di Girolamo De Michele
Lara Manni, Esbat, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 278, € 16.50
«Esbat nasce come una fan fiction, ovvero come storia di fan liberamente ispirata, nel caso, a un manga (un fumetto giapponese), e poi sviluppata in modo autonomo. Il primo capitolo di Esbat viene pubblicato su alcuni siti di fan fiction italiani, il 20 giugno 2007, l’ultimo — il ventesimo — l’8 ottobre dello stesso anno. La pubblicazione è avvenuta a puntate come gli antichi feuilletton: un capitolo a settimana».
Così, senza fronzoli inutili, l’autrice di questo sorprendente romanzo d’esordio, a 32 anni (dichiarati: ma alcuni indizi ne fanno sospettare meno), Lara Manni. Della quale poco si sa («una che legge e, da qualche tempo, scrive»), quanto a biografia, e ancor meno si vede, quanto a foto o altre immagini che non siano fumetti o Sims prodotti dalla cerchia sempre più ampia dei suoi fan.
La trama di Esbat (qui una breve sinossi, in basso un’immagine di Lara Manni) ruota attorno al fatto che l’autrice di un celebratissimo manga giapponese con fan in tutto il mondo – la Sensei – ignora di aver intersecato con le proprie storie un altrove nel quale i personaggi dei manga hanno una propria realtà, e di averne modificato la vita: ogni svolta narrativa è un possibile che si concretizza nel mondo demonico, e al quale i demoni non possono sfuggire. E lo stesso accade a Ivy, quindicenne emo italiana, anche lei capace di irrompere nell’esistenza del demone Hyoutsuki Da qui, nel dipanarsi degli eventi, assistiamo a quello che David Foster Wallace chiamerebbe “un altro esempio della porosità di certi confini”: come i diversi livelli di quella che chiamiamo “realtà” siano attraversati da processi osmotici, linee di fuga e di penetrazione, squarci illuminanti, ma anche buchi neri catastrofici. In effetti ci sono almeno tre livelli di esistenza: il primo è il mondo cosiddetto “reale”, cioè fisico, nel quale Giappone e Italia sono mondi lontani, collegati da un manga. Il secondo è il mondo demonico, con proprie leggi fisiche e morali, che sottende il mondo degli uomini e delle merci rimanendone separato. Il terzo è quello creato dalla fantasia (la produzione di storie della Sensei), il mondo dei fan collegati attraverso una rete (una rete di mondi nel “mondo”, all’interno di uno dei quali vive Sasaki, uno dei personaggi più emblematici ed enigmatici del romanzo, personificazione di una dimensione della solitudine tutt’altro che consolatoria) e dal desiderio (l’amore della Sensei e di Ivy per Hyoutsuki). Questo terzo mondo, permeabile dai primi due, li tiene in relazione, li sottende e li attraversa.
Si dirà: siamo nel campo del fantasy, dove tutto è permesso, soprattutto l’inverosimile. Dove si cede senza remore all’americanizzazione dell’immaginario (anche se siamo in Giappone…), all’abdicazione della lingua patria alla chiacchiera e all’esterofilia.
Si dirà, e si continuerà a dire: da parte di chi è alieno dal-, o ignaro del-, mondo fantasy. O di chi finge di frequentare anche i “generi”, ma dopo averli ribattezzati e ridefiniti all’interno di categorie dalla denominazione altisonante.
Si potrebbe rispondere ricordando (come ha spesso fatto Valerio Evangelisti) che più volte la narrativa di genere, e nella fattispecie quella “fantastica”, ha lavorato sottotraccia su temi sottovalutati dalla letteratura “alta”. Il punto è che una difesa del fantasy sarebbe, oltre che inutile (per la sordità di chi non vuol sentire), riduttiva verso questo Esbat. Che, oltre o mettere in gioco un robusto e colto apparato narrativo di “genere” — un esempio fra tutti: il dichiarato debito nei confronti di Stephen King, e la presenza implicita dell’inframondo di “quelli di prima” di Lovecraft —, tocca questioni che hanno a che fare col compito del narratore in questa fase storica. Un compito indicato senza alcun intento normativo o prescrittivo, ma con disperata lucidità da David Foster Wallace in almeno due luoghi: nel saggio di (auto)poetica della narrazione E Unibus Pluram, e nel racconto Caro vecchio neon. Come sembra inevitabile con questo autore — con lui come con ogni pietra miliare che ha la capacità non solo di indicare la strada, ma di segnare un prima e un poi — la polisemia di questi testi ha fatto emergere alcuni piani di significato, a discapito di altri. Del primo testo si è letto soprattutto il violento attacco alla televisione: ignorando lo stigma di integralismo reazionario lanciato da DFW verso chi si salva la coscienza proclamando che la televisione e la cultura di oggi sono il male, e il rifiuto della più moderata e consolante versione della critica alla presenza della televisione nella cultura in chiave di conservatorismo illuminato. Ma ciò che DFW si chiede, in un momento di svolta, non è: «che dire?», ma: «che fare?» E la risposta non può che essere: superare l’attuale periodo.
Del racconto inserito nella raccolta Oblio rimane impresso, dopo la morte di DFW, il tema del suicidio, quasi che questo tema non sia stato più volte toccato o alluso da DFW — ma mai, forse, con tanta forza espressiva: è giusto riconoscerlo.
Ciò che resta finora poco attualizzato è il tema unificante di questi due scritti — e forse, assieme ad altri, dell’intera opera di DFW: la natura costruttivistica del cosiddetto “reale”, la sua multistratificazione. E la necessità di trovare forme adeguate all’espressione di questo tema capitale. Di mostrare, ad esempio, come “desiderio” e “dolore” siano agenti della costruzione del reale.
Uno dei meriti dell’identificazione, come NIE, di una galassia (una galassia tra le altre) senza canone — perché al canone irriducibile — è stato la messa in luce, anche in narrazioni non riconducibili al NIE (come Brucia la città di Culicchia — ma questa è un’altra storia) di questo compito, da nessuno prescritto, che i narratori sembrano assumersi. È quanto accade con Esbat, non solo come oggetto cartaceo, ma anche come narrazione che viene diffusa in rete e fruita preliminarmente da una comunità di lettori che ne fanno oggetto di riflessione, ne dibattono i temi, li rilanciano nelle forme della fan fiction. Le forme d’interazione tra lettore e autore, filtrate e modificate dalle possibilità attualizzate dai media, sono il risvolto pratico delle teorizzazioni di Henry Jenkins (Cultura convergente) e Steven Johnson (Tutto quello che fa male ti fa bene): il buon vecchio slogan mediattivistico che invitava a sfuggire al potere dei media facendosi media è ancora valido. Queste forme sono una risposta concreta alla falsa alternativa tra l’accettazione senza filtri delle forme espressive e culturali dettate dai media (nelle varie declinazioni dei pensieri deboli, dei postmodernismi alla anything goes, dell’ironia deresponsabilizzante) e il rifiuto aprioristico degli integralismi, tanto più integrati nella loro impotenza a modificare lo stato di cose esistente quanto più si vogliono e si rappresentano apocalittici. O, mutatis mutandis, tra i linguaggi tanto più indolori quanto più curati che declinano l’interminabile deriva di un millennio che fugge, e la mitologia reazionaria di una lingua da liberare dal “chiacchiericcio” e ricondurre allo stato di “letteratura allo stato puro”: due gemelli diversi dello scrivere alla “guarda-mamma-senza-mani!”.
Il rovescio della trama di queste forme è, nel caso di Esbat, un testo che pone il desiderio come fulcro e punto d’incontro tra i piani di realtà. Ciò che vuole esso compera al prezzo dell’anima, diceva di esso Eraclito ammonendo chi credeva di potervi sfuggire: desiderio che muove dalle trame ai corpi, dalle relazioni alla scoperta del sé, sino a rompere la membrana che rende(va) i demoni impermeabili alle passioni umane. E in effetti, in questa storia, alcune anime vanno perdute nella catastrofe omicida, altre conoscono metamorfosi e nuovi divenire. E nuovi piani di realtà si aprono in una moltiplicazione di finali aperti che non può lasciare impassibile un cultore di Brian De Palma come me. Avendo perso la pubblicazione in rete (ora ritirata) delle due puntate seguenti, mi tocca aspettarle in libreria, e sperare che le voci sulla ritrosia e sui problemi relazionali dell’autrice (di cui riferiscono i rumeurs) non ne limitino la creatività.
Con una certezza: che la timidezza almeno la preserverà dal piangere in pubblico per un premio non assegnatole, dal bere a canna dalla bottiglia dello sponsor, e soprattutto dal salotto di Gigi Marzullo. E non è poco, direi.