di Fabrizio Lorusso
La violenza in Messico è uno dei temi più controversi e discussi da sempre, e la dichiarazione di guerra al narcotraffico da parte del presidente della Repubblica Felipe Calderon, in carica dal dicembre 2006, ha diffuso internamente e all’estero l’immagine di un paese dove si muore molto facilmente. Sulla stampa siè affermata l’idea di una progressiva “colombianizzazione” di molte regioni del paese. Inoltre la familiarità con la morte, con le sue raffigurazioni e il suo culto in miriadi di forme ed espressioni diverse, rappresenta elementi culturali molto vivi nell’identità messicana e nell’immaginario trasmesso all’estero.
La politica di mano dura annunciata da Calderon tre anni fa sembra avere scatenato una guerra incontrollabile e i principali quotidiani messicani, come El Universal, La Jornada e Reforma, fanno a gara per aggiornare il conteggio degli omicidi legati al narcotraffico, che quest’anno superano già abbondantemente i 6000, con una media giornaliera di circa 20 morti. In generale c’è molto pane anche per i giornali più scandalistici come El Grafico, dove non mancheranno mai foto di sgozzati e decapitati da esporre in prima pagina per vendere qualche copia in più.
Per quest’anno lo Yucatan, nel sud est del Messico, è l’unico stato su 32 (i cosiddetti estados della federazione messicana) non colpito da questa guerra, il che non significa che non vi sia presenza alcuna dei cartelli della droga, ma solo che questi non hanno provocato morti violente certificate. Comunque manca ancora del tempo per la fine del 2009 e quindi dobbiamo attendere prima di festeggiare quest’eccezione. Ha più del paradossale dover segnalare proprio l’unica regione senza vittime. Altre cifre ritenute allarmanti: oltre 15mila e 500 morti dall’inizio del mandato di Calderon sono “vincolati al crimine organizzato”, mentre il loro numero totale durante i sei anni precedenti di Vicente Fox, dal 2000 al 2006, era stato di 13mila. Si stima quindi un possibile raddoppio nel sessennio attuale di Calderon in base a queste cifre del Ministero della Difesa messicano e della Procura Generale della Repubblica.
Ma quali sono le dimensioni e i dati reali della violenza in Messico? Quali sono le vere responsabilità del governo, della magistratura, dell’esercito e della polizia in questa “guerra ai narcos”, al di là dei miti creati dalla stampa e dalla risonanza che si dà per esempio agli assassinii di cantanti famosi o alla decapitazione dei nemici, magari dopo averli freddati con un cuerno de chivo (fucile AK47 ormai mitico, forse assimilabile alla nostra lupara)?
Due interessanti studi di Fernando Escalante Gonzalbo ed Eduardo Guerrero Gutierrez, pubblicati dalla rivista messicana Nexos di settembre, aiutano a fare chiarezza sulla questione della violenza e del narcotraffico in Messico e aprono alcuni spiragli per la comprensione di un fenomeno così complesso e articolato. I dati statistici disponibili per il Messico, nonostante non siano sempre attendibili al 100% e costituiscano quindi un’approssimazione al fenomeno della violenza, smentiscono le affermazioni dei giornalisti e di parti dell’accademia, da destra a sinistra, che in qualche modo forzano i termini del paragone con la Colombia della fine degli anni ottanta e inizio anni novanta.
La Colombia è arrivata infatti ad avere una reputazione internazionale stereotipata come un paese completamente in mano alla guerriglia, ai paramilitari e ai narcotrafficanti ed è quindi un paradigma immaginario della violenza politica, sociale e militare. Forze che da una parte hanno senza dubbio prodotto migliaia di morti, milioni di rifugiati e miseria, ma dall’altra non hanno definitivamente “vinto” instaurando un’alternativa allo Stato o creando uno stato fallito. In pratica e semplificando un po’ il discorso, i vantaggi comparati internazionali della Colombia, parafrasando l’economista David Ricardo e un mio precedente articolo sul tema, sarebbero le ragazze, la cocaina e la salsa oltre ai più classici prodotti della terra come le banane e il caffè, e magari qualche città turistica come Cartagena o Popayan: verità evidentemente parziali e scandalistiche.
In questa nube di realismo magico e influenza mediatica è giocoforza paragonare costantemente un paese come il Messico di oggi alla Colombia di ieri, anche grazie ad alcune indiscutibili somiglianze tra i due paesi: la forza dei cartelli di narcotrafficanti e la scarsa presenza dello Stato in alcune regioni, le grandi coltivazioni di marijuana e cocaina, i presidenti provenienti da partiti conservatori alla destra dello spettro politico, la corruzione politica e i suoi nessi con i paramilitari o i narco-capi, la crescente militarizzazione del territorio o anche la relazione speciale con gli Stati Uniti, che li considerano paesi amici, ma anche da tenere sotto controllo per motivi di “sicurezza nazionale”.
Non importa se poi queste somiglianze potrebbero essere trovate anche con molti altri paesi o realtà regionali quali quelle che viviamo nella nostra Gomorra, in America centrale o in certe periferie cittadine statunitensi o parigine. Inoltre nel Messico attuale non esistono minacce sistemiche importanti come lo erano le guerriglie storiche colombiane (FARC, ELN, M-19) negli anni 80 e 90 o i potenti gruppi paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia).
Quello che sembra contare è la suggestione solo parzialmente giustificata dai fatti. Tra il 1990 e il 1993 il tasso di omicidi in Colombia era tra le 75 e le 79 unità per 100mila abitanti, con totali che si aggiravano intorno ai 25-28mila morti all’anno. Nel Messico del 2008 questi tassi equivarrebbero a circa 84mila omicidi, infinitamente meno di quelli effettivamente registrati l’anno scorso.
Il tasso di omicidi ogni 100mila abitanti e il loro numero totale in Messico sono scesi costantemente dagli anni novanta in poi, passando da una media di 15-16mila all’anno nel periodo 1990-1995 a una media di circa 10 mila nel 2005 e 2006, con un punto minimo di 8507 morti nel 2007, che significano una media di 8 omicidi per 100mila abitanti.
La media messicana è quindi più comparabile con quella di paesi come gli Stati Uniti e quelli della UE che con quella di altri paesi latinoamericani come Colombia, Venezuela e Brasile o il Centro America, che viaggiano dai 20 ai 40 omicidi per 100mila abitanti. Per altri crimini come la rapina, il furto, i delitti sessuali e le aggressioni i dati non sono chiari come nel caso degli omicidi, però si può segnalare che oscillano su medie di poco superiori rispetto a quelle dei principali paesi industrializzati.
Un caso un po’ a parte che però potrebbe rivelarsi tragicamente paradigmatico è quello del sequestro di persona che, sebbene nelle cifre ufficiali sia diminuito drasticamente in dieci anni passando da oltre mille casi nel 1997 a 595 nel 2007 e 438 nel 2008, potrebbe essere un problema molto più grave e situare il Messico al secondo posto mondiale dopo la Colombia per i sequestri, se si considera la cosiddetta “cifra nera”, cioè i casi non denunciati o che non danno origine a un’indagine. In questi casi, dato che le stime di questa “cifra nera” si aggirano negli ultimi anni intorno all’80-90%, ecco che i sequestri potrebbero essere addirittura cinquemila e non così pochi come vengono censiti ufficialmente. Inoltre i casi di “sequestro express”, una modalità di privazione delle libertà particolarmente diffusa a Città del Messico, che prevede un furto alla vittima ripetuto durante alcune ore di notte per obbligarla a prelevare più volte e il più possibile nei bancomat, non vengono contabilizzati in questa fattispecie, riducendo di fatto l’impatto delle cifre.
Più che il numero assoluto, quello che fa notizia è la connivenza delle autorità poliziesche e giudiziarie con i delinquenti, rese evidenti da alcuni casi recenti ed eclatanti di sequestri che hanno coinvolto famiglie potenti come i Martì e i Vargas, vessate da bande di sequestratori di cui facevano parte anche poliziotti ed elementi deviati del potere giudiziario. La percezione generale della gente è perciò sensibilmente adulterata e instabile a causa dell’influenza dei mezzi di comunicazione che drammatizzano i casi specifici, e per le spiccate differenze tra regioni e città messicane che mostrano livelli di pericolosità spesso molto estremi e divergenti tra di loro.
A ogni modo i tassi di omicidio colombiani attualmente sono addirittura il quadruplo di quelli messicani, anche se oggi siamo nel mezzo della “guerra contro il narcotraffico” decantata da Calderon come soluzione dei mali di questo Messico lindo y querido minacciato “da forze antipatriottiche”. Chi ha ragione, quindi?
Da quanto discusso finora emerge che in Messico gli omicidi totali e la violenza estrema sono diminuiti tendenzialmente nel paese considerato come un tutt’uno, ma i morti legati al narcotraffico e alla guerra tra i cartelli rivali e poi tra ciascuno di questi e lo Stato sono invece aumentati drammaticamente nel primo triennio di governo di Calderon.
Un altro discorso è poi distinguere tra varie zone del Messico colpite dal crimine organizzato e dagli omicidi in modi e livelli radicalmente diversi: da una parte ci sono le grandi città e, in particolare, quelle della frontiera con gli Stati Uniti e la grosse metropoli come Città del Messico, Guadalajara e Monterrey, in cui la tensione è generata storicamente dalla crescita smisurata della popolazione e, lungo la frontiera, soprattutto dal commercio di stupefacenti e dal suo indotto; dall’altra ci sono le zone rurali soprattutto nel centro-sud, con gli stati di Guerrero, Oaxaca, Michoacan, Estado de Mexico e Morelos, che hanno una dinamica diversa da altre regioni rurali e dalle città grandi, in quanto qui la violenza è stata determinata principalmente dalla mancanza delle istituzioni, delle infrastrutture, dei trasporti, scolastiche e sanitarie, oltre che da motivi storici come la crisi della riforma agraria e dei regimi di proprietà della terra. Come aspetti sicuramente comuni e più generali cito tra gli altri la povertà sofferta da oltre il 50% della popolazione nazionale, l’altissimo tasso d’impunità per i crimini denunciati che s’aggira intorno al 97% (stima ottimista), lo scontento verso la politica e il sistema giudiziario e gli insultanti indici di disuguaglianza economica e sociale che caratterizzano tutti gli stati del Messico.
Un altro dato certo è che la guerra al narcotraffico lanciata dal presidente messicano, forte del piano di aiuti militari americani chiamato Plan Mérida, non sta dando i risultati attesi in termini di sicurezza e riduzione dei fenomeni criminali, ma sta anzi esacerbando le lotte intestine tra i grandi cartelli di trafficanti, le loro bande di sicari e i gruppi usciti dalle numerose scissioni e tradimenti, che lo Stato stesso favorisce con infiltrazioni e catture.
La corruzione e la scarsa professionalità delle forze dell’ordine, del personale penitenziario e giudiziario nascondono e a loro volta amplificano il problema di fondo che nessuna autorità sembra voler vedere e risolvere, tanto qui in Messico come nei vicini Stati Uniti: la mancanza assoluta di opportunità economiche e di sviluppo, la carenza quasi totale di istituzioni affidabili, di reti sociali e di un sistema educativo elementare e superiore realmente efficace e accessibile. Non parliamo poi delle politiche volte a controllare e reprimere l’offerta e la produzione di stupefacenti illegali, mentre da decenni ormai si segnala che le misure più efficaci – e comunque meno nocive per la società in termini di violenza e dispendio di risorse nel lungo periodo – sono quelle di sensibilizzazione della domanda e controllo della vendita, eventualmente anche grazie a una progressiva liberalizzazione. Ma sappiamo che questo è un altro discorso, e rappresenta spesso un tabù doloroso per ampie parti di società civili e classi politiche ipocrite e immature, tanto in Messico come in Italia, incapaci di trattare il tema per quello che è e di tracciare un bilancio non ideologico tra i costi e i benefici di queste alternative.
Si stima che le cifre, contabilizzate con scrupolo dai giornali, sui morti legati al narcotraffico e alle bande criminali in Messico siano addirittura inferiori di un 20-30% rispetto alla realtà, dato che non si tengono da conto i cadaveri spariti e alcune aree del paese non sono “coperte” né dalla stampa né da un sistema ufficiale di controllo che sia efficace al riguardo. Anche così bisogna separare i dati: l’aumento netto e inesorabile dei morti per la guerra al narcotraffico diverge dalla diminuzione tendenziale della violenza totale e degli omicidi in generale.
Alla luce di ciò e del quadro istituzionale precario, è chiaro che la repressione militare e l’indurimento della lotta contro i cartelli criminali hanno avuto l’effetto di aumentare la “narcoviolenza” nel paese e anzi, per essere precisi, solo in alcune zone di esso. Questa è praticamente assente in Baja California Sur, Queretaro, Tlaxcala, Campeche, Colima e Yucatan, mentre invece è aumentata terribilmente in altre regioni soprattutto al nord, sulla frontiera con gli USA, nel Michoacan e nel Guerrero, lo stato di Acapulco. Nello stato di Chihuahua, tristemente noto per gli assassinii incessanti di centinaia di donne in pochi anni, i cosiddetti feminicidios di Ciudad Juarez, si registra addirittura il 25% delle esecuzioni totali. Le città più mortifere in termini assoluti sono proprio Ciudad Juarez, Culiacan, Tijuana, Chihuahua e Monterrey, tutte al nord.
Un altro aspetto importante che sfata alcuni luoghi comuni su come si sta combattendo questa guerra è che il 90% delle esecuzioni totali riguarda i membri di bande e cartelli, circa il 9% le forze di polizia, in particolare i corpi municipali e regionali a volte collusi coi cartelli, e solo per l’1% i militari. L’uso dell’esercito era stato giustificato nel 2006 per evitare i problemi di corruzione della polizia, ma le violazioni dei diritti umani e l’effettivo aumento della tensione, delle rappresaglie e delle lotte interne ai cartelli non propongono assolutamente un panorama positivo. Nelle file delle bande criminali la maggior parte degli omicidi riguarda i livelli bassi, visto che sono colpiti soprattutto sicari, pusher e spacciatori di medio livello gerarchico.
In definitiva, quattro grandi fronti di guerra segnalati da Guerrero Gutierrez su Nexos, sono la causa del 90% degli omicidi legati ai narcos e si svolgono soprattutto in alcune zone del paese. Riassumendo si tratta della lotta di alcuni gruppi regionali contro un nemico comune di livello nazionale, il Cartel de Sinaloa, e nello specifico tra
(1) il Cartel de Juarez, aiutato dagli Zetas (in origine un gruppo di militari dissidenti braccio armato del Cartel del Golfo) e i fratelli Beltran Leyva, contro quello di Sinaloa;
(2) tra il Cartel de Tijuana, alleato qui con il Cartel del Golfo e gli Zetas, contro quello di Sinaloa;
(3) tra i cartelli degli Zetas, alleati coi Beltran Leyva, contro quello di Sinaloa e infine
(4) quella dello Stato contro tutti e contro le sue stesse schegge corrotte e deviate.
La guerra tra il Cartel de la Familia dello stato del Michoacan e gli Zetas o altre bande non risulta molto rilevante in termini di morti, ma può spiegare quanto rimane per concludere questo tragico conteggio.
Il governo ha avuto la funzione di propiziare e stabilire le regole del gioco senza poterlo poi controllare completamente, anzi, i livelli di violenza in questo senso sono cresciuti esponenzialmente e continuano a farlo dopo ogni cattura di qualche capo o il sequestro di ingenti quantità di droga.
Calderon e Medina Mora, discusso Procuratore Generale della Repubblica, hanno bisogno di mostrare numeri positivi in queste voci “dure”, però favoriscono allo stesso tempo un circolo vizioso da cui è difficile uscire: non si può di certo sperare di risolvere il problema facendoli ammazzare tutti tra di loro o creando ministati senza legge né governo, dove le garanzie individuali sono un lontano ricordo per tutti. Inoltre non si riescono a fermare nemmeno le diserzioni di militari che fuggono dall’arma per unirsi alle file del crimine organizzato. Si calcola che siano alcune migliaia gli ex militari a disposizione dei cartelli della droga, quindi lo Stato paga e forma l’esercito durante anni e i cartelli hanno poi a disposizione forze fresche e professionali che possono pagare profumatamente.
L’alternativa a una politica di mano dura, in questo contesto, passa da una parte attraverso un deciso processo di riforma istituzionale (e direi anche culturale) che combatta la corruzione e le infiltrazioni dentro il sistema, grazie alla professionalizzazione della magistratura e della polizia e a ingenti investimenti in strutture e risorse umane, e dall’altra da uno sviluppo umano, sociale ed economico complessivo che crei opportunità maggiori per la popolazione marginale. Prevedere rapidamente una politica meno repressiva che investa con continuità e sostanza sulla riduzione della domanda, la prevenzione e l’educazione resta, a mio parere, la via migliore da seguire. C’è da chiedersi quali siano realmente la forza e la volontà politiche di promuovere e attuare tali cambiamenti.