di Saverio Fattori
Luca Moretti, Cani da rapina Purple Press, € 12,90
La seconda di copertina inquieta: la frase «Scritto in prima persona da un autore in grado di usare la penna come la pistola» si presta a equivoci e imbarazzi, e la stessa presentazione dei personaggi in apertura è affidata alla fedina penale (es.: “Lo Storto” – Detenzione e spaccio di stupefacenti. Rapina. Lesioni aggravate a sfondo razziale). E per tutti i personaggi è subito chiaro che non c’è speranza, la loro vita sarà inchiodata per sempre al Parco.
Davide, Er Delega, Er Pitone, Sabrinella, Er Gettone: per loro il volo verso il cielo sempre più blu di Rino Gaetano sembrava cosa fatta, un colpo di fortuna arrivato dall’Andalusia con due corrieri distratti, un pallone da calcio ripieno di un tesoro da far fruttare – con prudenza però, perché il culo te lo bruci facile, e qualche boss vero incombe sempre. E Rino Gaetano in sottofondo sembra parlare di loro, Chi sogna i milioni, chi gioca d’azzardo, chi gioca coi fili, chi ha fatto l’indiano, chi fa il contadino, chi spazza i cortili, chi ruba, chi lotta, chi ha fatto la spia. Ma la gravità spinge forte verso la melma del Tevere Zozzo per quelli nati come loro in un quartiere frontiera di Roma, tra case occupate, ragazze madri che battono in pineta, vecchie droghe e nuove droghe: coatti per sempre. Per un po’ puoi giocare alla Banda della Magliana, un autosalone, privé, coca, vestiti di marca, Champagne e rispetto, ma prima o poi qualcosa deve andare storto: la fine è nota. Moretti sembra davvero un testimone attendibile di quella periferia umana in cui tutto è ciclico, dove puoi volare alto per un po’ di tempo, prima che il DNA sbagliato ti sfracella al suolo. Puoi ripulirti, andare agli antipodi, in un luogo gigantesco e amorfo, senza fantasia, mettere al mondo creature, ma il passato ha buona memoria e un giorno torna a cercarti. Il romanzo inizia dove finisce, col funerale della madre di uno dei ragazzi del Parco: la storia che si chiude con quella bara che non trova pace.
Brizio, il narratore di Cani da Rapina, è l’anomalia, lui l’università l’ha fatta, parla con gli avvocati di quelli finiti nei guai, spiega gli articoli dei giornali a tossici e spacciatori. È un bravo ragazzo, una forza misteriosa lo tiene legato al Parco della malora, dove nessuno ha scampo, dove la vita è una caricatura di qualche brutto film. Brizio è il sopravvissuto, perché nessuna vita è inutile, neanche la più disgraziata: Parco e Tevere Zozzo non lo ingoiano, Brizio si fa testimone di vite che si bruciano in fretta senza lasciare traccia, dà dignità a cadaveri ripescati gonfi che non interessano a nessuno. In una storia di ragazzini che hanno giocato con le stecche di fumo e i cani da combattimento che si scannano tra loro – «Grande passione quella per i cani:collari da mucca chiodati e guinzagli cortissimi per tirar su le vibrazioni e ruggiti fino al cuore», i cani bastardi sono più feroci che quelli di razza allevati ad anabolizzanti, non hanno niente da perdere e hanno poche speranze di venirne fuori bene. Come per i loro padroni, il combattimento, la guerriglia di strada è la loro condizione normale, se la giocano meglio.
All’inizio il romanzo sembra perdersi nella descrizione di queste schegge credibili di una piccola criminalità di quartiere, i personaggi sembrano faticare a prendere sostanza, poi la parabola del declino di questa piccola banda di disperati prende velocità, i conti tornano tutti e qualche difetto di ingenuità dell’autore si fa perdonare. Nel post-Banda della Magliana si naviga a vista, anche il libro a volte sembra perdersi, ma come narrazione in presa diretta non poteva permettersi furbizie di meccanica giallistica troppo rodata (come quelli ben congegnati da Angelo Petrella): in Cani da Rapina l’urgenza di scrivere di cose vissute ha preso il sopravvento, e questa caratteristica ne diventa il maggior difetto, ma anche il maggior pregio.