di Valerio Evangelisti
[Questo testo è l’introduzione al volume di Matthew Beresford Storia dei vampiri, edizioni Odoya, Bologna, 2009 (pp. 242, € 16,00). I lettori più affezionati di Carmilla riconosceranno alcuni brani di miei articoli già apparsi sul tema.]
Di tutti i mostri della letteratura fantastica, il vampiro è di gran lunga il più anomalo e affascinante. Intanto non piega le sue vittime per costrizione, quanto piuttosto per seduzione. E poi perché è quello che meglio si presta a un uso metaforico. Succhiare energie, alimentarsi delle forze altrui, fare di esseri viventi dei non-morti. Ognuno può immaginare facili parallelismi o accostamenti temporali più o meno azzardati. Tipo il fatto che il Dracula di Bram Stoker venga scritto tra la prima e la seconda rivoluzione industriale, quando intere comunità umane sono distrutte e rimodellate a fini puramente economici. In fondo il romanzo, trasferendo il nosferatu dalla Transilvania a Londra, fornisce un’involontaria sintesi di quell’evento storico.
Ma la valenza metaforica del mito vampiresco si adatta assai meglio ai nostri tempi. Che cos’è la seduzione se non una coazione dell’immaginario, forzato con arti sottili a trovare attraente un oggetto che può essere bello, ma può anche non esserlo, e persino rivelarsi mostruoso?
Se la rivoluzione industriale agiva con fredda brutalità nell’instaurare nuove forme di schiavitù, la rivoluzione produttiva odierna usa proprio la sfera dell’immaginario quale strumento per dissolvere e rimodellare comunità e modi di vita, rendendoli funzionali a un’economia più che mai politica. Sono finiti i tempi in cui il proletariato reclamava, fin dalle casse degli orologi Roskoff, otto ore per lavorare, otto ore per istruirsi e otto ore per riposare. Oggi né la sfera dell’istruzione, né quella dell’ozio, riescono a sottrarsi all’imperativo della strumentalità alla produzione. Succhiare energie è diventata la norma. Ma la seduzione elevata a componente di sistema ha attenuato la distinzione tra chi sulle energie altrui vive, e chi è costretto a concederle. Solo che questi, non essendo più padrone del proprio immaginario, spesso le concede gioioso, certo di partecipare alla festa generale. Come le giovani vittime di Dracula che, eccitate, gli porgevano il collo.
La nostra Transilvania odierna somiglia molto a quella che un certo Karl Marx chiamava l’epoca della sussunzione reale, in cui il capitale esercita il proprio dominio controllando ogni aspetto della vita dei propri subordinati. Ma chi ricorda più le definizioni di quel vecchio ebreo? Lasciamolo riposare nel suo sacello, e godiamoci l’era beata della seduzione. In cui, se siamo scontenti, ci sarà chi riuscirà a renderci egualmente felici, additandoci un fine superiore. Si trovano sempre fini superiori alla nostra vita concreta, si tratti della guerra di civiltà o dell’interesse nazionale.
Un discorso di tipo sociologico è tuttavia insufficiente a giustificare la persistenza del succhiasangue nelle fantasie collettive e nei media: simile vitalità ha un’origine molto più profonda. Il mito del vampiro, quale estrapolato da una congerie di leggende da Bram Stoker e sistematizzato nel romanzo Dracula, ha una chiara matrice cristologica sottoposta a distorsione. Se Cristo donava il sangue, Dracula lo prende; se Cristo conduce alla vita eterna, Dracula porta alla morte eterna (o, per meglio dire, alla morte eternamente vissuta quale forma di vita). Una quantità di altri paralleli sono possibili, come la croce che è per entrambi il segno di una “fine” provvisoria — ma che in Dracula, spaventato e ustionato dalle croci ma non ucciso da esse, si converte oscenamente nel paletto. Una precisa allusione, che il pudibondo Stoker si guarda dall’esplicitare, alla fama di “impalatore” goduta in vita da Vlad Drakul, divenuto Dracula appena passato alla condizione di non-morto e soggetto alla legge del contrappasso.
Non che Dracula sia un Anticristo. Non cerca veri adepti, non tenta di instaurare imperi terreni. Il suo scopo è piuttosto quello — anch’esso inversamente cristologico — di rapire al mondo che conosciamo il maggior numero possibile di anime, per trascinarle in un universo coesistente ma distinto, in cui siano schiave e strumenti. Un universo retto da rigide gerarchie feudali, con un solo signore e, sotto di lui, valletti ebeti e corpi servili. Da far morire per davvero non appena cessino di essere utili al tiranno.
Se questo è Dracula secondo Bram Stoker e i suoi migliori epigoni cinematografici, il discorso cambia radicalmente per ciò che riguarda il mito dei vampiri femminili. Intanto, le loro origini sono più antiche. Non solo il racconto Carmilla di Sheridan LeFanu, che disciplina la materia, è precedente al romanzo di Stoker, ma attinge a tradizioni più remote e molto meglio identificabili. Per trovare dei succhiasangue davvero simili a Dracula, nelle leggende popolari o in presunte trattazioni “scientifiche” di varie parti d’Europa e del mondo, non possiamo spingerci più indietro del XV secolo. Invece di donne che si alimentano del “sugo della vita” (per citare il titolo di un saggio di Carlo M. Cipolla) ne troviamo a bizzeffe. A partire dall’archetipo ebraico Lilith, curiosa creatura che ha ogni prerogativa della donna ma che odia la maternità, tanto che rapisce neonati e li dissangua, pronta a ghermirli accanto al letto della partoriente.
Con Lilith la più famosa delle vampire, Carmilla, condivide almeno una caratteristica: è una creatura femminile che non partorisce, che non trasmette sangue ma ne prende. Non c’è in lei nulla di cristiano, nemmeno per antitesi: non è né una Vergine Maria né una Maddalena alla rovescia. Piuttosto può richiamare alla mente taluni rituali misterici, in cui donne inebriate celebravano la negazione della maternità divorando feti (secondo letture cristiane da prendersi con precauzione, tanto che riti simili vennero ugualmente attribuiti ai Barbelognostici e alle cosiddette streghe).
Sta di fatto che la vampira, e Carmilla in particolare, a differenza di Dracula si radica nel paganesimo. Il solo fatto di essere al tempo stesso donna e protagonista allude a questa radice. Carmilla non è uccisa dal sole né da alcun elemento naturale (quale è l’acqua che scorre in alcuni Dracula cinematografici); e quando sceglie la notte, questa non è, come per l’impalatore, una versione dell’inferno, bensì il regno tutto femminile della luna. Se poi si trasforma in animale, la sua forma non è quella del pipistrello o del lupo (antitesi dell’Agnello di Dio), bensì quella del gatto, archetipicamente legato al sesso femminile e largamente celebrato nei culti pre-cristiani.
La vampira è dunque la figura più “sovversiva”, in forza dei miti che la alimentano, della letteratura horror e del cinema che ne è derivato. Morta eppure quanto mai viva, portatrice di una sensualità che — esplicita o sottintesa che sia — è comunque dirompente, svincolata da religioni e subordinazioni (anche se taluni film della Hammer, con una trovata a ben vedere intelligente, le mettono accanto un padre che è un simil-Dracula), rischia di fare adepti tra altre fanciulle, come la timorata Laura del racconto di LeFanu. A questo punto, è un intero comitato di benpensanti che decide di ucciderla in via definitiva. Non con un paletto, ma con il taglio della testa. Unico modo di sopprimerne la capacità di seduzione.
Il volume di Matthew Beresford non affronta esplicitamente nessuno dei temi che ho riassunto: né il vampiro maschile quale metafora del capitalismo nella fase di accumulazione (menzionato di sfuggita), né quello femminile quale allusione a una pagana rivolta sessuale contro il cristianesimo. Ha tuttavia il merito di compiere un’audace, competente e, a volte, un po’ disordinata scorribanda attraverso le varie letture della leggenda vampiresca, narrative, cinematografiche, persino cronachistiche (ancora oggi, nella sedicente “cronaca vera”, i casi di vampirismo restano numerosi).
Cose che comunque bisogna conoscere, prima di addentrarsi nella ricerca di ciò che, spaventando, riesce ad affascinare. Secolo dopo secolo dopo secolo.