Marco Rovelli – Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro – Feltrinelli, pag. 219 – € 15.
“Rumeni e polacchi sembrano bianchi, ma è Dio che ha sbagliato il colore della pelle.”
Cominciano con questa frase, pronunciata da Marcella, donna ivoriana che gestisce una trattoria popolare per lavoratori stagionali in provincia di Foggia. Poche parole, che però testimoniano l’amara consapevolezza di una condizione di schiavitù che va oltre il colore della pelle e la propaganda razzista di qualche gruppo politico. Cominciano da questa frase perché è su frammenti simili a questo, rubati alla quotidiana lotta per sopravvivere, è costruito Servi (Fetrinelli), il nuovo libro di Marco Rovelli, cantautore, scrittore e intellettuale libertario già autore per Rizzoli di Lager italiani (2006) e Lavorare uccide (2008).
Partendo dalla Capitanata Foggiana e passando per le campagne di Cerignola, di Catania, di Rosarno, Vittoria, Palermo e Reggio Emilia, fino ad arrivare alle aree industriali lombarde già proiettate alla grande abbuffata dell’Expo 2015, Marco Rovelli ha fatto un vero e proprio lavoro di indagine sul territorio, mischiandosi ai lavoratori e vedendo coi propri occhi la tragica vastità del lavoro sommerso italiano, dando vita a un viaggio agghiacciante nella sua realistica crudezza. Uomini e donne trattati come schiavi, pagati due euro all’ora e anche meno, picchiati, legati, imprigionati, uccisi a bastonate, costretti a vivere in condizioni igieniche da quarto mondo e sotto il ricatto di una denuncia per clandestinità che in realtà potrebbe rivelarsi niente altro che la fine di un incubo. Protagonisti di questa storia sono Mircea, Marcus, Hassan, Monsef, Kojolì. Caterina, Vlad, Monir e tanti altri lavoratori provenienti dal Magreb dall’Africa nera, dall’Asia e dall’Est Europa, di razze e culture e religioni diverse ma uniti nella desolazione di uno sfruttamento che è la vera linfa vitale della nuova economia globalizzata, spesso gestita da gruppi criminali organizzati. Per i nuovi schiavi non esistono tutele sindacali di sorta, non possono avere medici, non hanno legami di solidarietà e spesso sono vessati anche dai propri connazionali. La polizia quando può si limita a reprimere, non interessandosi nemmeno dei numerosi e nemmeno denunciati casi di omicidio.
Questa è l’Italia. Adesso e non cento anni fa. Rovelli questa Italia ce la sbatte in faccia con grande coraggio e franchezza, riportandoci le testimonianze di uomini e donne offesi, vilipesi e dimenticati. E lo fa con il suo stile, a metà strada fra il reportage giornalistico e l’opera di narrativa, alternando dati e drammatici frammenti di realtà a delle considerazioni personali di grande impatto letterario. Rovelli ci racconta l’Italia del sopruso eretto a sistema. L’Italia della brava gente che vota Berlusconi perché lui è comunque meglio di loro. L’Italia profonda e marcia che non possiamo fare più finta di non vedere, meravigliandoci ogni volta del voto che esprime come se fosse un paradosso o una bizzarria. Un paese che non è troppo distante dalle nostre esistenze perché basta svegliarsi un poco più presto al mattino e raggiungere piazzale Lotto a Milano – non la remota campagna foggiana – per vedere centinaia di lavoratori aspettare la propria chiamata dai caporali che li porteranno nei cantieri della nuove e vecchia fiera o della grande macchina edilizia lombarda. I caporali io li studiavo a scuola alle medie, proprio a due passi da piazzale Lotto. I miei professori questi famigerati caporali me li descrivevano come qualcosa di vergognoso e infame, appartenente però, e io mi rinfrancavo, a un’epoca passata. Adesso i caporali stanno di nuovo li in piazzale Lotto, dove ogni mattina smistano la merce umana. Perché di questo si tratta, di merce, rispolverando la terminologia marxiana. Merce da pagare il meno possibile. E a nessuno frega niente di queste persone e della loro condizione per quanto miserabile possa essere. Non alle autorità, non alle forze politiche progressiste e nemmeno ai sindacati.
Il libro di Rovelli ha il grande merito di frantumare questo silenzio. Il suo è un atto di accusa senza mezzi termini, documentato e ispirato. Un atto a di accusa che però finisce con una frase di augurio, una frase in senegalese antica quanto i caporali: “Sunu rew modi dunya”.
Nostra patria è il mondo intero.