di Marilù Oliva
Queste non sono successioni di recensioni, ma spunti di riflessione sul lavoro più recente di Elisabetta Bucciarelli, a partire da Femmina de luxe – uscito nel 2008 nella collana Babele Suite di Perdisa Pop – per concludere con Io ti perdono (Kowalski, 2009). Perché il leitmotiv che unisce le due opere è in primis il personaggio letterario della Bucciarelli, Maria Dolores Vergani, ispettrice con gli occhi da cinesina, una donna tutta d’un pezzo che ama profondamente l’Arte e i pastori tedeschi, ex psicologa ora ispettore di Polizia, devota alla verità più che alla giustizia e, come l’ho altrove definita, “single un po’ per vocazione un po’ per incroci sbagliati di destini diversi, poco socievole e meno ancora cerimoniosa, schiva rispetto agli eccessi, severa con gli altri non più di quanto lo sia con se stessa, difficilmente incline alle seconde chances.”
Ma non solo. La Vergani non è l’unico trait d’union tra l’ultimo e il penultimo lavoro di questa scrittrice milanese. L’altro è quello che, molto blandamente rispetto all’importanza del tema, potrei definire “l’introspezione nel femminile”, ovvero la propensione della scrittrice a scrutare l’universo-donna in tutte le sue variabili, applicando tale propensione, per esteso, a ogni eroina o antieroina, perfino alle comparse. E le variabili sono tante: aneliti, ripensamenti, ubicazioni indesiderate, incertezze nei rapporti, insicurezze fisiche, dubbi, esistenze irrisolte, crescite interiori, ovvero tutto quello che, prendendo l’aggettivo sentimentale nell’accezione etimologica di “risalente al sentimento (da sentior latino)”, si potrebbe circoscrivere alla locuzione: l’educazione sentimentale delle donne.
Prendiamo una donna, una a caso. La prima che incontriamo in Femmina de luxe, un titolo che sa di eleganza, sensualità, bellezza stereotipata. Ma la prima donna che la lettura ci rende immaginifica non risponde ai canoni d’immagine femminile propinati dai media, è una creatura fatta di ciccia e d’istinto che cammina per strada e parla da sola, occhi da cerbiatta, Olga la morbida, vestita old fashion e volant, un corpo che si riconosce soprattutto nelle sue curve e che ha voglia impellente di un uomo. Olga non si preoccupa del suo peso, non è a disagio, l’urgenza è un’altra. Olga rappresenta la fame d’amore. O, meglio, l’illusione dell’amore. Un’illusione allo stato purissimo, così candida che non verrà contaminata dal male neppure quando il male la imbroglierà coi suoi modi meschini. Anche in Io ti perdono il femminino sarà quello della Vergani ma non solo: si estenderà a quello delle donne di tutti i giorni, mogli, madri, un prototipo variegato di donna che converge, come ha dichiarato l’autrice, in “un’identica matrice che declina la paura e il femminile in modi differenti.”
Infine vorrei concludere camminando lungo l’ultimo sentiero che, come una strada in pendenza, collega le due opere cronologicamente: l’osservazione del male come materia d’indagine, un male onnipresente che è istinto brutale, sopraffazione, frustrazione, ma anche grettezza e invidia. Un male che da piccoli gesti liberatori o di compensazione (mi riferisco all’Attaccastronzi di Femmina de Luxe o al Trinciacapelli di Io ti perdono) assurge a male assoluto, totalizzato dalle azioni umane che sono fatte di artificiosità (liposuzione), deviazione e vendetta. Incorreggibile questo male, sempre in agguato, infido. E’ approdando a Io ti perdono che l’autrice dimostra che il male sarà pur sempre uguale a se stesso, potente con la sua carica di danno e d’infelicità, ma ciò che può cambiare è la risposta di chi lo riceve. Un’inversione di prospettiva, da uno stadio di odio e soggezione la vittima – o il vicino/parente della vittima – può cambiare posizione e non si tratta di questioni solo altruistiche. Un’azione al transitivo, come i verbi che transitano, appunto, dal passivo all’attivo. La Bucciarelli non si addentra in questioni metafisiche sull’invincibilità del male, non è questo che interessa. Ma fa scorgere all’orizzonte un messaggio di pace. Una pace che non sussiste insieme al rancore e, al di là dell’assioma che il male è connaturato all’uomo, il fatto di misurarsi con la sua portata dimostra che non è poi così inscalfibile e che l’evoluzione, se non arriva dall’esterno, la si può sempre cercare nei meandri della propria umanità.