di Alberto Prunetti
Sto battendo le strade polverose e sconquassate che circondano il mio albergo, attento a non finire dentro ai canali di scolo del marciapiede e a non essere investito dalle moto che salgono sui marciapiedi per guadagnare qualche metro sul traffico congestionato dell’ora di punta. A Bangalore si torna da lavoro passando anche due ore in mezzo alle nuvole di smog. Metà della strada è senza elettricità e io ormai ci sono abituato. Solo che devo mandare alcuni fax in Italia e il tempo passa senza che riesco a trovare un ufficio con l’abilitazione della linea verso l’estero. Se lo trovo, mi sento dire. “No power”. Non c’è elettricità.
Decido di lasciar perdere. Ho un appuntamento e sono già in ritardo. Raggiungo la casa di un amico indiano. Lo trovo che traffica già attorno alla sua motocicletta nera. Mi sistemo dietro di lui e ci infiliamo nella bolgia infernale che scivola sull’asfalto. Il traffico è presto bloccato anche per le moto e noi siamo addirittura contromano. Alla maniera locale, lui si butta sul marciapiede. Andiamo avanti per trecento metri, ma altri risciò e motociclisti hanno avuto la stessa idea. Sul marciapiede si va in due sensi di marcia (ma solo perché noi siamo contromano anche sul marciapiede). I pedoni si attaccano agli alberi, noi procediamo per un altro centinaio di metri. Poi ci ritroviamo di nuovo fermi, mentre l’aria si fa irrespirabile. Dopo 10 minuti, sull’altro lato della strada (quello dove dovremmo stare noi) i veicoli riprendono a muoversi. Propongo allora di lasciare la moto e prendere un risciò su una strada laterale che sembra più scorrevole: pagherò io e potremo arrivare in tempo al ristorante dove ci attendono alcuni suoi amici per farci un chai, il tè indiano macchiato, forte e dolce, una vera scarica di energia. Affare fatto. L’idea ha funzionato e in venti minuti mi ritrovo già circondato da un gruppo di ragazzi indiani, tutti originari dello stato del Kerala, a un tavolo dell’Hidden Taba.
Assaggio un lungo peperone fritto con le mani (si mangia principalmente con le mani in India e le forchette sono in dotazione solo dei ristoranti più turistici) ma, in un contesto molto libero e divertito, mi dimentico del tabù della mano sinistra: porto il cibo alla bocca con entrambe le mani. A tavola si bloccano tutti, poi qualcuno mi dice “Actually, we don’t eat with the left hand”. Ho fatto una gaffe: la mano sinistra in India è impura e si usa solo per le abluzioni intime.
L’incidente non smorza l’atmosfera rilassata della cena. Acquistiamo per poche rupie un enorme vassoio pieno di veg biryani, un riso vegetariano meraviglioso, guarnito con una salsa di latte di cocco e una frittella con alcune noci. A tavola non ci sono forchette. Mangiare con le mani è difficile e tutt’altro che libero da regole. Prima di tutto lavarsi le mani. Poi fare con la destra una piccola palla col riso, prenderlo dal basso con la mano quasi questa fosse un cucchiaio, sporcandosi solo le falangi, in particolare indice medio e anulare (guai a sporcarsi il palmo: sarebbe roba da barbari, quasi come usare la sinistra). A questo punto bisogna portare il riso alla bocca evitando di abbassare troppo la testa, spingendo con il pollice quasi fosse una molla, senza far troppo entrare le tre dita tra i denti. Non è facile e ogni boccone inserito con successo viene celebrato con un piccolo applauso, mentre una risata accompagna i tentativi più grossolani.
Arriva a tavola un po’ di tutto, ma io scelgo solo piatti vegetariani. Da un occidentale, ci si aspetta che sia un gran mangiatore di carne. Io non sono vegetariano, ma la cucina vegetariana indiana è superlativa e gli sguardi che ho gettato in certe macellerie prive di frigo e piene di mosche mi hanno fatto desistere dalla voglia di provare il pollo o l’agnello. Quando mi chiedono se sono vegetariano, prendo una strada di compromesso: spiego che in India sono diventato vegetariano per osmosi.
Però a vedere bene nei menu dei ristoranti pare proprio che la carne faccia da padrona: chicken kebab, fish curry, chicken manchurian. Ogni tanto ci si imbatte anche in una bistecca, se il proprietario è musulmano o cristiano (o ateo non vegetariano, mi viene da rispondere). In effetti, mangiare carne sembra tra le nuove generazioni una scelta antitradizizionale.
Nasce una discussione sul consumo di carne bovina. Con la mia risposta ho fatto la figura del tradizionalista. Un ragazzo ribatte sostenendo che le cose non sono più quelle di una volta, e che i tempi cambiano. Per esempio, lui quando era studente lavorava come operaio in una fabbrica che faceva dei collanti estraendo il midollo dalla spina dorsale dei bovini. Un lavoro duro, che serviva a pagargli gli studi. I suoi genitori non l’hanno presa bene, perché ai loro occhi era un misfatto. Ma lui voleva studiare e nonostante abbia lavorato le ossa dei bovini sacri, si considera un buon indù. “I tempi cambiano”, mi dice lui. “E già”, gli dico io, pensando che lo stereotipo dell’indiano succube delle vacche è proprio una gran bufala, tanto per rimanere in tema di bovini.
In realtà quella dell’India come paese religioso pieno di tabù è una visione orientalista alimentata da stereotipi radicati nello sguardo degli occidentali. L’india ha una forte tradizione laica e razionalista e l’enfasi sulla spiritualità indiana, considerata un attributo nazionale, è una risposta al colonialismo britannico, che si installò nel paese introducendo il proprio primato tecnologico e spingendo gli indiani a rafforzare gli elementi spirituali su cui i britannici non avevano possibilità di competizione.
Finiamo di mangiare. Dalla tasca estraggo un rotolo di bīdi — la classica sigaretta indiana arrotolata a mano, col tabacco avvolto in una foglia di tendu e legato da un filo di cotone. Le bīdi sono un souvenir esotico di tanti visitatori occidentali, ma in India sono fumate perlopiù dai poveri, dai fuori casta e dai contadini. I ragazzi mi guardano perplessi. Poi uno di loro mi offre una sigaretta “americana”. Lo ringrazio, ma non fumo sigarette già rollate e ho proprio voglia di una bīdi. Ridono tutti imbarazzati. Un occidentale esotico che si comporta da maleducato fuori casta.
Ma anche questa impasse interculturale dura un secondo. La cena termina convivialmente con un piccolo concerto di rutti. Una manifestazione di apprezzamento del cibo che in India è tutt’altro che volgare, e per la quale non ho bisogno di mediatori culturali per far apprezzare tutta la mia buona disposizione verso i piatti dell’Hidden Taba.