di Giuseppe Genna

In un intervento che considero abbastanza centrale e che ho ripubblicato sul mio sito, Valerio Evangelisti pone una questione importante sui rapporti tra letteratura, immaginario e realtà, partendo da considerazioni politiche e rimettendo in discussione lo statuto della cosiddetta letteratura “bianca”, geneticamente minimalista per trasformazione sua propria in questo tempo. Sulla natura della contrapposizione tra minimalismo e massimalismo effettuata da Evangelisti, va precisato che si tratta di affrontamento di temi cruciali della realtà e della psiche, cioè dell’àmbito biopolitico, non escluso l’immaginario stesso. Da una parte il minimalismo è una reductio ad stilem supportata da una psicologizzazione o una reductio ad realitatem non supportata da una forma adeguata ai tempi. D’altro canto c’è il percorso massimalista, accidentato, ma bene emblematizzato da un genere letterario, la fantascienza o meglio il fantastico, la cui estensione tenterò di determinare.

Scrive infatti l’autore di Tortuga:

Mentre la letteratura “alta” si compiace di ignorare tutto ciò, nei piani bassi della narrativa c’è chi ne ha fatto da tempo il proprio oggetto. Alludo alla fantascienza. Non a tutta, è chiaro. Se c’è una cosa che vi abbonda è la paccottiglia. Ma il genere è per sua natura massimalista, e incline a occuparsi di grandi temi: trasformazioni su larga scala, sistemi occulti di dominio, società alternative, effetti tragici o bizzarri della tecnologia. Come il più balordo degli spaghetti-western poteva contenere grande cinema, così il più illeggibile dei romanzi di fantascienza può contenere grandi intuizioni. Magari si disperderà in avventure fini a se stesse, in profili psicologici abborracciati, in semplificazioni degne di una favoletta per bambini. Ciò che non potrà mai tollerare è il minimalismo, estraneo al suo codice genetico.

A prima vista, sembrerebbe una dissertazione che l’ondata del noir italiano ha abbattuto negli ultimi anni. Non è così. Poche righe sopra, infatti, Evangelisti ha già chiuso il discorso, con una folgorante dissezione del genere nero:

Certo, la letteratura “bianca” si trascina dietro la propria antitesi, il roman noir. Qui il sociale, la strada, la vita metropolitana, il conflitto hanno un ruolo importante. Non ve ne hanno, però, salvo rari casi, le strutture planetarie del sistema, i cambiamenti epocali, le modificazioni psicologiche e comportamentali indotte dallo sviluppo tecnologico. La vicenda si risolve, in fondo, nello scontro tra pochi individui animati da passioni eterne: l’odio, la vendetta, l’amore, la sete di giustizia. Il massimalismo della cornice si risolve nel minimalismo dello svolgimento. Poliziotto corrotto, o dubbioso, o onesto, contro criminale onesto, o dubbioso, o corrotto. Non è sempre così, per fortuna, ma lo è assai spesso. Se non altro, però, viene chiamato in causa il sistema nel suo assieme. E’ un minimalismo più grande, o un massimalismo rimpicciolito. Due passi avanti e uno indietro.

C’è, credo, da soffermarsi su questo passo, perché viene espressa una posizione fondamentale delle modalità espressive allargate di Evangelisti: il quale è narratore, ma anche saggista — esprimendo la medesima poetica attraverso medium letterari differenti. Si tratta sicuramente, quanto alla produzione e narrativa e nonfiction, di una poetica emblematica e fortemente allegorica: esemplificativa, se si vuole stare lontani da categorizzazioni che richiamano tradizioni varie ed eventualmente fuorvianti. Una poetica esemplificativa di cosa? C’è una vulgata (che Evangelisti stesso pare accreditare, spesso con ineffabile ironia) per cui l’allusione sarebbe tutta volta al politico. Come del resto afferma egli stesso nelle righe citate: il massimalismo sembra coincidere con la trattazione letteraria di grandi temi. E invece non sufficit. Poiché si può pure trattare del metatemporale o dell’universale (l’odio, la vendetta, l’amore, la sete di giustizia) e finire in un calderone minimalista. Le categorie massimaliste sembrano essere il corredo quintessenziale a una letteratura di grande respiro, forse anche epica — ma non bastano a determinare il massimalismo della narrazione. Questo, infatti, si configura laddove è messo in una rappresentazione (non necessariamente volontaristica e tantomeno scevra da ambiguità) il Sistema stesso.

Certamente “il Sistema” è un’espressione equivoca. Il politico vi è connesso immediatamente: si tratta peraltro dell’espressione più politica in senso assoluto. E tuttavia, ancora una volta, è il caso di chiedersi: che cosa sarebbe il Sistema?
La cifra della definizione che fornisce Evangelisti è in pratica l’assenza stessa di una definizione in quanto l’oggetto è presente secondo ubiquità non definibile, non concludibile: la liquidità e la vaporosità di strutture di funzionamento del sociale nel nostro tempo, l’entrata in osmosi della questione biologica con quella politica (quando mai, poi, pare chiedersi l’autore bolognese, biologico e politico sono stati disgiunti?), il salto quantico effettuato dai piani cognitivo ed emotivo — ecco il ritorno al centro della scena da parte del Leviatano, figura essa stessa emblematica, occhio del maelstrom di qualunque atto narrativo o saggistico di Evangelisti. La narrazione del Potere è, a tutti gli effetti, qualcosa che (per quanto interpreti io) surclassa qualunque categoria metatemporale: l’odio presuppone una configurazione di poteri, così come la vendetta, l’amore, la sete di giustizia.
E’ dunque un radicalismo di specie assai diversa da quella desumibile a una lettura superficiale, ciò a cui Evangelisti allude — un radicalismo artistico che è la tradizione stessa della grande letteratura. Se prendo i Demoni di Dostoevskij e ragiono di quanto accade in uno sperduto paesotto della provincia russa, con le sue connessioni elvetiche, con le sue variabili tipologiche che progressivamente rovesciano la psicologia in qualcos’altro — ecco che mi ritrovo un romanzo che parla anche in epoca globale, poiché è adatto a parlare sempre. Ed è adatto a parlare sempre poiché affronta radicalmente la questione del Sistema, cioè la figurazione metamorfica del Potere, che è potenza, vale a dire una tendenza a manifestarsi da parte di qualcosa che potrebbe anche non manifestarsi. Struttura sottilissima da cui emergono, quando il Potere trova (e le trova senza requie) le sue marionette incarnative, meccaniche schierate proprio contro l’umano, che è a sua volta determinato da quel corollario epico fatto di rapporti (relazione con la Legge, relazione con l’Altro, relazione con Sé, relazione con il Principio di Realtà).
In breve: Evangelisti allude al nucleo apparentemente vuoto del Potere, della potenza antiumana che parla attraverso l’umano, della questione ultima che è la manifestazione stessa della specie (sopravvivenza e vita, secondo contrazioni in sistole e diastole). Ancora più in breve: Evangelisti allude al nucleo metafisico del Potere.

Il 17 febbraio 1982, nel corso di una lezione dedicata all’Ermeneutica del soggetto, il filosofo Michel Foucault, comunemente inteso quale antimetafisico per anonomasia, pronuncia le parole di una svolta che, a tutt’oggi, fa discutere gli specialisti. Dice Foucault:

E’ probabilmente un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, quello di costituire un’etica del sé, poiché di fatto non si dà dopotutto altro punto, primo e ultimo, di resistenza al potere politico se non nel rapporto tra sé e sé.

Questo rapporto tra sé e sé, connesso col punto fondamentale di resistenza all’assalto da parte del potere politico, non è un rapporto tra gli io. E’ tra me e me, non tra te e me, che si gioca la sfida di costituire un’etica del sé e un dispositivo di azione resistente al potere politico. Sempre nel 1982, in un seminario tenuto all’Università del Vermont, specifica Foucault:

Le tecniche del sé, che permettono agli individui di eseguire, da soli o con l’aiuto di altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima, sui pensieri, sui comportamenti, sul modo di essere; e di trasformare se stessi allo scopo di raggiungere uno stato di felicità, di purezza, di saggezza, di perfezione o di immortalità.

Non accade che Foucault aderisca all’estetica spirituale; anzi, continuerà a criticarla fino all’ultimo dei suoi giorni. Egli tuttavia individua nel lavoro tra sé e sé un momento di confronto insuperabile tra l’umano e il Potere. Tra sé e sé significa: percezione dei sensi, anzitutto; elaborazione intellettuale; attività inconscia; memoria; coscienza; autoconsapevolezza. E, sia detto non tanto en passant, immaginario.
L’immaginario quale agone tra Potere e umano è un’istruzione prearistotelica (per quanto concerne l’Occidente), che ha poi assunto varie declinazioni. I fantasmi esistono e chiamano a consapevolezza. E’ in questo punto che si fa l’intero discorso, indifferentemente artistico e politico, di Valerio Evangelisti: poiché nell’elaborazione fantastica si dà il conflitto serrato con un elemento antiumano che abita l’uomo, e che è il Potere.

Evangelisti:

Viene il sospetto che il fantastico, e in particolar modo la fantascienza, rappresentino il solo modo per descrivere adeguatamente, in chiave narrativa, il mondo attuale.

Questo primo livello di azione parrebbe il comandamento di un realismo mimetico in àmbito letterario, e invece si tratta del suo opposto polare. Se il problema sembra darsi con l’accento posto al problema della descrizione del mondo attuale, si potrebbe credere che in questione è quell’articolato dispositivo più-che-retorico costituito dalla mimesi. Tuttavia e in primo luogo, la descrizione non è detto che sia imitazione. La descrizione dispone essa stessa di una retorica, tra cui quella assai miscompresa dell’epokè, cioè della capacità di assenza di giudizio. In secondo luogo, l’oggetto della descrizione (il mondo reale) è stato già definito da Evangelisti come immateriale che ha effetti materiali, come sistema di informazioni false che agiscono come spettri (letteralmente: come fantasmi). Ciò a cui sta rivolgendo la sua attenzione l’estensore di Alphaville è dunque: in quale modo è possibile lavorare alla modalità di descrizione di ciò che accade? Non c’è scampo: lo si può fare solo tra sé e sé, il che non implica per nulla un abbandono del mondo — anzi, implica piuttosto il suo contrario: un’estrema attenzione e partecipazione al mondo, mentre matura internamente la forma di sguardo (e quindi l’espressione) dell’oggetto. Tutto questo mobile e non algebrico protocollo è per Evangelisti il fantastico.

Quale letteratura è fantastica? I critici contemporanei, abituati a quella macchina etichettatrice che è la teoria dei generi, risponderebbero con esempi di titoli i più diversi, dividendosi in partigiani di un realismo solido fino alla stolidità e in entusiasti della contaminazione in nome dell’onirico. Non è mia intenzione affrontare una questione tanto ridicola, per risposte e impostazioni — il che costituisce un sintomo dell’imminente fine della critica contemporanea e del ritorno alla teoria letteraria per exempla. Piuttosto vorrei chiedermi cosa non sia fantastico nell’operazione artistica: l’utilizzo di frammenti di memoria che vanno ad aggregarsi ineditamente grazie alla facoltà “regina” immaginativa? Essi sono “reali” e non fantastici? L’esito sociale che sortiscono le grandi narrazioni universali? Ma è la stessa realtà esterna a immergere l’umano in un processo alienativo (nel senso che separa me da me stesso), come precisamente descrive Evangelisti nel passo che segue:

La comunicazione capitalistica punta ormai direttamente all’inconscio. La produzione di simboli, un tempo affidata a evoluzioni secolari, è diventata frenetica. Lo smarrimento della propria identità è spudoratamente agevolato. Di contro, informazione e comunicazione sono state scisse quando ci sono in ballo grandi temi.

e

Non si capisce nulla della società attuale se non si tiene presente la rapida colonizzazione dell’immaginario che è stata attuata in questi anni.

laddove il capitalismo non è altro che una delle indeterminate forme che incarnano la potenza del Potere, costituendo un Sistema. Si tratta però della peculiare forma sistematica che il Potere ha assunto nella nostra epoca in Occidente. Non che il fenomeno della colonizzazione dell’inconscio sia estraneo a forme precedenti di incarnazione della potenza di Potere: si pensi a quanto è stato realizzato in secoli dalla Chiesa militante e trionfante, attraverso un’emanazione del simbolico, che è da discutere se è correttamente derivativa dalle Scritture a cui si è rifatta.
Non si tratta, del resto, di un’analisi nuova, tantomeno di un’analisi ignota a Evangelisti. Il quale si pone però un problema differente rispetto all’analisi (sia essa weberiana o marxista-leninista o che altro). Egli si pone infatti il problema espressivo che segue all’analisi. E, nel fare ciò, punta poeticamente sulla centralità del fantastico.
Il fantastico come realtà induce a considerare alcune categorie sue proprie (tempo liquido, spazio trascendibile, annullamento della solidità della vita fisiologica come unica forma di esistenza, retoriche specifiche). La linea Maginot dell’espressione è il fantastico, a tutti gli effetti: è lì che si dà il momento di massima resistenza al potere politico, esattamente come si induce dalle parole su citate da Foucault.
E’ tuttavia con un parallelo a Ernst Bloch che si può rimandare la visuale proposta da Evangelisti. Scrive infatti il filosofo tedesco nel 1959, in Il principio Speranza:

Gesù stesso non apparve affatto così intimo e così volto all’al di là, come lo vuole, a partire da Paolo, un’interpretazione mistificante sempre comoda alla classe dominante. […] Gesù Cristo non ha mai detto “il regno di Dio è interiore in voi”; la frase ricca di conseguenze (Lc 17, 21) suona piuttosto testualmente “il regno di Dio è in mezzo a voi”; essa era detta ai farisei, non ai discepoli. Essa significa: il regno vive già fra voi farisei come comunità eletta in questi discepoli; il significato è quindi sociale e non interiormente invisibile. Gesù non ha mai detto “il mio regno non è di questo mondo”; questo passo è interpolato da Giovanni (Gv 18, 36) ed esso doveva servire ai cristiani dinanzi a un tribunale romano. Gesù stesso non ha tentato di darsi un alibi davanti a Pilato con un vile pathos dell’al di là. […] “Questo mondo” è sinonimo di quello ora sussistente, dell’eone presente, al contrario “quel mondo” dell’eone futuro (così Mt 12, 32; 24, 3). […] “Quel mondo” è la terra utopica, con il cielo utopico sopra di essa; in coincidenza con Isaia 65, 17: “Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra; e le cose di prima non saranno più rammemorate e non verranno più alla mente”. Ciò a cui si aspira non è un al di là dopo la morte, dove gli angeli cantano, ma il regno dell’amore terrestre e sovraterrestre di cui la comunità primitiva doveva costituire già una enclave. Solo dopo la catastrofe della croce il regno di quel mondo venne interpretato come al di là, soprattutto dopo che i Pilato, anzi i Nerone stessi erano diventati cristiani; infatti per la classe dominante tutto consisteva nell’allentare nel modo più spirituale possibile il regno dell’amore.

Bloch descrive la storia di un processo di separazione: l’utopico viene separato dallo storico, dal qui e ora. Così il metafisico è separato dal mondano e il fantastico dal reale. Ciò avviene come esito dei dispositivi (anche linguistici e immaginari) impiegati dal Potere. In Ateismo nel Cristianesimo, Bloch esplicita questa distinzione all’interno del marxismo stesso:

È dunque senza alcun dubbio proprio della corrente fredda del pensiero marxista il penetrare la storia precedente e le sue ideologie con sguardo investigatore; ma l'”a-che-scopo” cercato, ovvero lo scopo lontano in cui è insita l’umanità di questo penetrare, è sicuramente proprio della corrente calda del marxismo originario, e dunque del testo fondamentale del “regno della libertà” che si manifesta primariamente nella forma Cristo. […] Ma esiste pur sempre una corrente calda, e le conseguenze della sua omissione si possono notare nel troppo grande progresso dalla utopia alla scienza. Anche la corrente calda ha bisogno della sua scienza: e non come assenza di utopia, ma come utopia finalmente concreta.

La scienza dell’utopia finalmente concreta è ciò a cui Evangelisti allude utilizzando il termine “fantastico”.
Tuttavia, se si considera la prassi poetica del creatore di Eymerich, si osserveranno significative distanze dall’analisi blochiana, che ho utilizzato ad exemplum in maniera maliziosa. Per un apologeta e adepto del fantastico come Evangelisti, infatti, non si danno categorie come interno ed esterno, intimo e sociale, scienza e immaginazione: si dà un’irradiazione di potenza unica, nel momento in cui la forma è trovata. La supposta nobiltà della forma è una convenzione sociale, destinata a tradire la tradizione soltanto se questa è riguardata sotto la specie di una lingua di superficie. L’utilizzo cromatico, e dunque vibratorio, dei personaggi e delle scene, i loro rapporti, i dialoghi e le visioni della narrativa di Evangelisti attendono un lavoro interpretativo rigoroso, che tenga presente i termini di formazione dell’autore e il suo approdo a un fantastico che coincide con l’atto antipolitico: atto antipolitico che è il più politico che l’umano può compiere.

Scrive Plotino nella quinta delle sue Enneadi:

La grande anima sia oggetto di investigazione da parte di un’altra anima, liberata dall’inganno e da quanto incanta le altre anime, in una condizione di calma. Calmo sarà non soltanto il corpo fisico in cui si trova e i processi del corpo stesso, ma anche tutto ciò che le sta attorno: calma la terra, calmi il mare e l’aria, e il cielo stesso in silenzio. Sia formulato il pensiero dunque che l’anima, come venendo da fuori e riversandosi ovunque in questo universo immobile, vi scorra internamente e penetri e illumini ovunque.

Questo esercizio di visualizzazione, che è una tecnica del sé secondo la definizione di Foucault, è uno dei percorsi possibili dell’immaginario. Esso ha una tradizione plurima: dagli albori dell’umanità a oggi, in qualunque cantone del pianeta l’uomo sia apparso. Se non accolto separativamente, come spiritualità che annulla il mondo, tale esercizio emblematizza bene il percorso che sortisce il fantastico in chi lo pratichi.

Lo sfruttamento delle retoriche umanistiche e delle visuali letterarie, da parte di un Potere che utilizza anzitutto il simbolico, per giungere a un alto grado di condizionamento e controllo, è del tutto naturale: ciò che divide imita ciò che unisce, e nel fantastico la divisione tra interno ed esterno, tra uno e altro, ricade sotto una grammatica dell’indistinzione. La potenza che si incarna in Potere non può d’altronde arrivare a colonizzare la stessa attività di elaborazione fantastica che viene praticata da chi è teso a esprimere il fantastico. E’ come se il minore avesse la pretesa di essere il maggiore: semplicemente non può. In questo senso va inteso il massimalismo secondo Evangelisti. Il Sistema non può sfruttare la dinamica fantastica, poiché essa si è già spostata inafferrabilmente lontano dal luogo in cui il Potere va ad attingere dalle immagini fantastiche che si sono nel frattempo depositate. Il Sistema non inventa niente.

Perché, dunque, la fantascienza? Perché essa è la prima incarnazione letteraria del fantastico adatta a questi tempi.

Evangelisti, che è assai lucido rispetto alle trappole in cui è caduta la critica giornalistica contemporanea, non parla di “genere”, bensì di “corrente letteraria”. E’ una modalità a mio avviso piuttosto corretta per inerire a un dato di fatto ineludibile: in narrativa esiste un continuum, come se la letteratura fosse un fiume e nei fiumi abbiamo correnti superficiali o profonde, temperature differenti, salti improvvisi della sostanza liquida, balzi, gorghi. Uno scrittore che amo poco, Milan Kundera, in un libro che amo poco, L’arte del romanzo, cerca di descrivere il supposto andamento acqueo (non il tracciato!) di questo fiume che è la letteratura:

Don Chisciotte partì per un mondo che si spalancava davanti a lui. Poteva entrarvi liberamente e tornare a casa quando voleva. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato. L’inizio di Jacques le Fataliste sorprende i due eroi già in cammino: non sappiamo da dove vengono, né dove vanno. Si trovano in un tempo che non conosce frontiere, al centro di un’Europa per la quale il futuro non potrà mai finire. Mezzo secolo dopo Diderot, in Balzac, il lontano orizzonte è scomparso come un paesaggio dietro quegli edifici moderni che sono le istituzioni sociali: la polizia, la giustizia, il mondo della finanza e del crimine, l’esercito, lo Stato. Il tempo di Balzac non conosce più l’ozio beato di Cervantes o Diderot. E’ ormai a bordo del treno che chiamano Storia. Salirvi è facile, il difficile è scenderne. Pure, questo treno non ha ancora nulla di spaventoso, anzi ha delle attrattive: a tutti i passeggeri promette avventure, e con esse onori e trionfi.
Più tardi ancora, per Emma Bovary, l’orizzonte si restringe fino a diventare una sorta di muro. Le avventure stanno dall’altra parte e la nostalgia è insopportabile. Nella noia della quotidianità, sogni e fantasticherie acquistano importanza. L’infinito perduto del mondo esterno viene sostituito dall’infinito dell’anima. Fiorisce così la grande illusione dell’unicità insostituibile dell’individuo, una delle più belle illusioni europee.
Ma il sogno dell’infinito dell’anima perde la sua magia nel momento in cui la Storia, o quel che ne è rimasto, forza sovrumana di una società onnipotente, si impadronisce dell’uomo. Non gli promette più onori e trionfi, ma al massimo un posto di agrimensore. K. di fronte al tribunale, K. di fronte al castello, che cosa può fare? Molto poco. Può almeno sognare, come faceva Emma Bovary? No, la trappola in cui si trova è troppo terribile e assorbe come un aspiratore tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sentimenti.

E’ una lettura ambigua delle cose, rispetto alla quale non concordo in una sillaba che sia una. Tuttavia, l’ambiguità fornisce alcuni vantaggi, che vorrei sfruttare. Poco importa se Kundera, partendo dagli autori, finisce per parlare di quello che fanno i personaggi; poco importa se Don Chisciotte da subito affronta la questione del Potere e del rapporto tra pensiero e pensiero; poco importa se ciò che per Kundera è “anima” consiste in realtà nell’attività psicologica ed emotiva di un personaggio di invenzione; poco importa se Kafka viene misinterpretato, al punto da non rendersi conto che egli ha scritto un Don Chisciotte di trenta righe, in cui Sancho Panza confligge con il Diavolo a colpi di strategie retoriche. Conta invece questo fatto: lo spostamento, che effettua una visione decadente della cosiddetta modernità, da una narrazione onnipotenziale a una narrazione suppostamente legata alla Storia (qualsiasi cosa sia la Storia), in cui il personaggio individuale sarebbe schiacciato. Si parte da questa condizione, nelle parole di Kundera: “Si trovano in un tempo che non conosce frontiere, al centro di un’Europa per la quale il futuro non potrà mai finire”. Lo scrittore boemo non si accorge che si parte dalla fantascienza.
E dove si arriva, secondo questa lettura? Si arriva a Kafka. Al Castello. Un romanzo che non lo è, stando ai canoni della modernità, e nel quale sorprendiamo, come in Jacques le Fataliste, un eroe già in cammino, che non si sa da dove venga e dove vada. Certo, finisce in un villaggio, a fare l’agrimensore: colui che ha la funzione di certificare confini secondo le norme. Ma è davvero un agrimensore? Finirà per compiere questo lavoro? No. Il Castello lo tiene sospeso. L’emanatore della norma si oppone a colui che dovrebbe applicarla per bene. Come andrà a finire? Nessuno lo sa: il libro di Kafka non è mai stato concluso. L’agrimensore Kafka non ha tracciato i confini del suo campo.
Questa possibilità aperta è, a mio avviso, ciò che sostanzia la letteratura fantastica a cui guarda Evangelisti. Il campo c’è ed è apertissimo. Di fatto: è una metonimia totale. Il campo è la letteratura, il campo è la psiche, la psiche è individuale e collettiva, il campo è oltre la psiche.

Non così nella storia nera o gialla. Peter Handke conclude il suo metaromanzo L’ambulante in questo modo, che vale più di qualunque ingaggio critico:

Quando il caso non esiste più, la storia gialla rientra nella realtà. Per dare un’idea della realtà, se ne enumerano ancora una volta gli aspetti quotidiani. Si fa vedere che non ha più storia. Tutto è in ordine, e quello che non è in ordine non viene più descritto. La deviazione rappresentata dal delitto è stata eliminata. Tutto si ritrova al proprio posto o si muove nella propria direzione. Appena chiarito, il delitto è trascorso da tanto tempo che non è più vero.

Quando Evangelisti reclama la necessità di una “una narrativa massimalista, autoconsapevole, che inquieti e non consoli”, credo proprio che intenda una narrativa in cui “quello che non è in ordine viene descritto”.

Chi sono, dunque, questi personaggi che rubano la scena all’onnipotenzialità del romanzo originario? Sono i personaggi non fantastici. Non sono certamente Don Chisciotte, ma nemmeno Gordon Pym, K., Bartleby, Benito Cereno, Bill Lee, Tyrone Slothrop, Eric Packer, Daniel 24 — almeno tanto quanto non lo erano Prometeo incatenato e i suoi compagni della tragedia classica, o l’Orfeo che assorda le sirene in Apollodoro mentre gli Argonauti navigano in uno spazio illimitato e ignoto, o Ermione nel racconto invernale shakesperiano (laddove un personaggio si chiama Perdita). I personaggi tolkeniani non hanno l’“anima” che pretende Kundera. Le macchine asimoviane neppure. Non un personaggio di Philip K. Dick ha quell’“anima”. Ciò non significa che non pensino e non raccontino ciò che pensano. Piuttosto: non è su ciò che pensano l’accento posto dalle narrazioni che li riguardano. Continuano a pensare, ma si muovono rispetto ad altro, non è il pensare e il sentire che interessano ai loro creatori e tantomeno ai loro infiniti lettori.
Intendeva questo, Kafka, quando nei suoi Diari annotava esasperato: “Basta con tutta questa psicologia!”.

Il personaggio di “una narrativa adeguata ai tempi”, la quale viene identificata con una letteratura che faccia perno sul fantastico, ha proprio in Kafka un esempio denso di significazioni: talmente tante, tali significazioni, da svuotarsi di significazione, permettendo un itinerario allo scrittore e al lettore — un percorso al silenzio, dopo avere compiuto l’esperienza dell’opposizione con la potenza del Potere. L’esempio a cui mi riferisco è Odradek. Quale personaggio è Odradek? Letteralmente, questo:

C’è chi dice che la parola Odradek derivi dallo slavo e cerca, di conseguenza, di spiegarne l’etimologia. Altri invece pensano che derivi dal tedesco e sia soltanto influenzata dallo slavo. L’incertezza delle due interpretazioni consente, con ragione, di concludere che nessuna delle due coglie nel segno, tanto più che né con l’una né con l’altra si riesce a dare un senso preciso alla parola.
Naturalmente nessuno si darebbe la pena di studiare la questione, se non esistesse davvero un essere che si chiama Odradek. Sembra, dapprima, una specia di rocchetto di filo piatto, a forma di stella, e infatti pare rivestito di filo; si tratta però solo di frammenti sflilacciati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati fra di loro e di qualità e colore i più diversi. Non è soltanto un rocchetto, perché dal centro della stella sporge in fuori e di traverso una bacchettina, a cui se ne aggiunge poi ad angolo retto un’altra. Per mezzo di quest’ultima, da una parte, e di uno dei raggi della stella dall’altra, quest’arnese riesce a stare in piedi, come su due gambe.

Elusivo da qualunque interpretazione, il personaggio Odradek (che parla, ride e può sopravvivere al narratore dando a costui un dolore) è un personaggio fantastico a pieno titolo. La sua elusività non è tale da non permetterne interpretazioni. Il fantastico fallisce soltanto nel momento in cui la lettura del fantastico stesso va a cristallizzarsi in un unico significato (e ciò è un errore non soltanto del lettore, ma possibilmente anche dello scrittore: se la forma del personaggio fantastico non è opportuna, accade proprio che l’esito sia di potere mettere come sotto ambra un essere che vola — l’esito, a questo punto non è letterario). Su Odradek si esprime così, per esempio, il filosofo Slavoij Žižek :

Odradek — in quanto oggetto transgenerazionale (svincolato dal ciclo delle generazioni), immortale, al di là della finitezza (perché al di là della differenza sessuale), al di là del tempo, e che mostra di non avere alcuna attività diretta a qualche scopo, nessun fine, nessuna utilità — è l’incarnazione della joissance: “Jouissance è ciò che non serve a nulla”, come dice Lacan nel Seminario XX. Ci sono diverse rappresentazioni della Cosa-jouissance – un eccesso immortale (o, meglio, non-morto) — nell’opera di Kafka: la Legge che in qualche modo persevera senza propriamente esistere, che ci rende colpevoli senza farci sapere di cosa siamo colpevoli; la ferita che non guarisce e non ci lascia morire; la burocrazia nel suo aspetto più “irrazionale”; e — ultimi, ma non da meno — gli “oggetti incompleti” come Odradek. Essi mostrano tutti una specie di terribile “cattivo infinito” falsamente hegeliano — non c’è Aufhebung, nessuna risoluzione adeguata, la cosa semplicemente si trascina… […] Kafka era ben consapevole di questo profondo legame tra la burocrazia e il divino: è come se, nel suo lavoro, la tesi di Hegel sullo Stato come esistenza terrestre di Dio fosse stata “infettata”, come se avesse preso una piega del tutto oscena. E’ solo in questo senso che le opere di Kafka mettono in scena una ricerca del divino nel nostro mondo abbandonato e secolarizzato — più precisamente, esse non solo cercano il divino, ma lo trovano nella burocrazia statale.

Ed ecco dunque che, grazie alla talentuoso mentalismo di Žižek, Kafka promana una letteratura che non inquieta più, poiché solo nel senso indicato dal filosofo si dà un’operazione che permette la comprensione di un aspetto centrale in Kafka. A mio parere non esiste quell’avverbio, ma è indubbio che il passaggio individuato da Žižek abbia una sua validità: da un rocchetto che cammina si passa ai fondamenti della potenza del Potere, alla Norma, in un assalto condotto con una claudicanza minuta ma attivissima nel perturbare. La letteratura fantastica manifesta in questo caso la sua potenza, che è precisamente quella a cui inerisce Evangelisti.
E’ da determinare se la narrativa esprima questa potenza in Potere: se, cioè, l’oggetto-narrazione non sia la medesima cosa che pretende di assalire, inoculando inquietudine e domande.

Non lo è. O, almeno, la letteratura fantastica è precisamente individuata da una retorica estrema, che è così riassumibile: ciò che agisce in essa, i suoi personaggi, le sue strutture e i suoi ritmi, le sue immagini, sono proprio ciò che sfugge a una logica di Potere attraverso narrazione. Bartleby enuncia la sua formula sovversiva per ogni linguaggio e per ogni istituzione, compresa quell’istituzione prima e ultima che è “io”: “I would prefer not to”. Così lo Jakob Von Gunten di Walser o il principe Miskin di Dostoevskij o il Gwinplain di Hugo o l’Ariel di Shakespeare o qualunque scrittura di Dick o l’Ulisse omerico (non quello joyciano; per Joyce si deve ricorrere a Finnegan). Insomma, la letteratura è il fantastico e viceversa se e solo se essa irradia l’allusione alla risoluzione della questione Potere — cioè dei rapporti tra umano e Potere, o, ancora più precisamente, dei rapporti tra umano e umano. Conducendo, va da sé, alla domanda onnipotenziale su cosa sia l’umano.

In questo movimento di valutazione della letteratura fantastica, non va perso un fatto che pertiene storicamente alla tradizione culturale dell’Occidente. E’ infatti “letteratura” fantastica quella zona di creazione che cade sotto l’etichetta di “tragedia classica”. Non c’è dubbio che si tratti di qualcosa di fantastico (c’è invece dubbio che sia letteratura qualcosa destinato a essere espresso nel qui e ora attraverso l’azione teatrale). Se si tengono presente gli impliciti richiami effettuati nel suo intervento da Evangelisti, porrei il nucleo della mia (magari sballata) interpretazione proprio in questo punto: il fantastico manifesta la possibilità del tragico e la fantascienza è un genere tragico. Non che citare György Lukács avvalori in qualche modo un’impressione idiosincratica, ma mi trovo proprio a condividere ogni parola di quanto egli afferma in L’anima e le forme e mi viene da accostarlo a ciò che Evangelisti afferma a proposito di una letteratura che sia adeguata ai tempi:

Questa è dunque la paradossalità del dramma e della tragedia: come si può dar vita all’essenza? Come può diventare l’unica realtà, la vera esistenzialità immediatamente tangibile? Infatti soltanto il dramma ‘plasma’ uomini reali, ma proprio per questo, per la sua azione modellatrice, deve spogliarli di ogni dato essenziale. La loro esistenzialità è fatta di gesti e di parole, ma ogni parola che pronunciano e ogni gesto che che compiono sono di più che una parola e un gesto; tutte le manifestazioni della loro esistenzialità non sono che simboli cifrati delle connessioni fondamentali, la loro esistenzialità non è che una pallida allegoria delle loro proprie idee platoniche […].
Questa esistenza non ha spazio né tempo; ogni suo evento si sottrae a ogni motivazione, le anime dei suoi uomini si sottraggono a ogni psicologia. […] Nella tragedia tutto conta, tutto ha la stessa forza e lo stesso peso. E’ una soglia della possibilità di esistere, quella dell’essere-richiamato-alla-vita, ma ciò che può vivere è sempre presentee al tempo stesso tutto è sempre presente.

Non è dunque una banale mimesi, non si tratta di una basale ingenua rappresentazione del cosiddetto “reale” che sfugge alla domanda su cosa sia in effetti il “reale” — non è di questo a cui mi sembra alludere Evangelisti con la sua dissertazione sulla potenza della letteratura.
Che poi essa sia adeguata o meno ai tempi, è un problema storico. Che il tempo non sia adeguato a nessuna letteratura, invece, non è un problema propriamente storico.