di Marco Martinelli
[Del Teatro delle Albe ci siamo già occupati. Ora il suo direttore artistico, Marco Martinelli, chiarisce cosa lo abbia indotto a trasferire l’attività a Scampia, quartiere di Napoli spesso alla ribalta della cronaca.]
Fin dall’inizio della sua storia, nel 1983, il Teatro delle Albe ha avuto a cuore una visione della scena come specchio e capovolgimento della realtà. Anima e Mondo, insieme. Nel far questo, le Albe hanno sempre pensato che la scena “non bastava”, che occorreva strappare territori e lingue alla società, per rendere il “lavoro dell’attore” qualcosa di utile e necessario, non quel rito estetico (e-stitico) vuoto e fasullo che spesso ci viene imbandito nei teatri con i velluti rossi.
Alla fine degli anni ’80 le Albe hanno scoperto la “Romagna africana”, intrecciando sulla scena attori italiani e immigrati senegalesi, dialetto romagnolo e lingua wolof, reinventando l’Arlecchino della tradizione con i griot africani (del resto, la maschera di Arlecchino nel ‘500 nasceva da quella dello Zanni, ovvero un immigrato bergamasco – lo sapessero i corifei della Lega! – che andava nella ricca Venezia a cercar pane e lavoro…). All’inizio degli anni ’90 le Albe hanno poi fondato la non-scuola, ovvero un metodo di lavoro con gli adolescenti che consiste nel fecondo “massacro dei classici”, per far loro parlare la lingua selvaggia e anarchica di chi ama il rock e il calcio e ignora la “buona educazione” teatrale.
Infine, nel 2005, la non-scuola è stata “esportata” a Chicago, in Bretagna, in diverse città italiane, e infine il contagio è approdato a Scampia, dove è diventata ARREVUOTO, un progetto che ha visto in scena centinaia e centinaia di bambini e adolescenti di quel quartiere. Ma ARREVUOTO non si è limitato a mettere in scena Aristofane, Jarry e Molière: nel 2007, con il sostegno determinante della Fondazione Campania dei Festival, abbiamo dato vita a PUNTA CORSARA, che eredita lo spirito di ARREVUOTO, creando nell’Auditorium di Scampia (un palazzo costruito negli anni ’80 con i finanziamenti post terremoto, e – alla lettera – mai aperto!) un centro vivo per i linguaggi della scena: rap, hip hop, graffiti, letteratura, cinema, fumetti, e alla fine, o all’inizio, il teatro. E così ho presentato il progetto nell’autunno del 2008, facendo leva sul concetto di FARSI LUOGO.
Mentre scrivo, hanno appena sparato a cinque adolescenti che uscivano da una sala giochi a Secondigliano. Non ne hanno ammazzato neanche uno, ma poteva essere una strage, un’altra: un regolamento di conti tra bande, dicono, per il controllo e la supremazia nel mercato della droga. Mentre scrivo Roberto Saviano sta ancora pensando se lasciare o no il suo, il nostro paese, dopo aver fatto capire a tutti che se si spara a Secondigliano il problema riguarda davvero tutti, mica solo Secondigliano. Mentre scrivo impazza sul secondo canale televisivo “L’isola dei famosi”. Mentre scrivo migliaia e migliaia di studenti
occupano le scuole e le piazze per dire che non sono d’accordo con chi
li considera “superflui”. Mentre scrivo chi ci governa continua a ritenere scuola, ambiente e cultura come i settori “inutili”, da tagliare. Da taglieggiare.
Questa è l’Italia. E io che mi sento in cuor mio un patriota, me ne vergogno. E io che sono un regista e un drammaturgo, mi chiedo (non da oggi, ma da sempre, da quando ho cominciato trent’anni fa) che senso abbia il teatro in mezzo a tutto questo. Che senso abbia ancora oggi il piccolo palcoscenico, di legno o di cemento che sia, piantato in mezzo alle tragedie della Storia, in mezzo ai simulacri straparlanti che fanno Spettacolo della Società. E io che mi sento nel cervello una fiamma ostinata e irriducibile, continuo a ripetermi (da trent’anni in qua) che “bisogna piantare il melo anche quando scoppiano le bombe”, come insegnava Martin Luther King.
Quando sono arrivato a Scampia, tre anni fa, sono arrivato come un cittadino che voleva capire l’orrore di una guerra appena conclusa, come un regista che voleva misurarsi con la turbolenza dionisiaca degli adolescenti napoletani (dopo averlo fatto per quindici anni con le Albe, nelle scuole della finta-quieta Ravenna), come un italiano cui il Nord non bastava. ARREVUOTO è stato per me tutto questo. E PUNTA CORSARA ne è stata, ne è a tutt’oggi la diretta, logica conseguenza. Altri pensano che siano sufficienti i fuochi d’artificio, io credo che le opere siano sì fondamentali, ma che anche i teatri lo siano, intesi come ambienti vitali, ecosistemi di cervelli e non solo edifici di mattoni, centri di relazione e scambio tra le persone, isole eretiche dove sperimentare un modo diverso di vivere, non solo di percepire, isole non dei “famosi” ma di coloro che sono affamati di vita. Creare un “luogo”, piantare il melo, comporta un rischio alto come nella creazione di un’opera, e questa è la scommessa di PUNTA CORSARA a Scampia: un impegno quotidiano che richiede e richiederà tenacia e speranza, la forza di saper guardare oltre l’immediatamente visibile. Richiede e richiederà un “colloquio corale”, una scommessa affidata al genio di tanti e diversi, grandi e piccoli, allievi e maestri, attori e tecnici e organizzatori, dove nessuno sia solo spettatore (neanche gli spettatori!), dove tutti avvertano quel luogo che cresce come il “farsi luogo” della viva presenza di ognuno.