di Dziga Cacace
311-Alla ricerca di Jimmy di Un Incapace, USA 1993
Mi dispiace aver già speso tutta la mia indignazione per film orrendi come Soho o Mr. Bean perché qui siamo molto sotto i minimi immaginabili livelli di decenza. Siamo in sei al Lumière e quando me ne sono andato (dopo 27 minuti, per precisione) seguivo altri due stupefatti spettatori, anch’essi già esacerbati. Qui si batte il record di Tiburzi. Il film di Sam Henry Kass narra le vicende di due giovani cineasti, ovviamente indipendenti, che vogliono realizzare un documentario sulla zona di Brooklyn in cui vivono. Ma scoprono che tale Jimmy è scomparso e allora, sempre complice l’occhio della cinepresa, iniziano a investigare. E poi me ne sono andato, ma il povero proiezionista Dino che deve rimanere fino in fondo per mestiere m’ha rivelato l’astuto finale: quel deficiente di Jimmy era chiuso in camera da quattro giorni.
Eccovi il bel cinema indipendente statunitense: il regista, questa testa di Kass, ha pure il coraggio di sfottere, nella prima scena, il povero Stallone. Sly, a confronto di ‘sto presuntuoso e ignorante puzzone, passa per un esteta e un narratore finissimo, perché in questo benedetto film non c’è nulla. NULLA. Non mi era mai capitato di dover uscire da un cinema, e sottolineo il “dover”, perché qui non si sarebbe andato a parare da nessuna parte. Questo film è la sòla dell’anno: nell’ideale classifica dei peggiori film di ogni tempo che mi sono andato consapevolmente a cercare in un cinema, beh, questa ignobile fetenzia batte ogni concorrente (e in concorso ci metto pure un funesto Vanzina che ho vista negli anni Ottanta). Qui non c’è una storia che meriti d’essere raccontata, non c’è un progetto cinematografico degno di questo nome, gli attori sono pure canissimi. C’è invece lo sciupio indecente delle generose comparsate di tanti amici (Samuel L. Jackson, Buscemi, Turturro, Jennifer Beals, etc.). E c’è tantissima supponenza unita alla cronica incapacità di saper raccontare, riprendere e infilare almeno due o tre battute. Voglio dire: va bene girare una porcata, ma farlo anche con spocchia autoriale, questo no, eccheccazzo. Questa è una commedia dove si rimane imbarazzati dall’inizio alla fine (per chi resiste). In 27 minuti ho avuto un leggerissimo movimento delle labbra solo quando è apparso Turturro con la parrucca, per il resto… Girovagando in Internet scopro che il film è stato prodotto dalla Orenda Films: si spiega tutto. (Cineclub Lumière; 19/5/98)
321-Dobermann di Jan Kounen, Francia 1997 featuring Gabriele La Porta!
Si usa spesso, spregiativamente, il termine fumettone. Con Dobermann siamo da quelle parti, solo che si tratta di un fumettone modernissimo, cinetico, violento, beffardo. Dobermann (il Vincent Cassel de L’odio) è un feroce e intrigante bandito postmoderno. Lo accompagnano una dark lady bellissima e sordomuta (la Bellucci, agevolata dalla parte) e una congrega di squinternati. Organizzano un colpo, raccontato molto confusamente, e devono vedersela con un ispettore completamente fuori di coccio, il sadico Tcheky Karyo. Scontro, fuga e finale incerto, come a far prevedere un ennesimo episodio. Potrebbe sembrare un generico gangster-movie, invece Kounen (mai sentito prima) aggiorna tutto con un linguaggio esuberante, grottesco, esasperatamente carico e violento. Fa fumetto in pellicola, si diverte con tante invenzioni, stupisce e alla fine irrita nella ricerca programmatica del colpo a effetto. Quando la vicenda non è sorretta da queste invenzioni si avverte la mancanza di una vera idea di cinema che non sia solo quella di accumulare effettacci: la chiassata presenta momenti morti, lacune in sceneggiatura e montaggi che, volendo essere frenetici, risultano confusionari. Boh: ci sono tre/quattro idee notevoli, alcuni lampi comici d’antologia (il travestito che rivela alla famiglia tutta la doppia vita che porta avanti: “Mamma, se scoreggio sempre è perché mi faccio sfondare il culo tutto il giorno!”) e una estetica visuale intrigante ma ancora poco definita. A un certo punto il regista fa pulire il culo di uno dei suoi personaggi con i Cahiers du cinéma: il film è mediocre ma vitale e lo dico sottovoce perché non vorrei che L’occhio frusto capitasse nel prossimo film di Kounen come carta da cesso. Lo uso già io così. Terminata la visione attendo Fuori orario e becco La Porta che s’agita come un cocainomane dopo una pista di due metri. Ho messo la vhs in programmazione e sono andato a dormire moooolto turbato. (Vhs; 23/5/98)
333-Grazie signora Thatcher di Un Mediocre, Gran Bretagna 1997
Dopo quattro minuti di questo film potete già sapere esattamente cosa accadrà, in quale successione, e come tutto ciò vi verrà raccontato. Poi, per la verità, Grazie signora Thatcher di Mark Herman si tollera perché – non so – qualcosa mi dice che è un film maldestro e mediocre ma sincero, perlomeno non furbetto come le tante altre porcate inglesi viste di recente (e Full Monty è un esempio calzante). Anche qui abbiamo il dramma della disoccupazione, ma stavolta c’è qualcosa per cui lottare, una banda di ottoni. L’ensemble è formato esclusivamente da persone che lavorano in una miniera di carbone in via di dismissione. Dopo tante prove la banda approda al fatidico concorso che si tiene alla Royal Albert Hall e (ma guarda un po’!) vince, con annesso discorsetto strappalacrime sulla politica omicida della Lady di ferro. Tutto estremamente prevedibile e messo in scena stracarico di effettacci patetici e di tirate strappalacrime, con le scene strazianti e le invettive ben dosate e cronometrate nelle loro scadenze. Alla fine viene quasi un po’ di compassione per quella stronza della Thatcher, sputtanata da un film così deboluccio e bruttino. Non si può che essere d’accordo con le tesi del film, ma, mi chiedo: può piacere un film solo se se ne condividono gli assunti ideologici? Ho voglia di film vitali, voglio carne, sangue, polpa, basta con cose esangui, recitate decentemente ma girate coi piedi. (Cineclub Lumière; 1/6/98)
338-Austin Powers – Il controspione di Jay Roach, USA 1997
Austin Powers è già diventato un cult tra gli appassionati. I motivi? La demenziale comicità di Mike Myers (uno dei Fusi di testa), il gioco citazionistico e la straordinaria ricostruzione della swinging London. Verifico e dico: vedere questo film in videocassetta significa castrarlo perché, secondo me, il pregio migliore sta proprio nella sfrenata bravura degli scenografi che hanno saputo ricreare il clima folle dei tardi anni Sessanta. Austin Powers è un maldestro agente (per niente segreto, visto il culto che lo circonda). È stato criogenizzato per svegliarsi nel 1997 e combattere il malefico Dottor Male, un cattivissimo dai grossi problemi relazionali con il figlio. Ma il buon Austin deve fare i conti anche con una realtà mondiale completamente cambiata. L’uomo è stato sulla Luna (io non ci credo), è caduto il muro di Berlino (ci credo, stavolta ci credo), c’è l’AIDS e sono lontani i tempi in cui furoreggiavano sesso, droga e rock’n’roll. Austin è un po’ spaesato e si deve adeguare: la sua assistente – la Hurley, non male – esige fedeltà, pulizia e contegno. Perdona al nostro strampalato eroe un’avventura con Annabella Fagina (!) e lo accompagna nella sconclusionata vittoria sul malefico avversario. Che mette tenerezza perché anche per lui i tempi sono cambiati: il figlio, tarantinizzato, vuole uccidere Austin Powers con un pratico colpo di pistola in testa; il Dottor Male, invece, vuole dargli una morte lenta, improbabile e che gli consenta la fuga – testuale. Ci sono alcune sequenze da mettersi con la pancia per terra dalle ghignate, svisate pecorecce veramente gustose, rimandi metacinematografici intelligenti e il film è cosparso di invenzioni. Certo, non si parla di grande cinema e bisogna essere disposti a lasciarsi trascinare nel contesto sconclusionato. Ma se si è in vena ne può valere la pena. Si apprezzano anche le ottime musiche, l’adrenalinica performance di Myers (sdoppiato nei due ruoli principali), gli omaggi ad Antonioni e al cinema di Lester e il continuo gioco nostalgico (split-screen, fondali, zoomate). Talvolta l’intreccio ha qualche caduta di ritmo, ma far le pulci a un film programmaticamente fuori di testa come questo non ha senso. Nel bene e nel male, Austin Powers è un film bizzarro. Per cui meritevole. (Vhs; 3/6/98)
339-Fuga da L.A. di un John Carpenter fuori di zucca, USA 1996
E così ci siamo persi anche Carpenter: cos’è ‘sta roba noiosa e ripetitiva? Dunque: prendete il capolavoro di Carpenter (l’indimenticabile 1997: fuga da New York) e aggiornatelo a un futuro prossimo venturo dove non ci si può concedere alcol, donne, fumo e religioni diverse da quella cristiana. Gli USA sono diventati una dittatura in piena regola (ma va’? Ma pensa…), minacciata dalla sollevazione del Terzo Mondo guidata da un simil-Guevara, violento e maligno. E siamo già alla caricatura, ma di quelle che sa fare giusto Forattini. Jena Plissken viene incaricato, con le buone o con le cattive, di andare a L.A. (che dopo il Big One è diventata un’isola, sentina di tutti i criminali statunitensi): deve recuperare un’arma micidiale, in grado di paralizzare tutta l’attività energetica della terra. Il dittatore degli USA ne ha bisogno per fermare l’invasione che ormai è alle porte. Va tutto esattamente come nell’illustre precedente capitolo, senza grandi invenzioni e con un’ironia che sembra proprio a buon mercato. Carpenter sfotte la Universal, Hollywood, Disneyland, gli executive con il lifting e tutto ciò che gli capita a tiro, con anarchica e confusionaria scarsa verve. Il problema è che sfotte anche il suo pubblico. Non c’è tensione, i personaggi sono penosi (il surfer Fonda, la musulmana Golino — doppiata anche in italiano -, la travestita Pam Grier), gli effetti speciali fintissimi, le battute già sentite migliaia di volte (“Sei Jena Plissken? Ti facevo più alto!”) e il finale prevedibile. Carpenter aveva giurato che non avrebbe mai girato il sequel di Fuga da New York. Lo ha fatto e ha fatto una bella cazzata. (Vhs; 4/6/98)
342-Zemaljski dani teku di Goran Paskaljevic, Jugoslavia 1979
L’illusione dell’estate inizia quando la grotta del cineclub Lumière diventa più fresca dell’atmosfera esterna; accade stasera e, dopo aver già visto un film siamo tutti indecisi: si resta o si torna a casa? Quanto durerà il prossimo? Abbiamo già sonno? Tu, a che ora ti svegli domani? (Dico: le otto, e vengo fischiato). Resistiamo e I giorni passano sulla terra (trad. letterale dell’originale plavo) ci racconta di un capitano di navigazione che decide di ritirarsi in un pensionato per anziani. Vede la sua vitalità appassirsi e decide di dare una scossa al sonnolento ricovero. All’inizio la resistenza degli ospiti è molta, poi, pian piano si scioglie e una festa natalizia sancisce il ritorno alla vita, all’assaporarne le gioie. Sennonché il cuore del capitano non regge. Amaro, ma fino a un certo punto. A Paskaljevic interessa mostrare, ancora una volta, un percorso iniziatico, questa volta (come in Tango argentino) seguendo un gruppo di anziani che sembra aspettare solo la morte. Esteticamente povero, ha una bella progressione e m’è piaciuto, anche se la versione in lingua originale — con sottotitoli inglesi -, la stanchezza e la tarda ora non hanno aiutato. Tornato a casa becco su Fuori Orario un corto intitolato L’amico firmato da De Francesco, attore già visto in Teatro di guerra e La parola amore esiste. Racconta di una spasmodica attesa, dell’incontro con l’amico del titolo e infine la soluzione del mistero. L’amico introduce il protagonista (il regista) da una prostituta e formula la particolare richiesta: desidera che gli si caghi addosso. Francamente è quello che farei io, senza pretendere compenso. Boh. Sottile metafora dello stato in cui si trova la cinematografia italiana? Mah. Comunque domani mattina parto e sto lontano dal mio adorato Cineclub per dieci giorni: tornerò solo per vedermi la consueta serata di fine anno. Son già triste, ma ora a Cannes! (Cioè, a Milano!). (Cineclub Lumière; 5/6/98)
343-Il grande Lebowski di Joel Coen, USA 1998
A due anni da Fargo, tornano sui nostri schermi gli amati Coen, e stavolta con un film meno algido del solito. Siamo nella solatia California, tra cocktail e spinelli, piscine e sale da bowling. Protagonista è Jeff Bridges, nella parte del Dude (stupidamente tradotto Drugo), un amabile nulla facente i cui hobby principali sono starsene ad ascoltare buona musica d’annata, sfumacchiarsi qualche canna e giocare a bowling con gli amici: il rissoso John Goodman, sorta di ebreo convertito sempre sull’orlo dell’incazzatura feroce, e Steve Buscemi, silenzioso e delicato. Trama: qualcuno ha rapito la giovane e ninfomane moglie del grande Lebowski, un miliardario impegnato in attività filantropiche. Della sua ricerca viene incaricato il Dude (che già ha avuto guai proprio perché scambiato con il marito della giovin signora, dedita a pornografia e debiti) e da qui parte una girandola di accadimenti stralunati e confusi su cui trionfa la ludica visionarietà del cinema dei due fratelli. La storia perde progressivamente colpi e si accumulano gag, incontri, nuovi personaggi, fatti assurdi, divagazioni oniriche e filosofia spicciola. Tutto senza grande ordine, senza disciplina, tutto come la vita di Dude: mollemente abbandonati allo scorrere della vita stessa, prendendola easy. Questo è il maggior difetto del film, che si trascina fino a un finale confuso. Ma c’importa? No. O perlomeno, a mente fredda, sí. Il grande Lebowski è un film denso di personaggi memorabili, ma manca di una storia convincente. Aspettavamo da sempre un eroe come il Dude, un tizio capace di ascoltarsi un nastro con da un lato lo scorrere delle bocce contro i birilli e dall’altro Dylan. Uno che ama i Creedence Clearwater Revival e che odia gli Eagles. E aspettavamo da mesi un film che sapesse regalarci invenzioni visive a ogni inquadratura. Qui, tutto l’apparato tecnico è di prim’ordine, la fotografia è straordinaria e così l’attenzione meticolosa al dettaglio. Per non parlare di colonna sonora e interpretazioni (con l’apice dell’apparizione di Jesus Quintana, John Turturro, sulle note di Hotel California eseguita dai Gipsy Kings). Insomma, sensorialmente il film m’ha da subito conquistato, ma è rimasto il dubbio: basta tutto questo popò di invenzioni se, comunque, il film risulta fragile? The Big Lebowski non è lo straordinario film che avrebbe potuto essere, è soltanto bello. Può bastare. E poi, finalmente, da oggi in poi c’è un eroe decente in cui identificarsi e credere. (Cinema Gloria; 8/6/98)
347-L’arrière pays di Jacques Nolot, Francia 1998
Ora di pranzo al cinema Mediolanum. Rassegna dei film che arrivano dal Festival di Cannes. Prendiamo posto e parte il film. I primi cinque minuti sono una camera-car attraverso la campagna. Pier sospira: “Lo sapevo”. Questo percorso attraverso il paesaggio francese mi fa subito pensare che non porterà a nulla. Dietro di noi un tizio si scarta un panino avvolto nella stagnola. La carta crepita come un ciocco sul fuoco e poscia averne fatta una pallina, il tizio addenta la sua preda con stomachevoli biascicamenti. Se mi distraggo e ascolto questi orrendi rumori è perché dallo schermo non arriva nulla d’interessante. Jacquinou è in visita alla madre morente, in campagna. Sullo schermo personaggi che dormono, intorno a me spettatori che dormono. Jacquinou assiste la genitrice e Pier esclama: “L’eutanasia è una cosa meravigliosa”. Io sento i primi sintomi di una orchite spontanea: mentre la vecchietta si consuma e non riesce a morire, ciò accade agli spettatori. Finché non schiatta e allora dobbiamo subire cinque minuti di lavaggio del cadavere. Primo: mai avevo visto una novantottenne nuda. Non è il massimo. Secondo: posso già immaginarmi chi griderà al miracolo poetico, di bressoniana intensità. E invece questa è pornografia e raggiro di chi vede poesia in questi stravisti ricatti. Cosa ci vede l’aulico critico in questa scena? La purificazione dalle colpe terrene? La caducità del corpo in cui siamo imprigionati? La pietas, sentimento altissimo, accompagnata al prosaico lavacro? Si potrebbe andare avanti per ore… E infatti la regia lo fa: arriviamo al funerale (con annesso predicozzo del celebrante) e totalizziamo per agonia-morte-esequie, circa quarantacinque minuti. Padre e figlio sono immoti nel dolore: anche noi, pietrificati. A un certo punto vedo il cadavere che si muove: temo una resurrezione e invece è solo un errore dell’attrice che deve simulare per lunghissime sequenze. Se ci fosse l’intervallo la fuga sarebbe cosa buona e giusta, ma l’intervallo purtroppo non c’è. Dal funerale in poi è un rosario di scoperte: nel paese tutti tradivano tutti e nessuno è figlio di chi dovrebbe. Pure la spirata, si scopre, era un po’ zoccola. Io noto invece che l’aria condizionata della sala è gelida e sono a rischio coccolone. Mi concentro di nuovo sul film e ho terrore che muoia pure il vedovo e ci tocchi un’altra agonia-morte-funerale, ma mi sbaglio perché dai ricordi del protagonista emerge anche il suo presente omosessuale. Eccoci serviti di primi piani sul pacco dei toreri e di palpate ai genitali durante le mischie di rugby. Cinema intollerabile, pesantissimo, mortale, ovviamente osannato dalla critica. Ci vorrebbe invece un bel vaffanculo al regista, Jacques Nolot, vi assicuro. (Cinema Mediolanum; 10/6/98)
349-Viaggio all’inferno di Fax Bahr e George Hickenlooper, USA 1991
Come previsto, sono knock out. La micidiale aria condizionata, il Niño e chissà cos’altro mi hanno completamente abbattuto e oggi dovrò rinunciare a Love Is the Devil di tale Maybury. Quest’anno ho già visto troppi pessimi film inglesi per aspettarmi qualcosa di buono da un film che parla di Bacon (il pittore, non il contorno delle uova). E allora che faccio? Resto a casina e mi guardo il film che ha documentato la via crucis di Apocalypse Now. Si ripercorrono le vicende dei 268 giorni di riprese nelle Filippine, le crisi finanziarie e produttive, artistiche e personali che costellarono il film. Iniziate le riprese con Keitel, subito lo si sostituì con Martin Sheen, talmente nella parte da arrivare a beccarsi un bell’infarto. Tutta la troupe d’attori e tecnici s’immedesimò con l’opera, folle e realistica allegoria della guerra del Vietnam: nel documentario si respira l’aria drogata del set (alcuni attori, per essere più in parte, consumavano marijuana e anfetamine) e la coscienza di essere parte di qualcosa che lascerà il segno. C’è euforia, si ironizza sui ritardi, si festeggiano le estenuanti giornate di ripresa. Coppola ci parla dell’orrore e dell’assurdità di quella guerra e di come fosse vissuta dagli americani, con incoscienza suicida. In un caldo tropicale, di fronte a problemi organizzativi insormontabili, a contatto con la temibile irascibilità di Marcos e dei suoi militari, in balia degli eventi atmosferici, presto fuori dai budget, Coppola costruisce il suo capolavoro: cinema come sfida, come follia, come sogno. La regia omaggia questa incosciente spinta che porterà a un film unico e irripetibile, addirittura ponendo più volte il paragone con Welles, cavaliere di cause perse e simbolo per tutti i registi che osano ciò che il senso comune (e i produttori) mai sognerebbero d’osare. Un film che, da rilettura moderna di Cuore di tenebra, sarebbe diventato un percorso nell’animo del regista e dei suoi collaboratori. Un viaggio straziante e doloroso (si veda la testimonianza di Sheen), un sacrificio catartico che due anni dopo porterà alla Palma d’oro a Cannes e a un definitivo posto nella storia del cinema. Credo sia chiaro che m’è piaciuto (Apocalypse Now e questo documentario). (Vhs; 11/6/98)
352-Festen di Thomas Vinterberg, Danimarca 1998
Ritorno alla vita e in sala mi aspetta il premio della critica di Cannes. Festen è un film magnifico, in assoluto uno dei migliori degli ultimi anni, capace di aggiornare esteticamente e tematicamente un argomento trito e ritrito come la classica riunione di famiglia. Questo potrebbe essere un dramma di Ibsen e invece è freschissimo, duro, inesorabile, marxisticamente violento con le istituzioni della famiglia e del Capitale. Si ride, ci si spaventa, s’inorridisce e si pensa, a fine film. Si pensa che grazie a un film così, forse, molta gente si renderà conto che non servono miliardi per produrre un ottimo film, ma servono idee. Certificato dal Dogma ’95, Festen è girato in digitale con macchina da presa a spalla. Immagini tremolanti, montaggio frenetico, luci che spesso sfuggono. Ma anche sulla fotografia si capisce che è stato fatto un grosso lavoro: solo nella penombra e nei controluce la gestione sembra incontrollabile, perché altrimenti i colori sono saturi e vivi, senza la smorta patina paratelevisiva. Festen, come detto, racconta di una riunione familiare per festeggiare il compleanno dell’anziano padre di famiglia Helge Klingenfelt, magnate industriale. Il figlio Christian fa un discorsetto — che riproporrà a più riprese, per far passare il messaggio — in cui rivela le attenzioni incestuose che il padre ha rivolto in passato alla sorella Linda, poi morta suicida. Il pranzo va avanti tra duri confronti, accuse, smentite, incredulità degli astanti e della moglie di Helge, sinché (e forse questo è l’unico difetto, troppi finali) non trionfano l’amore interrazziale e interclassista di Christian con Pia, una cameriera, e di Helene, altra sorella, con un ragazzo di colore. Il finale è ironicamente lieto — credo — ma non sminuisce la potenza del film. Una goduria autentica. (Cinema Plinius; 13/6/98)
353-Babyface di Un Farabutto, Canada 1998
E per un capolavoro vero come Festen, ecco una stronzata pura come Babyface, incredibilmente prodotto da un Egoyan in stato confusionale. La rassegna su Cannes va concludendosi e ormai tra gli spettatori c’è “clima”: saluti, pareri, ammiccamenti. Anche troppo: mi siede vicino una specie di hippy cinquantenne che sembra non lavarsi dai tempi di Woodstock. Poi noto – visione tipo Essi vivono – che intorno a me tutti gli spettatori hanno il Manifesto ostentatamente in vista. Mah! Siamo qui per il cinema, per la Settima Arte… una volta tanto non fare il polemico! Il film parte mentre il sodale Pier (senza Manifesto) mangia il polpettone e sugge rumorosamente da un tetrapack: Margaret è una zozza trentenne, dotata di sfacciata sensualità, va ammesso. Lavora in una lavanderia automatica e si spupazza più uomini, sinché non incontra Jimmy, un ventenne e se lo spupazza a dovere. Ma di mezzo si mette la figlia che, con cotanta madre, promette subito di diventare anche lei un’incandescente Lolita. Jimmy va a vivere da Margaret e, con due scimmie e una liana in giro, scoppia il prevedibile casino: Jimmy e la piccola stronza ammazzano la donna. Recitazione impostata se non palesemente amatoriale, fotografia anonima, come del resto montaggio, regia (Jack Blum) e costruzione della vicenda. Si aggiunga che tutti i protagonisti hanno delle odiose facce da cazzo. E io che mi ero illuso, leggendo la trama: “finalmente un po’ di movimento”, e mi vien fuori questa straziante porcata moralistica, inibente ogni pulsione sessuale per i prossimi tre mesi. Questo è il cinema d’autore presentato a Cannes. Ragazzi: palle gonfie e tristi. (Cinema Plinius; 14/6/98)
359-Niagara, Niagara di Un Disgraziato, USA 1997
Si chiude. Torno dalla rassegna milanese di Cannes giusto in tempo per l’ultima serata del Lumière, che chiude con un triple feature. Si parte con questo film accuratamente fuggito tutto l’anno: abbiamo due misfits che girano per l’America del nord, alla ricerca di una testa di Barbie nera (ma che idea originale e figa!). Si sono incontrati gironzolando (e rubando) in un supermarket. Marcy è una biopsicosociopatica afflitta dalla sindrome di Tourette, cosa che la costringe a movimenti spastici e le rende difficile qualsiasi contatto con le persone che le stanno intorno. Lui, Seth, è semplicemente un cretino. Assieme compongono una tra le coppie più disastrate viste recentemente sullo schermo: non sono simpatici, non si riesce a compatirli, si desidera fin dai primi dieci minuti che vengano raggiunti e accoppati dalla polizia che li insegue. Vomitate, impillolamenti, carne maciullata, esplosioni di violenza, incongrue puntate d’umorismo, climax drammatici al rallentatore, compiaciuta descrizione della bestialità della provincia americana di cui il regista (Bob Gosse) non si rende conto di essere perfetta espressione nel momento in cui banalizza il dramma di una malattia come semplice motivo d’interesse per un film altrimenti vuoto d’ogni altro significato. E poi, scusate: ma chi tromba sotto le lenzuola come in questi falsissimi film statunitensi? Sono un gagliardo naturista io o degli ipocriti loro? Vabbeh. Comunque la povera Marcy ripete tutte le cose tre volte e io le rispondo: questo film fa schifo, schifo, schifo. Tra dialoghi pessimi infarciti di four letter words e recitazione sovraccarica (che ha garantito alla giovane Robin Tunney la Coppa Volpi, figuriamoci), il film si trascina sino a un tragico quanto prevedibile e auspicato finale. Ultima scena: una scopiazzatura di Birdy, perché definirlo omaggio sarebbe insultante. Questo film è una bella palata di merda. (Cineclub Lumière; 19/6/98)
361-L’amico americano di Wim Wenders, Germania Federale/Francia 1977
All’inizio ho creduto a uno scherzo: ma come? Wenders per chiudere la stagione? Proiettandolo fino alle tre di notte? No, non uno scherzo, ma una stringente necessità economica, sfruttando una pellicola praticamente regalata. Sono stato il primo a entrare al Lumière quest’anno e volevo infantilmente essere l’ultimo a uscirne, ma non sono riuscito a stabilire questo record idiota. Durante la proiezione siamo stati quasi tutti alla biglietteria a tentare di stabilire quale fosse stato il miglior film della stagione. Liti, accuse d’ignoranza, scomuniche, delazioni (“A te è piaciuto Titanic, dài…”) e ovvie riappacificazioni. Sono entrato in sala per dieci minuti per cui del film non ho voglia di parlare, ricordo solo le belle interpretazioni e vi rimando alle quattro scarne righe di commento della recensione n° 32 de Lo sguardo mutilo, quando non mi perdevo in tanti vacui discorsi. Il Lumière chiude e tra due giorni arriva l’estate. Pacche sulle spalle, addii, rimpianti di aver visto solo 100 film (al prezzo medio di 1800 lire e da queste parti è un pregio mica male, credete) e un arrivederci a una prossima stagione che seguirò soltanto in trasferta da Milano. Finale deamicisiano: dopo i saluti strappalacrime ci rendiamo conto che tra pochi giorni inizia l’attività del cinema all’aperto Nettuno, provvisoriamente ospitato alla Fiera del mare di Genova, e che, pertanto, ci rivedremo tutti presto. Insomma, tanto teatro, ma andando via con la mia Vespa, mi entra un bruscolino nell’occhio e furtiva sgorga una lacrima. Sono un sentimentale, ma la mia platonica umida grotta dove si materializzano ogni sera illusori sogni di celluloide mi mancherà. (Cineclub Lumière; 19/6/98)
(Fine? — 10)