di Mauro Gervasini
Non sarà ottobre il più crudele dei mesi, ma è certo quello più critico per il cinema italiano. Perché adesso, tra una Mostra di Venezia appena conclusa e una Festa di Roma che sta per cominciare, si evidenziano prepotenti le contraddizioni di un sistema che non è più industriale da trent’anni, ma solo parastatale e paratelevisivo. Ecco quel che accade.
BAARÌA – Mai come oggi l’ingerenza della politica è stata becera e ingombrante. Prima di tutto perché il Presidente del Consiglio, attraverso la società Medusa, di sua proprietà, è il principale produttore e distributore di film, mentre le naturali concorrenti, almeno in campo distributivo, vale a dire le controllate Rai, perdono sempre più posizione e prestigio. Agli Oscar si propone Baarìa (Medusa) e non Vincere (01, ossia Rai). A noi il film di Tornatore è sembrato un insopportabile monumento alla nostalgia, ma ha trovato difensori insospettabili (persino Goffredo Fofi…) e quindi si può discutere sul suo effettivo valore artistico.
Detto questo, il rigore e lo spessore di Vincere di Bellocchio ci paiono incomparabili. Eppure il prescelto è Baarìa, perché il sontuoso affresco italiano che propone è very international. Ma soprattutto perché bisogna rientrare dai costi, esorbitanti. Ufficialmente, 25 milioni di euro. C’è pure un agghiacciante precedente: l’anteprima internazionale del film (in concorso a Venezia) è stata accompagnata da una nota ufficiale del “Ministro per i Beni e le Attività Culturali Sen. Sandro Bondi” fatta pervenire ai giornalisti, che “detta” la recensione: «Baarìa (…) è un film epico e privato, sincero e immaginario, ilare e malinconico, profondamente legato alle radici e capace di incuriosire gli spettatori che vivono dall’altra parte del mondo…». Ecco, appunto.
PRIMA LINEA — Mai come oggi l’inconsistenza della stampa quotidiana è stata becera e insipiente. Di cinema si scrive sempre più spesso senza avere nulla da dire. A dare la linea “La Repubblica”, che di fatto ha abolito la critica (alzi da mano chi si ricorda così su due piedi chi scrive le recensioni sul quotidiano diretto da Ezio Mauro… Ecco, appunto). Dai festival segue i film Natalia Aspesi per la quale, ci mancherebbe, massimo rispetto, ma ottomila battute di trama in bella prosa più qualche coloritura sparsa (e solo in presenza di scene di sesso) non sono esattamente “critica”. Resistono Mereghetti e Maurizio Porro sul “Corriere della Sera”, ma sono sempre più riserva indiana, mentre sulle altre testate nazionali si succedono firme museali delle quali potresti recitare a memoria le recensioni senza averle lette prima. Il giornalismo cinematografico è un concetto aleatorio. Si è costretti a scrivere solo del blockbuster di turno, ma anche in questo caso si fatica. L’unica inchiesta pubblicabile sui quotidiani italiani riguarda le possibilità che Clooney sia l’amante della Canalis. La cosa più grave, però, sono gli omissis. Qualche settimana fa il film La prima linea diretto da Renato De Maria, e sceneggiato dallo scrittore Ivan Cotroneo, è stato presentato al Festival di Toronto dove ha riscosso un eccezionale successo di pubblico ed è stato acquistato da 25 paesi. Il film racconta una pagina oscura degli anni di piombo: l’evasione di Susanna Ronconi dal carcere di Rovigo organizzata dal suo compagno Sergio Segio, leader di Prima linea. L’azione militare costò la vita a una persona, l’artigiano Angelo Furlan, che con l’azione non c’entrava nulla. Nessuno può dire se il film sia brutto o bello, onesto o inopportuno, irriverente o puntuale, perché appunto si è visto solo in Canada. Ma voi, dell’anteprima di Toronto, avete letto qualcosa sui grandi quotidiani, o ne avete sentito parlare al Tg? Ecco, appunto.
SOLDI – Mai come oggi l’inadempienza del settore pubblico nei confronti del cinema è stata volgare e sfacciata. «Lo Stato deve finanziare la cultura, ma mescolare cultura e spettacolo è un imbroglio, dunque io dico: non diamo un euro ai film, si arrangino. Lo Stato ha il dovere di finanziare la cultura che vuol dire varie cose, dalle biblioteche ai restauri. Altra cosa però è lo spettacolo». Sono parole, al solito ispirate, di un beniamino di noi tutti, lo spumeggiante ministro Brunetta. Si commentano da sole, naturalmente, e sono state dette in un momento in cui tutto il governo deve fare quadrato di fronte alla decisione di Tremonti di non reintegrare il Fus, Fondo unico dello spettacolo, la “cassa” del sistema culturale italiano, cinema compreso (forse per poco…). Del mito del cinema italiano assistito abbiamo già scritto su Carmilla, adesso però il livello di scontro si è notevolmente alzato, perché si pretende che la soppressione dei fondi avvenga per motivi ideologici. Non lo nascondono i gazzettieri di destra quando ci propinano simili domande retoriche: “Perché dare soldi pubblici a Castellitto o Stefano Accorsi!?”. E già, perché? In un paese civile, lo Stato dovrebbe finanziare quell’espressione culturale che reputa insindacabilmente degna e di qualità, al di là della sua spendibilità in termini di mercato. Ora invece si contraddice quello che è un principio democratico perché gli artisti (registi, sceneggiatori) sono «gente che ha preso tanti soldi e ha incassato poco al botteghino» (Brunetta); mai che nessuno ricordi come i soldi del Fus assicurino lo stipendio alle sarte, alle costumiste, agli operatori, agli assistenti di regia, agli scenografi, ai carpentieri, agli attrezzisti, agli elettricisti, alle segretarie di edizione, alle truccatrici… e non ad Accorsi e Castellitto, che infatti lavorano tranquillamente in Francia. Poniamo però che sia giusto. Basta sprechi. Pantalone non paghi più. Che si arrangino, ‘sti mangiapane a tradimento. A parte De Laurentiis (Aurelio), che però fa i film che fa, come è suo diritto, vedete in giro “produttori”? Intendiamo quelli di una volta, come lo zio di Aurelio (Dino), o Carlo Ponti, o Alberto Grimaldi o Franco Cristaldi… insomma gente che rischia(va) in proprio perché i soldi da investire ce li ha (aveva). Figure estinte. Oggi anche un bravo produttore (Occhipinti, o Procacci) i soldi li deve trovare. E dove li cerca? Ecco, appunto.