di Maria Silvia Avanzato
[Maria Silvia Avanzato tornerà spesso su Carmilla. Pur avendo vinto diversi premi è ancora inedita. Le sue storie dimostrano un talento naturale di scrittrice. Da pochi giorni ha un suo blog.] (V.E.)
“Insomma, mi conosci, io sono il tipo che lavora sodo.”
Questa frase, sulla bocca ancora fresca di latte materno di Simon Pike, suonava sgradevole come non mai. Masticava una delle sue gomme all’eucalipto, inondando il furgone di un aroma rinfrescante quanto intollerabile: nel parapiglia di odori, si distingueva anche quello dolciastro del suo shampoo e quello tabaccoso del suo dopobarba. Io, che sono davvero il tipo che lavora sodo, mi limitavo a guidare in silenzio.
Simon Pike era un rampollo, di trent’anni al massimo, e indossava una sciarpa che non avrei potuto permettermi, nemmeno accumulando gli stipendi di una vita intera. Capelli biondo grano, frutto di colpi di luce ben mirati, viso pulito e sbarbato a puntino, guardaroba da fotomodello in erba e una fila di denti così bianchi da accecare. Mi arrovellavo spesso su una questione, era il mio consueto dubbio: mi chiedevo perché mai il Capo avesse assunto un così insignificante marmocchio per la Gita di Paese.
Avevo sulle spalle quattordici anni di servizio per Tele Miranda e non c’era nulla che non sapessi, quando si trattava di starsene dietro una macchina da presa. Certo, non era una grossa emittente, ma aveva un suo piccolo e fedele pubblico e, comunque, era un lavoro sufficientemente dignitoso. Almeno, lo era abbastanza da permettere a mia moglie di spettegolare con le amiche dicendo che “suo marito lavorava in televisione”. Si, io lavoravo sodo e “lavoravo in televisione”. Tuttavia, non una sola volta il mio viso era apparso sullo schermo: ero sempre rimasto dietro a quella dannata telecamera, interrogandomi sulla “luce giusta” e facendo il diavolo a quattro per ottenere un piccolo spazio tutto per me. Il Capo l’aveva promesso, quattordici anni prima, al momento dell’assunzione. All’epoca disse che avrei condotto una striscia serale sullo sport, se mi fossi dimostrato bravo alla telecamera. Invece, mi ero ritrovato alle prese con l’apparecchio per milioni di puntate e mi ero rassegnato a essere il silente spettatore del successo altrui.
Di teleconduttori ne avevo dovuti inquadrare parecchi: prima quel Bosnova, un torinese stempiato con la erre moscia. Lo avevano messo a condurre un quiz serale e l’audience era piovuta sotto lo zero, nel giro di un mese. Quando lo misero alla porta con una bella pacca sulla spalla, io cominciai a leccarmi i baffi: l’avrei sicuramente rimpiazzato, perché questi erano gli accordi. Invece no. Il mese dopo era arrivato un certo Max Nonmiricordocosa: un buffo omino dai capelli rossi e gli occhiali da vista spioventi sul naso. Ebbene, lui era piaciuto. La redazione l’aveva subito messo a condurre Storia Locale, il programma di punta della rete. Dopo sei anni, il programma era stato ribattezzato Gita di paese e io avevo seguito l’insopportabile Max in giro per le più disparate regioni d’Italia. Ammetto che, in certi casi, avrei voluto spingerlo giù dal furgone con un calcio. Specie in Abruzzo quando, per raggiungere la Maiella, percorremmo una stretta strada a filo del dirupo.
Non ci fu bisogno di scaraventarlo nel vuoto, alla fine. Ebbe la geniale trovata di togliere l’incomodo per suo conto, facendo una bella scorpacciata di funghi avvelenati durante lo speciale Boschi del Trentino. Gli avevo detto che era meglio chiedere ai locali se i funghi fossero commestibili o meno, ma lui insistette per portarsene a casa un bel cestino, in previsione di una cena a base di polenta. Fu l’ultima polenta della sua vita. Quando anche Max si fu tolto di mezzo, indossai la mia migliore camicia e bussai alla porta del Capo. Non lo trovai solo, ma in compagnia di Simone Piccozza, in arte Simon Pike. Scoprii, quindi, che avrebbe preso il posto di Max e naturalmente protestai, s’intende. Il Capo, tuttavia, non mi diede molto peso e tagliò corto dicendo che “io ci sapevo fare con la telecamera e avrei fatto meglio ad occuparmi di quella”. Gita di Paese era un programma a puntate, da due ore l’una, e non brillava per originalità: ci si recava nei borghi più sperduti dello stivale, interrogando gli agricoltori sui loro usi e costumi. Insomma, un gioco da ragazzi che avrei saputo condurre sicuramente meglio dell’abominevole Simon Pike, appena sfornato da una qualsiasi Università e ancora incerto sulla corretta coniugazione dei congiuntivi.
Dovetti abbandonare i miei pensieri e affidarmi ad una cartina, mentre Simon ruminava la sua gomma con ferocia, emettendo suoni a dir poco disgustosi.
“Che succede, vecchio?” domandò, sporgendosi verso la mappa. “Non ci saremo mica persi? Dai, vecchio, siamo già in ritardo! Vedi di far filare dritta questa carretta!” L’aggettivo vecchio era assai caro a Simon: per quanto io avessi appena cinquant’anni, egli amava chiamare tutti a quel modo, sottolineando la sua età spudoratamente giovane.
“No, la direzione è giusta” risposi io, senza degnarlo di uno sguardo. “Saremo a Santa Benedetta in Marcipe fra poco.”
“Gran nome, eh? Sembra un nome di una chiesa famosa!” rispose quell’essere decerebrato, aggiustandosi i jeans all’ultimo grido. “Insomma, come ti dicevo, io lavoro alla grande. Cioè, questa rete televisiva è pietosa, siamo d’accordo. Però, da quando sono arrivato, vi ho dato una bella spinta. Ci sono dei picchi d’ascolto, vecchio! Tutto merito mio, sai? Io buco lo schermo, lo sanno tutti. Anche quando facevo la soap opera su Canale Totale… mi scrivevano pure delle lettere d’amore!”
Fingermi interessato sarebbe stato doveroso, ma trovai più semplice annuire, senza alcun interesse.
“Tu l’hai mai vista la soap opera? Turbamento d’amore, su Canale Totale… mai sentita nominare? Andavamo in onda verso le tre del pomeriggio!”
“Forse mia moglie l’avrà vista…” dissi io, tanto per non sembrare impreparato alle sue domande.
“Be’, è ovvio! Sai quante casalinghe frustrate se la guardano, ogni giorno? Voglio dire, passano le giornate a preparare lo stufato per il marito, ma, sotto sotto, si immaginano una vita diversa… sì, dai, ci siamo capiti, no? Qualcuno che le sappia soddisfare. Magari il marito torna a casa stanco e non le guarda nemmeno. Invece, nella soap, c’erano dei fusti con un fisico esagerato! Io ero quello più prestante, ovviamente. Ho fatto palestra per anni, è difficile arrivare al mio livello.”
Il fatto che mia moglie fosse stata immediatamente catalogata come una vogliosa casalinga frustrata non mi allettò molto, ma rimasi in silenzio per permettergli di raccontare il resto della sua delirante storia.
“Vedi, vecchio, non c’erano scene di sesso esplicite, però una volta… insomma, mi capita di girare una scena con questa attrice che, ti giuro… adesso non mi ricordo il nome… ah si! Si chiamava Dolly Sweetlove, ma non so se fosse un nome d’arte…”
Mi domandai come potesse dubitarne.
“Comunque, ci ritroviamo a girare ‘sta scena qui. Io recitavo nel ruolo del veterinario, sposato con sua sorella. Lei mi porta il cane in ambulatorio e mi dichiara il suo amore. Intendiamoci, questa era un metro ottanta, capelli neri, due cosce…”
Un sasso sulla strada fece sobbalzare il furgone e ringraziai Dio: quando Simon si fu ripreso dallo spavento aveva perso il filo e, quantomeno, mi risparmiai i commenti alle cosce di Dolly Sweetlove.
“Per farla breve, giriamo questa scena nell’ambulatorio. Io, ovviamente, avevo il camice. Lei aveva una camicetta di raso verde che…”
Non seppi mai che cosa suscitasse quella camicetta nell’animo adolescenziale di Simon Pike. La cittadina della Calabria conosciuta come Santa Benedetta in Marcipe si rivelò alla nostra sinistra, lasciandoci per un istante senza fiato.
Sembrava uscita da una vecchia cartolina anni Trenta e lasciava un senso di mistico rapimento nel cuore: non solo era completamente deserta, ma tutto la faceva apparire come incastrata. Sembrava costruita laddove non c’era sufficiente spazio, laddove Dio non aveva provveduto a creare un piccolo angolo vuoto. Le case si addossavano una all’altra, straripando sui muri di quelle adiacenti, costipate come pedine di un domino in una minuscola scatoletta. L’intero paese era scavato nel tufo, barcollante, storto, miniaturizzato. Ogni finestra esponeva fieramente il suo stendardo di panni stesi: corde di spago, sovraccariche di biancheria linda e calzini ondeggianti. La piazza era muta e fredda, come se una legge non scritta avesse imposto a tutti il voto del silenzio, congelando i colori e attutendo i suoni. Sui ciottoli chiari, si intravedevano soltanto alcuni maiali neri: erano grossi e tenevano il capo chino, attraversavano la piazza correndo e lanciavano qualche sporadico grugnito.
“Hai visto, vecchio? Un cinghiale!” esclamò Simon Pike, preso dall’emozione.
Spiegargli che non si trattava di un cinghiale sarebbe stato troppo lungo e impegnativo. Presi il foglietto che avevo riposto nel cruscotto e lessi il nostro indirizzo di destinazione: Azienda Agricola Crea, Largo Rondine, 50.
Senza perdere troppo tempo, misi in moto il furgone e ci gettammo in una stradina in pendenza, retrostante la piazza. L’Azienda Agricola fu piuttosto facile da localizzare: era una costruzione in tufo annerito e spiccava fra i grossi alberi come un gufo, con il grande tetto spiovente fra i rami e le finestre spalancate, al pari di occhi. Sembrava che, in quella casa, la parola d’ordine fosse “aria”: non solo le finestre aperte ne inghiottivano molta, ma anche il cancello d’ingresso sbatacchiava, mosso dalle impalpabili dita del vento. Una tovaglia a fiori garriva, appesa a una fune.
Dava l’idea di essere una casa vuota, abbandonata in gran fretta dai suoi abitanti e lasciata in balia di un imminente temporale. Parcheggiai accanto all’ingresso, mentre Simon si gettava fuori dal furgone e correva a bussare alla porta, come se fosse appena arrivato in discoteca e fosse ansioso di ordinare da bere. Nel frattempo, io scaricai i componenti della macchina da presa, incluso un treppiede piuttosto ingombrante, e mi misi in un angolo, a montare l’attrezzatura. Il vento scivolava fra i miei capelli, raggelandomi i lobi delle orecchie e facendomi rabbrividire. Quel vento portava con sé un odore di sterco, abbastanza nauseante, ed era pervaso da una serie di grugniti rumorosi. Feci qualche passo attorno alla casa e riuscii a scorgere ciò che sembrava un’immensa porcilaia a cielo aperto: era un campo color ruggine, brullo e polveroso, sul quale si rotolavano alcuni piccoli maialini neri dalla coda a cavatappi. Poco distante, compariva un altro gruppo di maiali di grossa stazza, intenti a sguazzare in una gigantesca pozza di fango. Quasi richiamati dalla mia presenza, si avvicinarono al bordo della staccionata che separava la casa dal porcile. Ora non erano più soltanto una decina, erano un centinaio. Sbucavano fuori da ogni cespuglio, riemergevano dalle pozze fangose e correvano a salutare il nuovo venuto. Quel movimento di corpi neri e lardosi ricordava le formiche in colonia, quando si accalcano su una briciola di pane, brulicando. Sotto di me c’era un mare di pelle nera, di musi e orecchie, ed era in costante movimento.
“Vecchio, ho trovato la gente!” annunciò Simon, comparendo alle mie spalle. “C’è un vecchio e sua figlia… sono dei tipi strambi. Porta dentro la macchina che cominciamo. Accidenti, ma cos’è ‘sta puzza? Che schifo! Vieni, andiamocene in casa!”
Non potevo soffrire Simon, ne ero sempre più certo, ma lo seguii… armato di telecamera.
Quelli che lui definiva tipi strambi, erano i componenti di una famiglia contadina. Ci aspettavano riuniti in una sala di poche pretese. Un grosso camino disastrato gettava il bagliore del fuoco sui loro visi, le pareti nere erano spoglie, permeate di fumo, un calderone bolliva in un angolo e una tavola, rivestita da una tela cerata, costituiva l’unico arredo degno di nota. Unico particolare, in quella sala, erano gli insaccati: ce n’era una fila appesa al soffitto. Grossi salami neri, cosparsi di pepe e affumicati, fluttuavano nel vuoto, sulle nostre teste, come ornamenti di lampadario.
Un uomo anziano, infagottato in una maglione di lana, ci venne subito incontro. Fumava una Nazionale senza filtro e aveva tante rughe in faccia da rendere difficile lo studio dei suoi occhi. Erano occhi piccoli, di un vivido color acquamarina, ma ben dissimulati nel groviglio di piaghe e grinze, conficcati alla giusta distanza, sopra l’onda bitorzoluta di un naso arrossato. Si presentò, con la sua voce gracchiante, simile al rombo del motore di un vecchio Landini.
“Sono Tore Crea.” disse semplicemente, in un dialetto forzato a italiano. “Voi siete quelli della televisione?”
Simon annuì e si catapultò al cospetto di una ragazza, seduta in disparte. Era una giovane bruna, col viso lucido e i capelli legati in una crocchia semidisfatta. Indossava un grembiule celeste e delle scarpe da uomo; non aveva un’aria troppo femminile, ma vantava un taglio degli occhi incantevole: sembravano mezzelune corvine, screziate di pagliuzze dorate. Occhi ipnotici e sinceri come non ne avevo mai visti. Non avrebbe avuto nulla da invidiare a Sophia Loren, con quel viso. Era un viso da telecamera.
“Questa è mia figlia Nuccia” spiegò il vecchio a Simon, frapponendosi fra i due. “Nuccia sta per Filomena, come la sua povera nonna. Vai giù dai porci, Nuccia, e cambia l’acqua alle vasche.”
La ragazza si alzò all’istante e marciò spedita fuori dalla stanza, come se gli ordini del padre non fossero in alcun modo sindacabili.
“Be’, speriamo di rivederci più tardi, Nuccia!” le gridò Pike, sfoderando il suo sorriso da rubacuori. Poi si rivolse a me e, sottovoce, mi disse. “Non è male, eh vecchio? Un po’ rustica, ma non male.”
“Insomma, signori, volevate farmi delle domande” riprese Tore Crea. “Io parlo sempre dialetto e fareste bene a parlare con mio figlio Peppino, che ha studiato.”
Peppino, fino a quel momento, aveva legato alcuni salami con lo spago, a un angolo della tavola. Era un ragazzino sui sedici anni, spettinato e con la dentatura sporgente. Stava a capo chino sul suo salame e si asciugava il naso nella manica, infreddolito.
Il vecchio lo colpì in testa con una manata. “Saluta questi signori, sciagurato!” gli ordinò. Il ragazzo emise un guaito simile a quello di un cane e ci fece un ossequioso cenno del capo, poi si rimise a legare il salame con incredibile perizia.
“Io avrei bisogno di una stanza per appoggiare gli accessori della telecamera” dissi io, approfittando di un momento di silenzio.
“Natuzza!” gridò il vecchio. “Natuzza è mia figlia maggiore. Ah, eccola! Porta i signori nella stanza di sopra.”
Un secondo dopo, da una porta accanto al camino, spuntò una ragazzona ben nutrita. Assomigliava molto a Nuccia, ma era gobba e appesantita. Notai, poco dopo, che era incinta: un ventre rigonfio faceva la sua comparsa sotto un grembiule a quadretti.
“Non c’ho tempo, papà.” disse, nel suo dialetto biascicato. “La maiala ha figliato.” Prese una coperta impermeabile e se ne tornò da dove era venuta. Aveva un’aria scontrosa e tenera a un tempo: proprio lei, futura mamma, aiutava un maiale a partorire.
“Allora, veniamo a noi. Vecchio, preparati a riprendere la scena. Facciamo prima due minuti qui in casa, ok? Io faccio un’introduzione e tu riprendi.” Simon era già al settimo cielo e si schierò al fianco di Crea, con l’aria di un gendarme armato. “Voi cosa producete?”
“Il Marcipe.” rispose il vecchio, avvicinandosi al rampante Pike.
“Vale a dire?” chiese l’altro, senza un briciolo di interesse e aggiustandosi i capelli, mentre si rimirava in uno specchio da borsetta.
“Un salame con peperoncino calabrese” spiegò Peppino, legandolo ben stretto.
“Ok, vecchio, fai un primo piano su di me, per iniziare” propose Pike, gonfiando vistosamente i pettorali.
Dovetti arrangiarmi alla svelta. Montai la telecamera sul treppiede e scostai una tenda color avorio dalla finestra, così da ottenere un po’ di luce. Feci un segno con la mano a Pike e questi, senza perdere un istante, inizio a sciorinare la sua marea di cavolate, come sempre. Premetti un tasto sull’apparecchio e mi rassegnai a documentare quello scempio.
“Salve a tutti voi, amici di Gita di Paese! Il vostro Simon Pike si trova oggi in Calabria, per parlarvi di un salame del tutto particolare! Con noi ci sono Tore Crea e i suoi tre figli.”
“No, no, aspetti” intervenne il vecchio. “Io di figli ne ho undici.”
Il sorriso sparì velocemente dal viso di Simon e mi fece segno di “tagliare”. “Insomma, ci vuole far perdere tempo? Non poteva dirlo subito che ha undici figli e non tre?”
La sua arroganza era, come sempre, scandalosa. Il vecchio sembrò in imbarazzo. Si portò le mani alla bocca ed emise un lungo fischio e subito, come poco prima avevano fatto i maiali, una ciurma di bambini dal viso sporco arrivò di corsa nella sala. Erano tanti da confondere e lasciare senza fiato.
“Il piccolo è Marcé, la bimba si chiama Mariolina, quello più grandicello è Tonino…” cominciò a spiegare il vecchio.
“Ma chi se ne frega!” lo zittì Simon, frizionandosi con dell’acqua di colonia. “Ricominciamo. Cercherò di dare un tono un po’ più affascinante alla narrazione, qui sembra di essere in un orfanotrofio!”
Riavvolsi la pellicola e gli feci nuovamente segno di partire.
“In Calabria, abbiamo trovato un angolino davvero da sogno! E’ la piccola Azienda Agricola Crea di Tore Crea.” incalzò Simon, snocciolando un altro sorriso telegenico. “Il nostro signor Crea vive qui con, pensate, ben undici splendidi figli! C’è da fare un applauso alla Signora Crea, senza dubbio!”
“No, no” disse Crea, prontamente. “E’ morta di parto, la buonanima.”
Simon avvampò di collera e nutrii il dubbio che stesse per esplodere. “Va bene, spegni la telecamera, vecchio! Facciamo un censimento della famiglia, a questo punto! Non si riesce a girare un minuto di ripresa!”
Per la terza volta, mi apprestai a registrare, sebbene Simon non avesse più un’aria tanto fresca e pimpante.
“L’ Azienda Agricola Crea, un piccolo mondo a parte nella splendida terra di Calabria” tuonò con maggiore trasporto. “Oggi, il vostro Simon Pike, vi svelerà i segreti dell’allevamento suino, assieme ai simpatici componenti della famiglia Crea.”
Ecco allora che il piccolo Marcello, detto Marcè, si aggrappò con tutte le sue forze alla giacca sportiva di Simon Pike.
“Levati di torno, idiota!” sibilò Pike, scrollandolo di dosso. “Senti, io faccio una pausa. Questi sono dei primitivi!”
Io non seppi cosa rispondere e guardai altrove.
“Avete niente da mangiare?” indagò Simon, seccato. “Ho fame.”
Il vecchio chiamò allora a sé una ragazzina di quindici anni, tale Maria Catena. “Prepara la tavola al signore.”
Questa si mise subito all’opera, alzandosi sulle punte per raggiungere la piattaia. Apparecchiò per due, in un angolo della tavola, senza mai guardarci in faccia. Aveva dei corti capelli rossicci, impiastricciati di sudore, e lo stesso difetto dentale di Peppino, ma un’aria umile e mansueta.
Simon sedette fiaccamente sulla sedia e mi guardò allibito. “E’ una topaia” sentenziò. “Guarda cosa ci tocca fare!”
Nonostante fosse tanto sprezzante verso i Crea, non disdegnò affatto la zuppa che Maria Catena gli mise nel piatto: ne mangiò tanta da finire l’intero contenuto del calderone. Poi, non pago, chiese del pane e lo ingurgitò assieme a mezzo salame Marcipe e a un intero fiasco di vino.
Io ebbi l’impressione che i Crea avessero esaurito la loro scorta settimanale in meno di mezz’ora, a causa dell’ incontenibile appetito di Pike.
“Vivono come le bestie!” mi sussurrò Pike, schifato, mentre Maria Catena si affrettava a sparecchiare la tavola. “Sono sporchi lerci, hai visto?” Poi si schiarì la voce e disse. “Allora, ricominciamo il documentario!”
Tore Crea, che era rimasto seduto sul suo scranno senza battere ciglio, appoggiato a un bastone ricurvo, si mise prontamente sull’attenti. “Si, signore. Mi dica lei cosa devo dire.”
Provai compassione per il povero Tore Crea e i suoi piccoli occhi incastonati fra le rughe. Simon scambiò due parole con lui, dando l’impressione di avere una certa fretta. Propose anche di coprire l’effigie della Madonna alle loro spalle perché “dava un’idea di miseria”. L’allevatore obbedì a malincuore, senza nascondere un certo disagio. Poi Pike si girò verso l’obiettivo e attese il mio cenno. Subito dopo, la ripresa ebbe di nuovo inizio.
“Cosa c’è di meglio di un bel pranzo a base di prodotti tipici della Calabria? Ne sa qualcosa il nostro Tore Crea, titolare di questa splendida azienda agricola.”
“Si, ho undici figli” esclamò prontamente Tore. “Mia moglie è morta di parto.”
“Taglia!” mi ordinò Simon, tremando di rabbia. “Taglia o dovrò bestemmiare!”
“Non si bestemmia in questa casa” esordì Nuccia, rientrando nella sala. “Cosa volete da noi?”
“Vogliamo girare un documentario, bellezza!” la incalzò Pike, a un palmo dal suo naso. “C’è qualcuno sano di mente in questa famiglia?”
I bambini più piccoli si strinsero accanto al fuoco e guardarono il forestiero, con soggezione mista a spavento.
“Nuccia, fai riposare i signori” le ordinò il padre. “Portali su, nella loro stanza.”
“Io l’avevo detto, papà. Non ci voglio avere niente a che fare con la televisione!” Il fervore di Nuccia giustificava il suo cattivo italiano.
“Non ti agitare, sta buona.” rispose il padre. “Portali nella stanza. Poi, se volete, potete andare giù al porcile a girare il film.”
“Il film! Ha detto bene!” ruggì Pike, furibondo. “Ci vorrebbe un film per dare un’idea di quanto sia demenziale questo posto!”
Tore, probabilmente, non capì e rispose con un sorriso garbato. Poco dopo fummo condotti da Nuccia in uno stanzino spoglio: una Madonna troneggiava sulla parete ed un letto con le reti di ferro, se ne stava immobile in un angolo.
“Una vera suite.” protestò Pike, mollando i bagagli sul letto. “Senti, bella, vieni su a farci un po’ di compagnia, fra un po’. Io e il mio amico siamo stanchi per il viaggio.”
Nuccia si fece il segno di croce e chiuse la porta, lasciandoci soli.
Simon Pike si sdraiò pesantemente sul letto, mentre io riavvolgevo la pellicola.
“Questo posto fa schifo, vecchio. Io schiaccio un pisolino. Svegliami fra un po’. Se tutto va bene, al risveglio, avrò le pulci!”
***
“L’Azienda Agricola Crea è un piccolo paradiso di tradizioni e amore per la gastronomia. E’ proprio qui, in questo casolare semplice e accogliente, che si prepara il famoso Marcipe, salame calabrese dal gusto piccante, secondo il metodo artigianale. A capo di questa operosa azienda, c’è Salvatore Crea, coadiuvato da undici splendidi figli.”
“Buongiorno.” disse Crea.
“Allora, signor Crea, parliamo un po’ di voi.”
“Noi siamo dodici persone e alleviamo più o meno trecento maiali di razza nera, tipica della zona. Il nostro cognome, per una casualità, deriva dal Greco e significa Carne.”
“Vi danno molto da fare tutti questi suini?”
“Si, specie per la questione dell’ingrasso” rispose Peppino. “Questi maiali girano liberamente per la campagna e smaltiscono molto peso; per questo è necessario sottoporli ad una dieta fortemente proteica, in previsione della soppressione, in gennaio.”
“Andiamo a dare un occhiata al porcile. Seguitemi!”
Feci un cenno a Nuccia ed essa arrestò la telecamera.
“Direi che è venuta bene” commentai, deponendo il microfono. “Ora non mi resta che chiamare la redazione e dare la notizia.”
“Il vostro americano non lavorerà più molto” affermò Tore Crea, ridacchiando.
“Ben detto signor Crea, ma per noi di Tele Miranda è un piacere aiutarvi. E’ un modo per ripagarvi della vostra cortesia” risposi lanciando uno sguardo fuori dalla finestra. Là sotto, un gruppo famelico di maiali si accalcava attorno ad una enorme vasca di pietra, traboccante di carne fresca. “Grazie all’aiuto del Signor Pike, abbiamo risolto il problema dell’ingrasso, se non altro.”
I bimbi alzarono le sudice testoline e sorrisero, mentre il capofamiglia mi versava da bere.
Brindai e bevvi di gusto.
Non è male, dopotutto, lavorare in televisione.