di Valerio Evangelisti
Hugues Pagan, Quelli che restano, ed. Meridiano Zero, Padova, 2009, pp. 322, € 9,00
Hugues Pagan, ex militante sessantottino divenuto commissario di polizia (un po’ come il nostro Piergiorgio Di Cara, ex leader della Pantera), poi dimissionario dal Quai des Orfèvres e affermatosi come scrittore, riassume un po’ tutte le caratteristiche del noir francese contemporaneo. Stile stringato, frasi brevissime, immagini vivide, taglio cinematografico. Scenari urbani (Parigi) desolati, malinconici, prevalentemente notturni e piovosi. Un poliziotto — o, nel nostro caso, un ex poliziotto — amaro e apparentemente cinico, ma in realtà portatore di una sua morale, che si trascina stancamente tra i bistrot, con un sottofondo di musica jazz. E un caso di omicidio che, a furia di ramificazioni, ci dice che tutto il sistema è marcio, e in particolare lo è la polizia, che dovrebbe vegliare sulla sicurezza di noi tutti. Invece…
Si annusano Raymond Chandler, il Dashiell Hammett di Piombo e sangue e La chiave di vetro, il Jean-Patrick Manchette dei romanzi con protagonista il detective privato Tarpon (Un mucchio di cadaveri, Piovono morti). E inoltre i film di José Giovanni o quelli più recenti di Olivier Marchal, ex poliziotto anche lui, con al centro degli sbirri che in francese si direbbero désabusés, si tratti del compianto Lino Ventura, di Gérard Dépardieu o di Daniel Auteuil, tutti gravati dall’ombra incombente dell’ultimo Jean Gabin (La fredda alba del commissario Joss). Duri tra i duri, sconfitti tra gli sconfitti, eppure ultimi cavalieri erranti in un mondo di merda.
Pagan è la sintesi di questo immaginario, anche per dati biografici dell’autore, e chi ama il contesto trova in lui completa soddisfazione. Il protagonista di Quelli che restano si chiama Chess, lo abbiamo già visto in Dead end blues: “Un uomo magro, più vicino ai cinquanta che ai quaranta, un uomo con un soprabito blu che poteva permettersi solo un pezzo grosso, con stivaletti Gucci e vestito a doppio petto blu polvere”. Chi lo contempla è un poliziotto, e infatti segue subito il commento al vetriolo: “Gli sbirri fiutano i soldi, come certi cani bene addestrati fiutano la droga. E’ per questo che vengono utilizzati entrambi.”
Chess si è lasciato convincere da un pappone a indagare sull’assassinio infame di una delle sue donne. C’è da calarsi nella malavita parigina e seguirne i meandri, organizzati secondo suddivisioni spesso etniche. Contattare prostitute, battere quartieri insalubri, confrontarsi con i boss grandi e piccoli della periferia. Da ex uomo dell’Usine (l’“officina”, cioè la polizia; la Factory in Derek Raymond), Chess ricorre — tra una bottiglia di rhum, una jam session di jazz e un amorazzo frettoloso — agli espedienti del vecchio mestiere. Fino a scoprire che tra la Parigi sotterranea e quella emersa scorrono catene di complicità vergognose. Il marcio è ovunque: persino nella donna di cui il detective cominciava a innamorarsi. Non c’è amore per gente come lui. Una realtà spietata non gli concede nemmeno quel sollievo.
C’è molto Derek Raymond (l’autore di punta di Meridiano Zero) in tutto ciò: la prostituta uccisa era la migliore del mazzo. E ci sono tutti gli autori che ho citato, più molti altri. In Pagan fa la differenza la sua esperienza personale. Quella che lo spinge a far dire a Chess (ma probabilmente chi parla è Pagan stesso), nelle ultime pagine, di avere lasciato l’Usine dopo che questa era diventata il braccio della Confindustria francese e dei suoi servi.
Una peculiarità della Francia? In Italia chi macellò a Genova è promosso, chi uccise Aldrovandi, Rasman e Bianzino subisce pene platoniche. E guai a mettere in scena, in un nostro romanzo, uno sbirro corrotto. Le forze dell’ordine sono, per definizione, sante e immacolate. Il poliziotto letterario-televisivo italiano è una specie di icona, al massimo un simpatico pasticcione, più spesso un eroe purissimo. E se emerge che un generale dei carabinieri patteggiò con la mafia, nella letteratura della penisola detta impropriamente noir non ne resterà traccia.
Ben venga, allora, la prosa cinica e sincopata di Hugues Pagan. Appartiene a un sottofilone, ma dice la verità. Cosa che da noi, salvo poche eccezioni, non usa.