di Luca Babrieri
Qui le precedenti puntate.
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Le interviste
Sarà anche silenzioso questo giudice, però le sue interviste le rilascia. Sicuramente dice poco, probabilmente non viola affatto il segreto istruttorio ma non c’è dubbio che le sue allusioni, viste le reazioni dei giornalisti che interpretano come rafforzamento della sua tesi ogni minimo accenno, hanno l’effetto sperato. E appunto perché in Calogero si crede oppure no le sue ambiguità sono accettate come tali, senza tanti traumi. Come la Pizia, Calogero allude, pronuncia una frase potenzialmente rivelatrice ma dalla consistenza ambigua, e poi (idealmente strizzando l’occhiolino come gesto di intesa) ne lascia l’interpretazione, accennando comunque a future rivelazioni, al giornalista. Che, guidato dalla presentazione di Calogero, la interpreta, sempre, come un rafforzamento dell’ipotesi di indagine. «Un’affermazione che posso fare è questa: il principale testimone del processo è Negri”. In che senso? gli è stato chiesto. “Sta a voi valutare — ha risposto — Comunque lo vedrete tra qualche settimana» (Il Giornale del 20 maggio ’79).
Il ritratto di Calogero si viene così a comporre anche di molti veri e propri “autoritratti”. Il 5 luglio sul Corriere della Sera a firma congiunta di Antonio Ferrari e Giancarlo Pertegato esce una delle interviste più significative del procuratore sulla vicenda. Calogero afferma di essere dovuto intervenire perché aveva avuto la sensazione di un dramma per l’Italia. «Ecco, giorno dopo giorno, ho avuto l’impressione che il momento dello scontro finale fosse vicino. La sensazione era proprio questa: l’avvicinarsi di una scadenza tragica per la comunità. Vale a dire la guerra civile e l’atto insurrezionale». Lasciando ora da parte le considerazioni riguardo a questa “percezione”, la situazione descritta è questa: Calogero in pratica, come un supereroe, si accorge di un pericolo immane ed è cosciente di essere l’unico ad averlo capito e quindi l’unico a poter fare qualcosa. E allora cosa fa? Strepita? Avverte l’esercito? Si lancia in un atto eroico? No, porta avanti il suo metodico lavoro di antiitaliano, senza ledere le garanzie delle parti. Infatti «naturalmente questa presa di coscienza non ha accelerato né ridotto i tempi indispensabili all’inchiesta e non ha mutato le sue scadenze naturali. Semmai indotto ad accentuare l’impegno dell’approfondire ricerche in atto da oltre un anno».
A una situazione eccezionale (l’orlo di una guerra civile) il magistrato non ha risposto con la compressione dei tempi necessari ma con un aumento dei ritmi del lavoro che d’altra parte era già in fase avanzata. Ma l’opzione Calogero è in pratica stata l’ultima a disposizione dello Stato democratico. «In sostanza, secondo me — dice Calogero al Corriere — ci siamo trovati di fronte a una delle ultime possibilità per lo Stato democratico di reagire all’offensiva terroristica». Senza dirlo, il magistrato si propone come salvatore della patria. La lettura dell’intervista del 5 luglio è fondamentale per comprendere il modo di procedere di questo magistrato e capire quale concezione stia alla base del cosiddetto teorema. Brani che sono rimasti celebri e sono alla base di tutte le interpretazioni del Calogero-pensiero. «Quali prove concrete ha raccolto contro i cosiddetti capi dell’organizzazione? Fatti specifici?», domandano i cronisti del Corriere. «Pretendere questo mi sembra ingenuo e sbagliato — risponde Calogero — L’accusa non ritiene di aver individuato i manovali del terrorismo ma i loro dirigenti e mandanti. Un dirigente, per la natura stessa del ruolo e del tipo di organizzazione certo non va a fare attentati». Un’intervista a tratti sorprendente. «Può fare un esempio che spieghi l’architettura dell’accusa?» «Ecco l’esempio: Renato Curcio». «Curcio?».« Si proprio Renato Curcio. E’ stato sempre presentato come uno dei capi storici delle Brigate Rosse. Non credo che sia vero. E’ contrario alla realtà. […] Curcio al massimo era un comandante militare. Tutto quello che è stato scritto, attribuendogli altri ruoli è deviante. E in fondo ha tranquillizzato i veri vertici». E’ il luglio del 1979 e Pietro Calogero ha riscritto in poche righe la storia del terrorismo italiano. Una lettura nuova che giustifica tutti i presupposti dell’inchiesta da lui avviata. Mi permetto di sottolineare poi una particolarità del linguaggio calogeriano per cui le prove sembrano essere più a carico della difesa che dell’accusa: «Abbiamo trovato e contestato ad alcuni imputati circostanze che dimostrano, fino a prova contraria…[…] E’ quello che crediamo, ripeto, fino a prova contraria, di avere scoperto». L’intervista, come era già accaduto si conclude con un omaggio ai valori democratici. «Inoltre ho maturato non soltanto la mia esperienza di magistrato, ma anche la mia fede nei valori della democrazia».
Calogero dopo un lungo periodo di silenzio torna a parlare mercoledì 13 giugno del 1984 per un commento alla sentenza di primo grado emessa a Roma. L’intervista viene concessa ad Antonio Ferrari del Corriere della Sera, indubbiamente uno dei migliori ritrattisti di Calogero. Lo schema dell’articolo sembra quello di una resurrezione. «Praticamente lo avevano accusato di tutto: di idee e di libere opinioni; asservito a gruppi di potere; alle supine dipendenze di una parte politica; ostinato difensore di un immaginario e perverso “castello prefabbricato”; uomo in malafede. Spesso ha risposto con il silenzio. Oggi parla. Dopo cinque anni, due mesi e cinque giorni c’è un verdetto: si può discutere ma non è aria fritta». Le parole di Calogero sono “amare”. «Si, c’è l’amarezza — ammette Calogero — di due pesanti accuse che mi sono state rivolte. Accuse talmente gravi da farmi ritenere di esserne moralmente sfigurato. […] La prima: d’essere strumento di una parte politica […] La seconda: di aver impostato il mio lavoro sulla criminalizzazione delle idee e del pensiero». Due accuse false, su questo non c’è dubbio. Ma forse non sono state proprio queste le accuse rivolte a Calogero, se non dal lato “autonomo”, quello meno credibile, diciamo. I dubbi centrali riguardavano ben altro: l’utilizzo di un metodo d’inchiesta “deduttivo” che partiva dai documenti per cercare i fatti da ricollegare alle elaborazioni teoriche, una visione “totalizzante” del terrorismo italiano e insomma una sopravalutazione del ruolo degli imputati. La sentenza di Roma comunque non può che essere salutata positivamente. «Riterrei che la Corte d’Assise abbia riconosciuto la validità dell’impostazione iniziale che indicava l’unitarietà del disegno eversivo, al di là delle articolazioni organizzative in cui, nel corso degli anni, quel disegno s’è fatto concreto, diventando operativo…Ora l’imputazione di associazione sovversiva e di banda armata, in ordine a Potere Operaio, Autonomia e rapporti con le Brigate Rosse, nella convergente prospettiva di attacco allo Stato, è stata riconosciuta dai giudici di Roma». Infine un giudizio sugli effetti dell’inchiesta sul terrorismo: «Il lavoro fatto in questi anni ha contribuito alla sconfitta del terrorismo, almeno nel Veneto». «I dati — aggiunge Ferrari — non gli hanno dato torto. Padova, per anni laboratorio eversivo, sta conoscendo la sua “primavera”».
Anche Repubblica passa la giornata del 12 giugno ’84 in compagnia di Calogero. Roberto Bianchin, come Ferrari, registra la soddisfatta reazione del magistrato. «Pietro Calogero, in maglietta e maniche corte e senza scarpe sul divano del salotto, non lo dice ma è soddisfatto: il suo teorema, duramente contestato in questi anni, ha retto alla prova della prima sentenza. “Non c’è nessun teorema e nessuna intuizione — si arrabbia — semplicemente ho cominciato un’inchiesta e l’ho portata a termine, come prima avevo fatto con l’eversione neofascista, perché sono un giudice, perché è il mio lavoro».
«Mi sembra di essere un sopravvissuto — mormora Calogero — e non tanto per i pericoli diretti contro la mia integrità fisica, quanto per il rischio che le accuse che mi rivolgevano (come quella di essere lo strumento di un partito) potessero stravolgere la mia coscienza e la mia identità»
Cosa teme quindi Calogero? Non il dolore, non la perdita della vita. Ma la perdita della coscienza e dell’identità. Teme la cecità dell’anima.
Insomma: è vero, Calogero parla con gli atti, rilascia pochissime interviste e quando incrocia i giornalisti nei corridoi di palazzo di giustizia parla del tempo piuttosto che dell’inchiesta che sta conducendo. Ma bisogna anche dire che dimostra un’abile capacità nell’arte del rilasciare interviste. E se si facesse il conto probabilmente, in relazione agli altri magistrati, le sue uscite non sarebbero poi nemmeno trascurabili. Di sicuro parla più di Palombarini. Che silenzioso però non viene definito mai.
9. Toni Negri — l’antieroe
Del 7 aprile si ricorda, a torto, un solo imputato: il professor Antonio Negri, docente di Dottrina dello Stato all’Università di Padova. La sua è una figura eccessivamente complessa per poterne delineare i caratteri principali in poche pagine. E’ indubbiamente la star del 7 aprile. E’ il Diabolik dei fumetti, capace di imprese eccezionali, con un’estrema mobilità che arriva a raggiungere l’ubiquità. Di lui si dice di tutto.
Il tratto fondamentale è comunque il suo carattere luciferino (quindi un angelo caduto?), diabolico. A lui vengono attribuite macchinazioni degne di un genio. Si pensi al caso della cena con il magistrato Emilio Alessandrini, già spiegata in precedenza. Quella che i quotidiani delineano è una personalità caratterizzata da una lucida follia: avrebbe invitato a cena, proprio nei giorni del sequestro che avrebbe organizzato, l’unico magistrato italiano in grado di intuire. Una sfida diabolica con se stesso. E poi (perché Toni Negri, vedremo più avanti è definito anche un po’ pasticcione e soprattutto un vile) lo ha fatto pure ammazzare. Un essere così diabolico tanto da poter prevedere nel settembre del 1978 la pericolosità delle prove foniche nel caso Moro e decidere quindi di partecipare a un convegno per sostenerne la non validità giuridica. La notizia appare in prima pagina sul Corriere e verrà smentita, da quattro docenti che parteciparono a quel convegno, solo sul Manifesto e su Repubblica. Ma assieme all’elemento Alessandrini questa è una delle storie che forse più contribuisce a costruire il Negri diabolico.
Secondo il teste dell’accusa Antonio Romito «Negri a Padova era Dio in terra». Per altri è un «diavolo con gli occhiali». Viene da pensare, accostata alla rappresentazione della Padova fine anni Settanta, a un regno del terrore degno delle migliori eresie anabattiste. Un regno a metà strada con una folle teocrazia, anche perché l’istituto in cui lavora Negri è un vero e proprio «santuario dell’eversione». Per l’Unità del 24 gennaio 1981: «protagonista assoluto e onnipresente: Toni Negri», a lui vanno imputate “violenze, crimini atroci, attentati”.
Negri è un “re” strano: nell’immaginario comanda ma vuole anche agire. E’ pure un po’ impiccione. Toni Negri ideologo innanzitutto e quindi maestro ma anche braccio operativo. Non è lui che telefona a casa Moro? Anche Marco Barbone nel suo interrogatorio dell’ottobre 1980 descrive Negri come un capo operativo. L’articolo è di Ibio Paolucci (Unità, 19 ottobre 1980):
Il professor Toni Negri ad esempio era a conoscenza di come l’organizzazione di cui faceva parte provvedeva ad autofinanziarsi? Sapeva che si effettuavano delle rapine? Marco Barbone non ha dubbi in proposito. Si capisce che lo sapeva. E come avrebbe potuto ignorarlo del resto? Negri — precisa Barbone — non era soltanto il teorico, si interessava di tutto. […] Illustrando la posizione del docente padovano, Barbone dice che egli si presentava come il massimo teorico della struttura. Sentendosi tale, Negri era portato ad elaborare una sintesi politica generale delle correlazioni tra i problemi interni di natura organizzativa e il quadro politico esterno a questa organizzazione. Il professore però — precisa Barbone — era sempre a perfetta conoscenza delle azioni da compiere. Quali azioni? Beh, nelle sede di riunioni, si pianificavano ad esempio gli interventi armati dell’organizzazione.
Il Negri operativo dà una credibilità maggiore a tutte le accuse. Il ruolo di intellettuale mal si attaglia a un imputato accusato di numerose azioni violente. Proprio il carattere diabolico è invece il principio capace di unificare queste due apparenti contraddizioni: stratega e telefonista, ideologo e ladro di francobolli. Toni Negri non sembra essere di questo mondo. Per questo forse i giornali spesso non riescono a scriverne il nome. La grafia “Tony” Negri non è poi così infrequente: la si trova sul Corriere del 22 dicembre ’79, su Paese Sera del 20 maggio 1981, sull’Unità del 2 luglio 1997. Un errore che come minimo accentua il carattere di estraneità.
Il “prof”
La professione di Negri ha la sua bella influenza. Lo status di docente implicitamente porta con sé numerose conseguenze: una responsabilità marcata nei confronti degli allievi (che Negri non ha esercitato), una posizione sociale che potremmo definire integrata. Soprattutto Negri è, in fin dei conti, un dipendente dello Stato Italiano. Quindi lui e i suoi, dicono i quotidiani, hanno usato e usano i mezzi dello Stato per sovvertire l’ordinamento dello Stato. Gli accenni a questo carattere della vicenda sono numerosi. Il PG Francesco Amato dedica al tema parte della sua requisitoria (ripreso da Ibio Paolucci su l’Unità in un articolo intitolato, “Coi soldi dello Stato e con le BR”): «Una caratteristica davvero originale del fenomeno eversivo in Italia — scrive il giudice Francesco Amato nella sentenza di rinvio a giudizio del 7 aprile — è che esso vive e si incrementa utilizzando strutture pubbliche e disponibilità finanziarie dello Stato […] gente che operava attivamente per sovvertire le istituzioni dello Stato, usando, allo scopo, anche i finanziamenti che troppo generosamente venivano loro elargiti da enti dello stesso Stato».
Da notare, di sfuggita, che in molti brani Negri viene preceduto dalla qualifica di “professore” (o “prof”) rinchiuso dalle virgolette. Perché usare le virgolette? Antonio Negri è veramente un professore. Le virgolette in qualche modo servono a sconfessare il titolo, servono ad indicare che, secondo quello scrivente, il titolo è in qualche modo usurpato perché una persona del genere (lo si dirà spesso) non dovrebbe mai aver potuto insegnare.
La professione di docente universitario lascia poi supporre una collocazione sociale medio alta e una retribuzione decente. Più borghesi che proletari insomma. Nella requisitoria di Calogero Negri e i suoi assistenti vengono indicati come «intellettuali borghesi legati a istituzioni e organi dello stato». Lasciando da parte per un momento ogni valutazione sulla veridicità o meno di questa espressione, non si può non cogliere il suo valore simbolico. Questi che guidano e organizzano l’eversione nel nome del comunismo innanzitutto sono “intellettuali” e poi sono anche “borghesi”, sono estranei perciò alla classe che intendono guidare. In più, sono spesso dipendenti dello stesso Stato che vorrebbero sovvertire. Per cui infidi. E sputano pure nel piatto dove mangiano.
L’Organizzazione
Essendo a capo di una organizzazione con la “O” maiuscola Negri, pur essendo capo incontrastato, ha anche dei compagni di avventura. E l’Organizzazione, pur condotta da un capo che si impiccia di tutto, ha anche una sua struttura. Toni Negri ha quindi anche un «braccio destro» che per il Corriere è Emilio Vesce e per l’Unità è Ferrari Bravo.
«Il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero lo considera il braccio destro di Toni Negri […] Nella sua agenda c’era annotato anche un nome “Gallinari”». (Dalla scheda su Ferrari Bravo del Gazzettino del 4 giugno 1982).
Verrebbe da chiedersi insomma quanti bracci destri abbia mai questo Toni Negri. Il “capo”, come detto, non è solo. Ha un suo “regno”, ha il suo “esercito”. Meglio, è il «capo di un gruppo di “fanatici”» (Il Giornale). Il tema del fanatismo è uno degli altri temi ricorrenti. «Per più di un anno, gli organi dello Stato e gli strumenti d’informazione hanno finto di non accorgersene. Il “prof.” Toni Negri, che dopo la battaglia di Bologna del ’77, guidata da Radio Alice, poté riparare in Francia ospite di qualche manutengolo della Sorbona, rientrò in Italia come un Khomeini perseguitato» (Il Giornale del 10 aprile ’79).
E nel campo comunista come si posiziona Toni Negri? Secondo il filosofo cattolico Augusto Del Noce “Berlinguer è la vera e propria antitesi di Toni Negri”. Del Noce si riferisce al Berlinguer continuatore dell’opera di Togliatti, della sua operazione per separare definitivamente il marxismo dall’anarchismo. E non potrebbe essere che così. «Nel pensiero di Negri esiste la più totale chiusura per il riformismo, per il compromesso storico, per l’eurocomunismo, “cartaceo progetto del riformismo”» . E’ importante tenerne conto, perché il personaggio e le caratteristiche che dovrebbero essere quelle private, riflettono anche le contrapposizioni ideologiche.
Fisiognomica
Egli è un uomo magro, quasi ascetico, con un naso prominente. Parla bene diverse lingue, soprattutto il tedesco. Abita spesso a Milano, in via Boccaccio, dove è stato arrestato, ma ha abitazioni pronte ad accoglierlo a Parigi (dove ha insegnato), a Venezia e a Padova. Non gli mancano i soldi.
Fin dall’inizio dell’inchiesta (il brano è tratto da un articolo di Luigi Barzini del 10 aprile) i giornali dedicano una particolare attenzione alla descrizione fisica di Negri. Bisogna ammettere che si tratta di una persona che non passa inosservata. Ma l’attenzione riservata dai quotidiani anche alle sue caratteristiche fisiche travalica le necessità della cronaca. E’ risultato impossibile offrire una carrellata significativa di caratteristiche somatiche: in ogni articolo dedicato a Negri (basta leggere i brani presentati in questo lavoro) non manca una descrizione del protagonista. I caratteri del viso, l’inflessione della voce, i tic, la risata che sembra “un nitrito” e fa paura, sono elementi che vengono utilizzati per dipingere un personaggio da fumetto. L’imputato Toni Negri viene scrutato alla ricerca di elementi che rivelino o confermino colpe e accuse. Quasi un (desolante) ritorno a Lombroso.
A processo
C’è da dire che per la stampa la domanda “chi è in realtà Negri?” finisce per diventare un’ossessione. Dal processo ci si attende anche questo. Dopo quattro anni finalmente si può vedere in faccia il mostro, si possono aggiornare le foto negli archivi dei quotidiani. Tutti tentano di rispondere a questa domanda, scrutano il suo volto, soppesano le sue parole. Riassumono i mille volti di Negri. Come Marco Nese sul Corriere (26 maggio ’83) al primo interrogatorio del professore
Negri, asciutto e molto teso, si è avviato a passi rapidi verso la sedia posta di fronte allo schieramento dei giudici. Lo hanno definito un “visionario”, un “sognatore”, “un’intelligenza astratta senza radici nel reale”. Quel personaggio dostojevskiano che è Fioroni ne ha tracciato un ritratto demoniaco. La magistratura inquirente lo considera il capo di una consorteria carbonara che si prefiggeva lo scopo di provocare in Italia una sollevazione popolare armata. […] Il professore padovano, 50 anni, imputato numero uno al processo 7 aprile, ha lasciato capire che ama essere considerato “un intellettuale puro, che non ha nulla da spartire con i truci rappresentanti del terrorismo”.
«Qualcuno», gli comunica il presidente della Corte Santiapichi, «parla di lei come di una figura carismatica di uno che se ne stava lontano da azioni pur se le aveva programmate». «Toni Negri fa appena un sorriso agro e sardonico», Lietta Tornabuoi, La Stampa, 10 novembre 1982.
«Chi erano, allora, i leader dell’Autonomia organizzata? Angioletti che si dilettavano nelle teorie rivoluzionarie durante le ore dell’ozio? Oppure demoni che oggi si travestono da angioletti? O ancora “cattivi maestri” di una pletora di sbandati, che puntavano alla guerra civile e all’insurrezione armata contro i poteri dello Stato?» (Corriere, 24 febbraio 1983)
Un vero e proprio ritratto di Toni Negri dietro le sbarre lo traccia Paolo Guzzanti sulle pagine di Repubblica il 25 febbraio 1983. Il pezzo, intitolato “E finalmente arrivò il giorno di Toni Negri e dei suoi amici” (ancora una volta gli altri imputati, decine di persone, scompaiono, definiti solo in rapporto a Negri), è sormontato dall’occhiello: “Calmo, elegante, le tempie grigie, un sorriso imbarazzato”.
Lui, Toni Negri, elegante e appena un po’ più grigio alle tempie, sorride e sembra imbarazzato […] Guardiamo l’abbigliamento degli imputati: i vestiti, le sciarpe le cravatte, sono messaggi. Che cosa dicono? Siamo intellettuali che hanno preso un abbaglio storico […] E Toni Negri? Che cosa dice la faccia, e cosa dice la sua buona giacca (ma non splendente, come quella di altri suoi compagni, che sono elegantissimi senza strafare) la sua camicia aperta, senza cravatta? Il professore padovano appare un essere umano chiuso in una gabbia dopo quattro anni di galera. Quel che è. La gente dietro le sbarre stringe comunque il cuore: non è merito loro, è la situazione. […] E’ davvero quel signore celestino e quasi spaesato lo stesso che provava sensazioni frementi, quando poteva, finalmente, calarsi sugli occhi il passamontagna della clandestinità? […] Se oggi c’è qualcosa di clamorosamente borghese in quest’aula è proprio l’immagine che gli imputati danno di se stessi.
Oppure Ferrari (Corriere del 26 febbraio 1983): «Seduto al centro della gabbia centrale, Negri fuma, osserva, parla sottovoce con i compagni. L’immagine del trascinatore probabilmente non gli appartiene, ma di carisma quest’uomo ne ha da vendere. E si avverte sul volto di tutti gli interlocutori: siano essi compagni di carcere o avvocati».
Durante gli interrogatori Negri appare molto teso e nervoso. Capita spesso che abbia piccoli battibecco e scambi di battute con Fausto Tarsitano, avvocato di parte civile ed esponente del PCI. «Negri appare sempre molto teso durante l’interrogatorio. Non gradisce essere interrotto», scrive Marco Nese il primo giugno del 1983. E’ una nuova conferma dell’atteggiamento altero e da professore del docente padovano.
Negri latitante
Ma dopo quattro anni di carcere Toni Negri è anche colui che fugge, che si sottrae alla giustizia con un doppio espediente. Prima si fa eleggere nelle fila del partito radicale (ancora una volta utilizzando quegli strumenti della democrazia liberale che tanto dimostra di disprezzare) e poi, una volta che il Parlamento concede l’autorizzazione all’arresto fugge, contrariamente a quanto aveva sempre detto, in Francia. Quale occasione migliore per i giornali per ricostruire la Negri-story? Il Corriere della Sera lo fa il 22 settembre del 1983 con un lungo articolo di Bruno Rossi intitolato: “Negri, dalle lezioni su Hegel agli anni di Piombo della P38”. Il sommario: “Di famiglia borghese, si iscrive all’Azione Cattolica da dove viene espulso — L’adesione al PSI e i viaggi a Mosca — Autonomia, il carcere e l’elezione alla Camera — Ha detto: «Solo quando se ne andarono da noi, molti giovani hanno incominciato a sparare»”.
Del “diavolo con gli occhiali” (una definizione molto usata) il Corriere fornisce una vera e propria biografia.
Negri, come l’universo sa, è di Padova. Viene da una famiglia che era mini-borghese, e forse meno. (ma nel sommario è solo “borghese”) Il padre, uomo di bottega: tra i primi socialisti a tirarsi fuori dai moderati e a dar corpo al Partito Comunista. La madre, maestra. Con un bisogno matto di lavorare: perché ha tre bambini (e Toni è sui due anni) quando le muore il marito (“I fascisti gli avevano definitivamente distrutto il fegato tanto era l’olio che gli avevano fatto bere, così era morto”) […] La politica la incontra a 18 anni, quando si iscrive all’Azione Cattolica, legge Maritain, Bernanos, Simone Weil e medita (troppo, secondo i vescovi) se ci sia per gli operai una grazia divina diversa da quello che il cielo usa mandare sulla testa dei borghesi […] Espulsione. Iscrizione al partito socialista […] Viaggi politici e uno, decisivo: a Mosca, con colloqui a gran livello. Suslov e altri. Colloqui disastrosi. Furori cattolici, pagine di Hegel, lavoro di partito, delusioni, rabbie per i “dogmatici di Mosca”.
Ma la fuga in Francia ha anche un altro effetto, quello di attirare verso Negri, che aveva promesso di battersi per i suoi compagni di cella, esplicite accuse di tradimento. La ricostruzione temporale, fatta più volte dai quotidiani è la seguente. Appena eletto deputato Negri torna nell’aula del Foro Italico il 2 luglio. Tutti gli imputati lo accolgono con un applauso. Negri si avvale della facoltà di non rispondere in attesa che giunga in porto la richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera. Una volta votata (assieme però all’autorizzazione all’arresto) Negri fugge a Parigi. I suoi coimputati increduli dicono: “Non è fuggito tornerà”. I radicali con Pannella, che lo aveva candidato, si infuriano. La rottura è oramai insanabile. Il 3 febbraio 1984 Ferrari Bravo in aula dichiara che «Negri è stato un vile a sottrarsi al confronto con l’accusa sul caso Saronio».
Crescono così gli elementi che permettono alla stampa di sostenere di trovarsi davanti a un mentitore. Lo scrive nella sua requisitoria anche il PM Marini (15 aprile 1983, Il Gazzettino). «Per lui, il professore Antonio Negri, “mentitore, traditore, crudele”». Sempre il Gazzettino: «il principe dei cattivi maestri».
L’Unità del 13 giugno 1984 è a dir poco esplicita:
Sul caso Fioroni, indaga l’Inquirente, la fuga di Negri ha chiarito, se ce n’era bisogno, la statura del personaggio e la strumentalità della sua candidatura. Il capo di Autonomia, dipinto per una manciata di voti come la vittima-simbolo di una persecuzione giudiziaria e della cosiddetta legislazione dell’emergenza, una volta al sicuro a Parigi, non ha più speso una parola per i problemi della carcerazione preventiva e per i suoi ex coimputati. I quali, dalle gabbie del Foro Italico, lo hanno definitivamente bollato come un vigliacco.
Nel decennale del 7 aprile, a processi definitivamente conclusi, il Corriere della Sera racconta, attraverso il suo corrispondente da Parigi Ulderico Munzi, la festa organizzata dai fuoriusciti italiani. Il pezzo si intitola “7 aprile: Negri saluta con un marameo”. Il racconto ci descrive un Negri festaiolo, un gruppo di terroristi e cattivi maestri che festeggia la stupidità dello Stato italiano.
Ci viene in mente uscendo a notte alta da “L’entrepot”, dove impazza la festa dei fuoriusciti italiani per il decennale del 7 aprile, un brano del “Kapput” di Curzio Malaparte. Si narrava dei cani che i russi imbottivano d’esplosivo e poi lanciavano contro i carri armati tedeschi. Le bestie di carne e le bestie di ferro esplodevano insieme. I poveri e generosi cani erano bene addestrati e andavano incontro alla morte abbaiando festosamente. Un ultimo sguardo alla festa coglie Toni Negri, il “professore” di tante leve degli anni di piombo. Balla al ritmo di Belafonte con Alisa del Re, bella, elegante, apparentemente spensierata anche se la giustizia italiana l’ha perseguita a lungo. Negri si dimena con grazia. Appoggiando il pollice alla punta del naso, fa “marameo” a un giornalista italiano compiacente. Anche Negri, in nero, è elegante. Il sorriso non illumina mai il suo volto, semmai lo rende temibile.
La vita dei fuoriusciti è descritta sempre così. La Francia è un Eldorado. I rifugiati vivono “felici” protetti da una potente rete di intellettuali francesi che disprezzano lo Stato Italiano. Si intende, anche se non viene mai detto esplicitamente, che questi fuoriusciti (qualcuno lavora nelle redazioni dei giornali, qualcuno insegna) non debbano poi dannarsi l’anima per vivere e guadagnare come i comuni mortali. Mai una parola, anche a sentenze acquisite, per quei fuoriusciti che sono sì fuggiti, come la Del Re e Bianchini, ma solo per non essere arrestati per la terza volta e poi essere riconosciuti innocenti nell’aula di tribunale. E non una parola per le famiglie dietro. Gli anni in Francia sono una “gita”, irriverente e anche beffarda. Gente, tutta, che sfugge alle proprie responsabilità.
(20 – CONTINUA)