentre altri tre dementi, questa volta travestiti da Led Zeppelin, si lanciavano in una terribile cover di Stairway to Heaven, anche loro senza nulla in mano… Sempre più inorridito mi avvicinai a Ron. Mi spiegò che questo tipo di performance l’avevano conosciuta grazie ad alcuni punk americani che erano venuti a fare un viaggio lì a Berlino . “Aaah americani… Eh, eh, eh!”. Sul palco salirono quattro valchirie tedesche con vestiti di paillettes dorate e parrucche bionde a caschetto. Prendevano in giro un programma della tv berlinese, imitando una Raffaella Carrà locale. Il pubblico raggiunse l’estasi. Mi lasciai trascinare dal pogo su un pezzo di ignobile discomusic. A un tratto partì, spaccando i timpani a tutti, My War dei californiani Black Flag, la mia canzone preferita di quei mesi. Le tipe si spogliarono rimanendo in bikini zebrati, si tolsero le parrucche liberando chiome rosse e nere e, prese in mano le chitarre virtuali, iniziarono a muoversi mostrando muscoli altrettanto virtuali alla Henry Rollins, il palestrato cantante dei Black Flag. “My war you’re one of them, My war, My Waaar”. Mi erano venuti i brividi… Completamente disorientato stavo assistendo al pezzo in un misto di fascinazione e vomito. Ero in preda alle allucinazioni, mi sembrava di essere in un’operazione di guerriglia, pensavo che la manifestazione sarebbe partita subito, in quel preciso instante, sembrava che la gente si stesse preparando con le bombe e i picconi a buttare giù il muro e poi i Mc Donald’s, le banche, i centri commerciali. Tra il razionale e l’irrazionale c’era un conflitto in corso dentro di me e non mi rincuorava pensare che ci fosse in ogni cervello umano. Era inutile negarlo. Guerre quotidiane, fronti aperti ovunque, rapporti interpersonali a pezzi, denti rotti, lividi che apparivano senza motivo. Guerre quotidiane in cui tutto diveniva confuso, da una parte il potere, di là gli ideali, su tutto le esigenze materiali contingenti, ma quaggiù, quaggiù nel buco profondo dell’anima, c’era solo il mio indigeno personalizzato che si muoveva dentro. Dovevo reagire, era necessario per la mia sanità mentale. “My war you’re one of them, My war, My Waaar”. Al temine della performance la gente sfollò velocemente.

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Avevo un problema, non sapevo dove andare a dormire. Chiesi a Ron ospitalità. Mi portò al suo squat poco distante, situato proprio a ridosso del muro. Doveva essere uno di quei palazzi popolari di altri tempi, diviso in piccoli bilocali. Gli occupanti avevano bucato le pareti e unito tre o quattro appartamenti. Il posto era sozzo all’inverosimile, pareva un cesso a forma di groviera. Lì dentro abitava il redskin padrone dei due pitbull che già ringhiavano contro il mio fagotto. Nella cucina cavernosa, tra le macerie di un recente buco di allargamento, si scivolava sull’unto bisunto di monnezza dalla puzza di wurstel e crauti marci. Al tavolo, due delle tipe che si erano esibite poco prima. Appena seduto su una sedia sbilenca e appoggiata la capoccia a un muro sbrecciato, ero crollato nel mondo degli incubi. La mia guerra personale ce l’avevo dentro la testa, dove ero capitato? Chi ero? Mi domandavo se non fossi anch’io uno di loro, se la guerra mentale mi avesse preso fino al punto di farmi diventare matto, proprio come diceva la canzone dei Black Flag. “… it drives me insane, My war you’re one of them, You say that you’re my friend, But you’re one of them, My Waaaar!”. Intanto le tipe erano salite sul tavolo e si erano messe a provare nuovamente il concerto di airguitar, sparando a tutto volume quella stessa canzone da un registratore… Non so cosa accadde d’altro quella notte, ricordo solo i miei imbarazzanti tentativi di comunicare con una delle due valchirie in questione, Suzanne, la quale, nonostante fossi un raro pezzo esotico in quanto punk italico, non mi rivolse parola. Ricordo soprattutto il ringhio dei pitubull ai piedi del mio schifoso giaciglio, le unghie nere e la croppa nera delle linee di sporco sulle braccia di Ron che russava al mio fianco. Alla mattina presto ci preparammo per andare al concentramento in Oranienplatz.

I turchi tenevano la testa del corteo, intrepidi come i mongoli di Gengis Khan. Dietro, gli autonomen con i loro passamontagna neri da motociclista, poi noi punk e infine gli anarchici… Al primo fronteggiamento con la polizia era partita una gragnola di sassi diretta sugli scudi che coprivano i lanciatori di lacrimogeni. Quando il corteo, ancora miracolosamente unito, raggiunse un viale pieno di negozi, si scompose in mezzo secondo. I manifestanti armati di bastoni stavano distruggendo tutto: vetri, auto, segnali stradali e semafori… Alle dieci del mattino questi miei occhi avevano già visto abbastanza. Alle dodici ero esausto per il continuo scappare dalle guardie in uniforme da robocop. Eravamo rientrati in una Kreuzberg ormai in fiamme, lì avevo mollato tutto per rientrare nello squat. Sul portone Ron e il redskin si stavano rollando una canna termonucleare. Deciso a rifiutarla per non cadere definitivamente nella follia, li avevo salutati velocemente dirigendomi verso il nostro cesso d’appartamento. Dalle scale scendeva di corsa lei, Suzanne… Mi fece segno di seguirla e mi riportò giù dagli altri. I turchi intanto continuavano a combattere nei dintorni. L’idea di Suzanne era quella di salire sul muro di Berlino, accendere a palla l’amplificatore con My War e improvvisare un concerto di airguitar. Con il coraggio di un leone fumai l’erba di Ron e mi aggregai a loro senza pensarci troppo. Passammo da un buco esterno dell’edificio direttamente sul bordo tondeggiante del muro di Berlino. “My Waaaaar!” La musica vibrò fortissima e ci fece imbracciare le nostre airguitar come mitragliatrici… “My Waaaaar!”, urlavamo a destra e a sinistra. Da una parte turchi e autonomen lanciavano molotov, dall’altra le guardie dell’Est, i Vopos, ci guardavano da lontano con i loro binocoli. “…the end will come, Come on! My war you’re one of them. My Waaaaar!”