di Enrico Piscitelli e Alessandro Raveggi
[Questo testo è un’introduzione alla collana Novevolt, che Piscitelli e Raveggi cureranno dal 2010 per la casa editrice Zona: romanzi brevi, racconti lunghi, poche pagine piene di idee. I primi autori pubblicati saranno Enzo Fileno Carabba e Franz Krauspenhaar.]
Viviamo, oggi, in una condizione in cui le nostre parole sono un nodo, una tag associata a un’informazione, verso le quali e dalle quali si irradia una rete, alcune reti, nella Rete. La Rete è un modello di autonomia relativa, di libertà limitata e temporanea, meravigliosamente anarchico e labirintico (per i fanatici del labirinto), ma anche ambiguamente accessibile. Siamo completamente accessibili, siamo completamente visibili, purtroppo, ovvero: vulnerabili.
La Rete ha le sue falle e i suoi pescecani, che navigano a vista con i propri specchietti per le allodole tra i denti. La possibilità di essere fregati, di essere illusi, di perdere la nostra libertà, è paradossalmente maggiore. Dal Sistema anarco-capitalistico in crisi, dal mainstream che pur sta cercando di mimetizzarsi nella nostre forme di resistenza vitale, quasi biologica — per rinascere quando forse rinasceremo — si è sempre delusi.
Il diffondersi della letteratura nel mezzo partecipativo delle comunità-web italiane e mondiali ha moltiplicato quantitativamente i luoghi dove la qualità può (ma non necessariamente deve) essere rintracciata. Al di là della possibilità che le forme rapide di pubblicazione del weblog ci stanno offrendo, e del ricrearsi blando della comunità in una simulazione gioco in cui possiamo pur sempre mascherarci da avatar, bisogna preservarsi dal rischio del consenso qualitativo, ovvero dalla pretesa di valutare un testo come qualitativamente letterario, dipendendo dalla quantità di frequentazioni del testo, di apprezzamenti, di click, poll e commenti telematici. La letteratura qui viene spesso classicamente mercificata, anzi mercificata al secondo grado. “Non è merce, questa è letteratura, un nuovo modo cool di farla”, ma è sempre paradossalmente merce, termometro di consenso. Quello che vogliamo dalla qualità non è consenso, è diffusione e differenziazione, movimento di visione e divisione, non partecipazione da prova d’acquisto.
Bisogna comunque fare un tentativo per togliere uno strato immancabile di spocchia dalla nozione di qualità letteraria.
Cosa è allora questo richiamo alla qualità, in un mondo felice e utopico in cui Tutti scrivono Tutto, e in un mondo infelice e distopico in cui nessuno pare comprare i libri? Facciamo un parallelo. Cosa intendiamo con l’espressione qualità della vita? Il semplice adeguamento al gusto della massa (o della massa al suo gusto preconfezionato), la semplice capacità di possedere e dominare ammennicoli tecnologici, divani confortevoli e televisori al plasma, di essere oggi up-to-date e domani chissà…? Questa concezione non è più proponibile, visto che il modello economico che l’ha portata in auge sta crollando, o rientrando nel proprio guscio protezionistico (anche se forse lì dentro marcirà). La qualità della vita è ora molte cose assieme, un vettore di tante variabili in rapporto al nostro Welfare State individuale, ma sicuramente è una condizione in rapporto a una gittata, a una potenzialità futura. Appunto: la gittata delle nostre azioni future. Vivo qualitativamente bene se quello che faccio oggi potrà durare domani, senza per questo andare in cancrena, ma vivendo nella metamorfosi, nell’apertura, non in un eterno presente insipido. E questo vale sia per la classe media italiana in lenta fissione, che per i paria dei paesi in via di sviluppo. Vivo qualitativamente bene non necessariamente se oggi possiedo un divano di lusso (o un libro in prima fila sullo scaffale), ma se potrò permettermi un divano anche domani, magari più piccolo, anche per i miei figli. La qualità della vita è così poter pensare alla propagazione, e metamorfosi, della mia vita, e della mia opera, domani. Ed è qualcosa che ha a che fare dunque con la possibilità (non l’obbligo) di fare figli, di riconoscersi in un’alterità che nasce dal nostro ventre.
Il disprezzo per i giovani che le generazioni che ci precedono dimostrano e hanno dimostrato, un disprezzo che si è caratterizzato come spettacolarizzazione della gioventù, almeno dal Dopoguerra a oggi — e che è uno dei nostri faticosissimi compiti annullare — ci fa capire che la loro visione di qualità della vita era necessariamente contraria alla nostra possibilità di propagarci, era in qualche modo castrante. Il benessere borghese è ed è rimasto un concetto statico e ottocentesco basato sull’accumulazione, l’appropriazione, l’accatastamento di beni, entrato in crisi proprio nell’era del consumo e della sovrapproduzione. Dall’accumulazione si è passati, linearmente, alla mercificazione della cultura. Questo dobbiamo ripensarlo. Sono le nostre discariche vicine e lontane che ce lo chiedono. Persino tutta questa discarica del senso che ci ha consegnato il cosiddetto post-moderno dimostra in fondo una mancanza, un dolore nascosto, anestetizzato più che esorcizzato, annullato più che ritualizzato.
Questo per dire che qualità non è possesso, una eudemonia: la qualità non si possiede, ma si produce, si narra, si propaga, si consegna e si perpetua, potendo guardare al di là del presente. Adesso speriamo che il parallelismo sia chiaro, anche se il rapporto vita/letteratura è obliquo, necessariamente inclinato, mai verisimile: la qualità letteraria è un insieme di forze che producono un effetto d’intensità, una durata che garantisce la possibilità di trasmissione. Effetto sul lettore, effetto sulla comunità, effetto sul futuro. Non è solo una questione di stile, ma di efficacia di stile. Per questo, la qualità letteraria sta, e a un tempo non sta, nella forma libro. Forma che molti (non noi) sono pronti a demolire o sorpassare, senza riuscire a pensare alla transmedialità originaria della letteratura, dalla lingua schioccante degli aedi alle USB roventi dei piccoli editori.
La qualità è così la capacità del libro, del romanzo, del poema, di prefigurare il futuro, uscendo da se stesso, uscendo dal proprio presente statico e cristalizzato del linguaggio e del desiderio. Qualcosa di molto vecchio e di molto nuovo. Senza per questo dimenticare il passato, anzi, rinnovando il desiderio di comprenderlo in quello che chiamiamo memoria. Già, la memoria: in Italia pare solo il nome dato al tour di un gruppo di partigiani, che vanno affaticati, di liceo in liceo, a rammentare i combattimenti su per i monti, le rupi e le brumose vallate. Già, l’Italia… Oggi più che mai, parlare di qualità letteraria in Italia, ancora senza snobismo e pretese decadenti, esotico-esoteriche, significa enucleare una serie di topic-salvagente non del tutto inutili anche per quello che si chiamerebbe condizione di vita (almeno nel Bel Paese). Il parallelo qualità letteraria-qualità della vita potrebbe diventare un’istruzione. Visto che paiono saltati da tempo i parametri di distinzione tra reale e finzionale, almeno dobbiamo trovare una strategia sostenibile per muoverci in queste ambiguità, un efficacia che ci permetta di distinguere. Non opere efficienti, che fanno il loro bravo lavoro di decalcomania feticistica della realtà, che rispettano il lettore e il suo mondo di agi e ombrelloni, ma opere efficaci.
Perché, allora, in Italia, dovrebbe esserci necessità di opere letterarie qualitativamente intense e durature? Perché in Italia c’è una voragine chiamata: carenza di immaginario, collettivo e individuale. Chiamatela tedio, noia, apatia, ma si sta verificando un’atrofia dell’immaginario che molti non possono o vogliono scorgere, perché hanno disimparato a dare valore al concetto di qualità. Dobbiamo però reinventare il nostro immaginario, ovvero il nostro modo di compensare la refrattarietà delle cose italiche con la creazione verbo-visuale, il nostro modo di sfogliare l’opacità delle cose presenti, e guardare oltre, dietro il muro dell’oggettività. E questo andrà inevitabilmente a scalfire la nostra identità tradizionale, un’identità che deve avere una durata. Oggi la letteratura, almeno in Italia, è una forma di sopravvivenza, una consegna al mittente da non mancare.
Carenza d’immaginario, carenza d’identità, carenza di qualità. Carenza di futuro. Non osiamo immaginarci il futuro italico, ma siamo stanchi d’incipriare il presente. La qualità della nostra vita dipende anche dalle opere che i nostri autori coevi sanno e pretenderanno di produrre. Questa è la responsabilità che ci si presenta davanti. Si deve tentare, rischiare tutto, reinventare un linguaggio, captare le emergenze — cioè quello che viene fuori da questi tempi, e manca ancora di parola. E prefigurare le nostre nuove facce, desiderando e recuperando le facce altrui, la nostra tradizione polverosa. Facce di un passato che, oramai staticizzato tra monumenti impercettibili, libri di testo e retoriche varie, ci spinge sempre più verso un futuro già pari a: zero.
Intensità e durata, si è detto. Se azzardiamo ad applicarle a una visione magnetica — da campo magnetico — delle opere letterarie, queste prevedono spostamento. Lo spostamento prevede adattamento creativo della forma, ovvero metamorfosi. Questa, lo si è detto fino alla nausea, è una delle qualità costitutive del romanzo, il prodotto della sua origine epico-orale (dispersione assoluta e semina della sua avventura), del suo ibridare generi (il romanzo è un grande cannibale, una tessitura aperta come la tela navajo dell’Emilio Cecchi in Messico), del suo pensare e criticare se stesso (il romanzesco che guarda se stesso, Don Quijote che legge le sue avventure stampate), cercando di acciuffare senza tregua allo stesso tempo quel Reale traumatico che stiamo vivendo — il fantasma della cibernetica calviniana, che non si vede, ma pressa. E, prima o poi, ritorna.
Perché dire Italia oggi cosa significa? Non è qualcosa che ha a che fare con il dolore spettacolarizzato di una progressiva mancanza di qualità di vita? Italia è un’espressione senza referente, un sipario desiderante senza scena desiderata, ma con molti mésententes e différends, disaccordi e dibattiti, con tante tracce e traumi da esplorare. Per questo c’è forse il bisogno di tentare opere metamorfiche, mutanti e cosmiche, che tocchino il cielo universale per riflettere la piccola zolla particolare e redimerla, emisferi dove la nostra faccia — perché noi, italiani, con l’identità, ci rimettiamo pure la faccia — si possa rispecchiare deformata, per scorgere i cambiamenti dei connotati e delle costellazioni, domani. Lavorando di fantasia, irrispettosamente, anche sulla nostra Storia senza capo né coda.
Parlare di romanzo, o di racconto in prosa, di per sé è parlare di qualcosa che non è, ma che sarà, qualcosa di volto al futuro anche se scritto nel passato remoto. Parlare senza timore di qualità, oggi, nella nazione italiana, parlare di complessità, come fanno altri in altri frangenti da altre prospettive, parlare di avventura (come metamorfosi, durata e intensità del nostro raccontare e come potenza dell’immaginario), significa avere fiducia, non solo in noi stessi (cosa che da tempo ci manca), ma anche nella durata della parola. Significa auspicare un futuro duraturo, ma non per questo conservativo, della nostra identità. Un futuro parzialmente libero, temporaneamente autonomo. Diciamo durata, non necessariamente ripiego morale o moralistico della parola. Responsabilità della posta in gioco, non civismo sbandierato e, quindi, spettacolarizzato.
Le nostre opere, in questo orizzonte di senso in modificazione repentina, saranno l’arco perfetto e intagliato pronto a risuonare, la freccia sarà il nostro occhio critico pronto a fendere l’aria, la qualità sarà l’intensità con cui tiriamo la corda e lanciamo. Seppure nel disastro dell’immaginario italiano, un punto d’appoggio e un tentativo per essere buoni arcieri ancora dobbiamo e possiamo farlo. Anche da una posizione sbilenca, minoritaria, ridicolmente caparbia.