di Dziga Cacace

of61.jpg166-Showgirls di un Vero Miserabile, USA 1995

Inizia l’anno nuovo e completo il capodanno etilico e drogato con la visione di questa inarrivabile porcata che Pier mi ha passato, quasi a vendicarsi della visione comune de La riffa. Neanche due minuti e questo Showgirls si presenta come un’opera imbarazzante e demenziale. È la storia di una fanciulla disposta a tutto pur di arrivare al successo. Arriva a Las Vegas dove viene accolta da un programmatico “prima o poi la devi dare” e allora si fa largo a colpi di gomito e vagina e alla fine sfonda: diventa la stella della più importante rivista di Las Vegas. Ma la grintosa zoccola molla tutti e abbandona in autostop la città-baraccone del deserto del Nevada. Ovviamente, miracoli del bravo sceneggiatore, prende un passaggio dallo stesso che l’aveva portata fin lì e si dirige verso Los Angeles dove, evidentemente, spopolerà, tanto che le dedicheranno un film immondo: questo.


Partiamo dalla protagonista: Elizabeth Berkley; fisico prorompente, sedere delle dimensioni della portaerei Nimitz, labbra tumide, sguardo trasognato ed ebete: da dove l’hanno presa? ‘Sta qua sarebbe molto più onesta e dignitosa a interpretare un pornazzo, dài… Quando danza sembra in preda al ballo di San Vito e l’apice della sua interpretazione lo raggiunge quando si produce in un patetico balletto che simula l’amplesso. La cosa porta il tragico Kyle MacLachlan ad avere una polluzione nei pantaloni e c’è da pensare che abbia provocato gli stessi effetti anche nell’obnubilato regista Paul Verhoeven. Ma il repertorio è aggiornato anche da pianti, scene isteriche, piatti spaccati, altri balli da tarantolata e, poteva mancare?, la classica vomitata con i pezzettoni. Che fine ha fatto poi la Berkley? Boh, chi l’ha mai più vista. Si sarà guadagnata il paginone centrale di una rivista per soli uomini e poi chissà. E quanto a recitazione è in buona compagnia: si agitano tutti al limite del caricaturale e sembrano dei coglioni, con quei sorrisoni alla Jimmy Carter. Riguardo alla sceneggiatura probabilmente un qualunque episodio di Lando è più profondo. Prendete il peggio di Flashdance e di Stayin’ Alive e aggiornate con parolacce e scene di finto sesso patinato: ecco, sarete ancora molto lontani da ciò che ho visto. Se proprio vogliamo trovare un lato positivo al film, bisogna ammettere che ha un’immonda coerenza artistica assolutamente inscalfibile. Mai visto un film più volgare: sono volgari le situazioni, i protagonisti, la loro recitazione, gli ammiccamenti della regia, i corpi, le facce, perfino la confezione, anonima come quella di un telefilm. Al confronto La riffa acquisisce una sua casereccia nobiltà. Questa porcata vomitoria è lunga 128 minuti ed è la Fossa delle Marianne dell’insulso: un film maschilista, sessista, onanistico e impudico nella sua morale ributtante. E oltre a tutto è costato una barcata di soldi. Che Verhoeven non fosse tanto normale era assodato, ma ‘sta roba… che tra l’altro non mantiene neppure ciò che promette: volete tette e culi? Ma compratevi Panorama! (Vhs; 1/1/99)

168-Dredd – La legge sono io di uno da compatire, USA 1995

Era da secoli che non venivo incastrato con un bel filmaccio di Stallone e c’è voluta proprio Barbara a farmi vedere ‘sto benedetto Dredd, di tale Danny Cannon. In realtà lei era pure disposta a lasciar perdere, ma almeno so a chi dare la colpa per la visione di una porcata che, a dirla tutta, presenta anche qualche discreta ideuzza. Stallone, con lenti ottiche colorate, è un ingrugnito dispensatore di legge in un futuro prossimo in cui i giudici amministreranno la giustizia direttamente in loco. Quanto vorrei anch’io che i vigili urbani potessero far esplodere le macchine posteggiate in seconda fila o picchiare chi non mette la freccia… Non sono male anche la fotografia e le scenografie (la murata Megacity Numero 1 è debitrice della San Angeles di dickiana memoria). Ma la vicenda ha un prevedibile sviluppo e anche il buon montaggio e gli effetti speciali si perdono nella noiosissima vicenda. Giacché ho già speso tutta la mia indignazione per Showgirls, il film mette quasi tenerezza e mi fa sinceramente un baffo. Nei miei appunti trovo scritto che il finale è a metà strada tra Sabotatori e Blade Runner, ma nel momento in cui scrivo non ricordo assolutamente niente, a riprova che il film era così brutto che l’ho subito rimosso dal mio hard disk cerebrale. (Diretta TV; 1/1/99)

170-Il prestanome di Martin Ritt, USA 1976

New York anni Cinquanta: vige il maccartismo e Howard (Woody Allen), cassiere di un bar che vive di espedienti e di prestiti, accetta di fare il prestanome per un amico che non riesce più a lavorare perché blacklisted. A poco a poco Howard presta il suo nome a diversi scrittori con un travolgente successo che insospettisce la commissione inquirente sui reati antiamericani. Finirà anche lui schiacciato, non prima di aver pronunciato un leggendario “…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo”. Il film è superficialmente gradevole: c’è Woody e l’atmosfera sembra quella dei suoi film, ma il problema è che quest’atmosfera è incongruamente nostalgica, o perlomeno a me così sembra. La musica, i luoghi, la rievocazione dei tempi degli show radiofonici. E poi, tutti gli scrittori che sono solo vagamente di sinistra: non so, sembra che abbiano ancor oggi paura di McCarthy. Gli attori poi hanno basette anni Settanta e la regia abbonda di zoom… E allora fa schifo!? No, per esempio è reso bene il clima d’isteria anticomunista del periodo e non sono le felici battute di Woody (“Quell’attore tende al rosso” – “È un problema di trucco!”) a stemperare la drammaticità della vicenda (con l’apice nel suicidio di Zero Mostel). Scritto da sceneggiatori che erano tutti sulla lista nera, Il prestanome è un film civile e decente che ci ricorda che ogni tanto bisogna rispondere che “nondimeno…”. (Vhs; 2/1/99)

of62a.jpg172-Ragazze di Mike Leigh, Gran Bretagna 1997

Dopo l’abbuffata vacanziera di film in vhs, torno all’amato Lumière con Pier Paolo in trasferta genovese e posso finalmente adoperare la preziosa penna che ho ricevuto da mia sorella: ha la luce incorporata (come quella che usa un’ex fidanzata del protagonista di Alta fedeltà di Nick Hornby), così il mio diario diventa più completo e ricco di tutte quella boiate che mi passano per la testa durante la proiezione. Vabbeh. Ci aspetta l’ultima fatica di Mike Leigh e premetto subito che, per quanto la cosa possa sembrare contraddittoria, il film m’ha divertito, ma non m’è piaciuto molto: la solita ennesima disparità di vedute tra il mio impianto gastro-lacrimale e quello cerebrale. Ragazze racconta l’incontro londinese di due vecchie amiche che avevano condiviso l’alloggio durante i tempi dell’università. Passano assieme due giornate e diversi incontri casuali accendono i loro ricordi: le due erano studentesse incasinate e complessate, una aggressiva (la Cartlydge), l’altra remissiva (la Steadman). Il loro rapporto, oggi come allora, è pervaso da una latente conflittualità, ma anche da un intenso affetto che sull’onda dei ricordi, felici e dolorosi, riemerge con trasporto emotivo e profluvio di lacrime. Le due attrici ce la mettono davvero tutta al punto che la loro recitazione (specialmente nella fase iniziale della loro convivenza) sembra quasi caricaturale nell’esasperata gestualità sfoggiata. Le indubbie capacità recitative delle due attrici danno migliori frutti quando il registro è più pacato e ciò avviene con la raggiunta maturità del loro rapporto. E il film vive così, di alti e bassi. Di scene di intensa e straziante capacità comunicativa come di scomposte e debordanti interpretazioni. Leigh sa gestire meglio le sfumature e la narrazione sommessa piuttosto che quei melodrammatici momenti in cui sbraca senza ritegno. E allo stesso modo il Leigh scrittore non sa rinunciare a costruire una storia “incredibile” (tutti quei fortuiti incontri, tutti lo stesso giorno) pur di radunare i suoi personaggi per una serie di confronti che sfociano puntualmente in scene madri. Per cui di pancia si vive con partecipazione la crescita di queste due isteriche furiose (e lo credo: sentivano i Cure), ma di testa si è respinti dalla teatralità con cui questa crescita è raccontata. Però sono profondamente irrazionale per cui le mie idosincrasie si sono presto acquietate e sono uscito dal cinema un po’ frastornato dopo l’ultimo pianto finale delle due protagoniste, talmente ben interpretato che bisogna proprio avere lo stomaco di Previti per non commuoversi. (Cineclub Lumière; 2/1/99)

173-La bestia di Walerian Borowczyk, Francia 1975

Dopo una mattinata passata a gironzolare in centro Pier Paolo e io torniamo a casa con la precisa voglia di sensazioni forti, proibite. Ci viene incontro l’infausta collezione di “erotici” de L’Espresso, una serie di titoli che di erotico ha solo il nome e che perlopiù ti piglia per i fondelli. Allora scegliamo il film che gode di migliore reputazione, quel La bestia del rinomato stilista dell’eros che risponde al nome di Walerian Borowczyk. Partono i titoli e notiamo la presenza della (a noi) sconosciuta Sirpa Lane. Questo nome e la colonna sonora (nitriti di cavalli) ci mettono di buon umore. Inizia il film e per prima cosa ci viene proposta una monta propriamente bestiale dove nulla è lasciato all’immaginazione: equini particolari anatomici che azzerano qualunque invidia del pene. Poi appare uno dei personaggi principali, l’equivoco Mathurin. Trattasi di un discendente di una famiglia nobiliare. Il padre ha combinato le nozze con una ricca ereditiera americana che sta raggiungendo l’augusto maniero situato nella campagna francese. Tutta questa prima parte è percorsa da un’atmosfera malata. La villa è scura e insalubre – tutte le imposte sono chiuse – ed è abitata da personaggi inquietanti. L’ereditiera visita la casa e scopre numerosi disegni osceni, lasciti di un’antenata della casata che si dice avesse avuto una animalesca relazione con una non meglio precisata bestia. Dopo le opportune presentazioni la florida americana dice: “Amo la natura e gli animali”. La risposta sembra azzeccata: “Troverete qui la vostra anima gemella”. E da qui in poi Borowcyk sfodera la sua visionarietà: la giovane ha il sonno agitato e (siamo ai confini con l’hard) si deflora con una rosa per poi tornare a sognare le gesta dell’antenata di cui si diceva. E questa è la scena che è passata alla storia: la marchesa (la, a questo punto, mitica Sirpa Lane) è inseguita da un essere bestiale che le usa violenza in tutte le maniere con un membro che sembra un idrante, finché la stessa intraprendenza della donna non sopisce gli ardori bestiali del mostro che viene ucciso per troppo piacere. Secondo gli standard odierni il montaggio sembra un po’ pedestre, ma proprio questa datata confezione e le imperfezioni tecniche aumentano il potenziale erotico della scena che, sia detto con onestà, riesce a essere decisamente bollente. Altro che “’o famo strano”, qui siamo su un altro pianeta: a un certo punto – nel sogno, o incubo – la bestia si masturba con la parrucca della marchesa – very fetish! L’eroina si risveglia e, per soddisfare le sue voglie corre a svegliare il futuro sposo, che però trova morto. Lo controlla per benino e scopre che il Diavolo ci ha messo veramente la coda, per cui le varie dicerie contenevano un fondo di orrorifica verità. Innanzitutto ci rendiamo conto subito che il film è girato da una mano capace, sia per direzione degli attori che per svolgimento narrativo. Poi apprezziamo anche l’apparato scenografico e i frequenti rimandi buñueliani (la sorella di Mathurin è una stupenda gorgona con i dreadlocks che non riesce a consumare con il nerchiuto valletto nero). Quello che lascia un po’ perplessi è l’onestà dell’operazione: questo è quasi un porno, ma con un pupazzone. La differenza tra un film “erotico” e uno “pornografico”, al di là di qualunque considerazione sulla narrazione e sul livello tecnico, risiede nel fatto che nel primo vengono semplicemente mostrate situazioni scabrose e corpi nudi (con esposizione quasi esclusiva, per consueto maschilismo, della pudenda femminili). Nel secondo genere, invece, le situazioni sono leggermente più scabrose: si mette in scena l’atto (prima, durante e dopo) e, per semplici questioni diciamo tecniche – piuttosto che per spirito democratico -, si mostrano i genitali (e altro) di tutti e due i partner. Borowczyk si deve essere chiesto: come mettere in scena un atto sessuale di cui si possa mostrare (simulare) quasi tutto senza sconfinare nel pornaccio? Semplice: trasformando il maschio in una bestia (con un costume tra l’orso e il cane) e dotandolo di un organo erettile tipo tubo Innocenti che, con appositi trucchi, possa anche eiaculare in maniera grottesca. Ne La bestia, non troverete niente di reale (ma sono mai reali i rapporti sessuali dei film pornografici?), ma qualcosa che, a seconda dei gusti, può respingere o affascinare. Tutto sommato abbiamo apprezzato: il film è decisamente conturbante, ma possiamo capire chi lo trova un po’ schifosetto. (Vhs; 3/1/98)
P.s.: Ho scoperto qualcosa su Sirpa Lane: tra le altre cose è stata una delle tante donne di Roger Vadim e poi ha recitato in Papaya dei Caraibi di Joe D’Amato (strillo sulla locandina del film: “evirazione a morsi”).

of63.jpg174-Emmanuelle di uno fascista dentro, Francia 1973

E se dopo il rinomato La bestia ci facessimo quell’altro campione dell’erotismo che risponde al nome di Emmanuelle? E male ce ne incoglie: infatti Emmanuelle è una vaccata avvilente e, se si pensa che è stato per dieci anni consecutivi in un cinema di Parigi, ci si chiede se valga la pena d’entrare in Europa. Perché? Perché Emmanuelle è un film veramente indecente. Allora: Sylvia Kristel interpreta la moglie di un diplomatico che la invita continuamente a liberarsi dalle sue ansie borghesi. La porta in Indocina dove, tra una partita di squash (pronunciato “skuasc”) e l’altra, finalmente i suoi sensi potranno esprimersi e la incoraggia ad avere le più disparate esperienze sessuali, salvo poi diventare geloso come una bestia. Chiaramente com’è che una donna può diventare totalmente “donna”? Ma comportandosi come una zoccola e facendosi stuprare, particolarmente dagli indigeni locali (che agli occhi degli autori devono essere peggio di animali). Virgilio di questa patetica iniziazione, il povero vecchio Alain Cuny, ridotto alla prestazione più umiliante della sua carriera e, oltre a tutto, per niente credibile nel ruolo di esperto satiro. Il film pretende di essere anti-borghese ed è assolutamente iper-borghese, reazionario, maschilista e razzista. Ce n’è per tutti: dagli omosessuali agli indocinesi, in un crescendo che non conosce confini. Vabbeh, e sesso? C’è almeno qualche motivo carnale per vedere questa immensa puzzonata reazionaria? Macché! Non si vede una minchia in senso letterale e figurato. Sylvia Kristel sarà pure caruccia, poi, ma ha pure la pancetta ed è scoliotica. Gli amplessi sono sempre stilizzati, sotto pesantissime coltri (in Indocina!) e visti in una luce flou che non nasconde un benamato cazzo, dal momento che non c’è proprio nulla da vedere. Anzi, quando c’è l’unica scena che potrebbe almeno suggerire qualcosa, la regia s’inventa un mascherino a forma di balaustra, come se la scena che stiamo vedendo (dentro a una specie di stanza per i massaggi), fosse “spiata”… unico problema, che non deve aver minimamente preoccupato gli autori (o i censori di quest’edizione), sta nel fatto che la cinepresa si muove! E così la balaustra rimane fissa, mentre noi ci muoviamo attorno ai patetici attori. Siamo ai massimi livelli di sciatteria, altro che le luci perennemente sbagliate o la musica vomitoria. Pier e io ci guardiamo attoniti: la famosa scena dell’amore in aereo è erotica come la Thatcher sudata e il dialogo è letteralmente da brivido: dopo l’ultima violenza carnale (perché è risaputo che è il desiderio segreto di ogni donna, eh!) Emmanuelle si sente “felice e femmina”. MA PER PIACERE! Questo film è quanto di più immorale, fascista, rozzo e ripugnante ci si possa ricordare d’aver mai visto. Al confronto l’immondo Showgirls è una perla di buongusto, altroché, e Verhoeven passa da poeta al confronto di Just Jaeckin. Bisognerebbe convocare alcune incazzate reduci femministe da corteo e mandarle, con falci affilate, da quei fallocrati che hanno avuto il coraggio di ideare ‘sta cosa degradante. Incredibile. (Vhs; 3/1/98)

176-Donnie Brasco di Mike Newell, USA 1997

È un periodo in cui mi rendo perfettamente conto se un film ha delle magagne, me ne frego altamente. Come Ragazze, Donnie Brasco è un film con alcuni difetti che altrimenti mi avrebbero potuto innervosire, ma la cosa, turbatomi per qualche nanosecondo, ha presto lasciato spazio a un grosso affetto per la pellicola in questione. Chi non può innamorarsi della figura di Lefty (un Pacino quasi immenso)? Dopo essere stato mafioso rampante, boss vincente e poi decaduto, finalmente Pacino interpreta anche uno di quei picciotti che la gloria e i soldi veri non li vedranno mai. Lui è un travet della Mafia. Ha problemi a sbarcare il lunario, aspetta una promozione o almeno un riconoscimento (che non arrivano mai) e soffre per un figlio drogato. Senza la gigioneria cui talvolta indulge, Pacino ci consegna un’interpretazione memorabile, mai sopra le righe, intensissima. E, anche se non a questo livello, non si comporta niente male pure Johnny Depp, che interpreta un infiltrato con il nome di Donnie Brasco. Lefty lo fa entrare nella cosca e Donnie gli si affeziona. Tra i due nasce un rapporto filiale emozionante e credibile, tanto più che Donnie entra sempre più in sintonia con lo stile di vita di Cosa Nostra, al punto che si scopre intimamente mafioso. Come va a finire non ve lo dico, anche se è li che troverete la scena più toccante del film. È molto meno riuscito il rapporto tra Depp e la moglie o con i superiori dell’ FBI. Qui, alla regia, scappano alcune banalità di troppo… e poi un altro difettuccio sta nella lunghezza della pellicola che, qui e là, poteva essere agevolmente stringata. Ma mi sembra d’essere Giuseppe II che dice a Mozart che la sua opera ha troppe note, al che il compositore chiede “Quali?” (Amadeus di Milos Forman, visto innumerevoli volte, mai recensito ma capolavoro). Per cui taccio, non prima di aver ribadito che Donnie Brasco è un gran film e mandatemi a cagare se sto a cavillare. Dopo il film siamo andati, Pier Paolo e io, a berci una birretta con Rossana e Marco. Abbiamo parlottato di cinema discutendo della presunta grandezza di Loach, Leigh e di tanti altri. Ma la sorpresa della serata non è stata l’immediata confidenza che si è creata tra Pier e i frequentatori del Lumière, bensì il fatto che Marco abbia rivelato che, durante le vacanze di Natale a Lumière chiuso, Il matrimonio del mio migliore amico gli è garbato assai. Forse nel nostro cineclub si indigna spesso perché in realtà dovrebbe fare l’abbonamento in una sala di prima visione del centro… (Cineclub Lumière; 4/1/98)

of64.jpg179-Aguirre, furore di Dio di Werner Herzog, Germania Federale 1972

Il sole che filtra tra le fronde della foresta amazzonica deve essere pesantuccio, figuriamoci se viene amplificato da un elmetto metallico: ecco perché Aguirre è cattivo come l’aglio. Siamo nel 1561 e un manipolo di conquistadores con il miraggio dell’Eldorado viene condotto dal fanatico Aguirre attraverso i meandri della foresta equatoriale. Il tragitto si compie su fragili zattere e, non bastasse la leggera devianza del personaggio interpretato da Kinski, ci si mettono anche le febbri, le bestie e gli indigeni ‘nu poco incazzati, sino all’allucinante finale. Sorta di metafora dell’impossibilità di ridurre in proprio potere la natura, Aguirre è un film interessantissimo. Herzog, grazie alla straordinaria e inquietante maschera di follia di Kinski, riesce a mettere in scena la sfrenata ambizione umana, la sua crudeltà e il suo disinvolto uso della religione e della superiorità tecnologica (l’unica arma – velleitaria – è fornita dallo spavento che può provocare un cannone), per sottomettere altre genti, conquistare nuovi territori e sfruttarne le ricchezze. Qualcosa che in Sud America accadeva nel 1561 e continua ad accadere ancora quattro secoli dopo. E vabbeh, fatemi predicare in santa pace. Se lo fa Venditti, perché non dovrei io? Concludo notando la preveggenza di uno dei deliranti commilitoni di Aguirre: in preda alla febbre immagina (sogna? spera?) un veliero tra gli alberi della foresta, l’ennesimo incubo che Herzog metterà in scena nove anni dopo con Fitzcarraldo. Anzi vi dirò di più: Fitzcarraldo, io, me lo rivedo tra qualche giorno. Aggiungo qualcosa a sproposito: d’accordo che fare l’agricoltore è dura, ma se piglio una multa in Vespa non mi metto a cagare in autostrada esigendo che la multa la paghi lo Stato, eh. No, perché gli agricoltori padani hanno ripreso a fare casino dopo la pausa vacanziera di Natale: mai visti prima dimostranti che si prendono le ferie. (Vhs; 7/1/98)

185-Antuca di Maria Barea, Perù 1992

Ecco: un film peruviano, io, non lo avevo mai visto. In concomitanza con una mostra sul Perù precolombiano che si tiene al museo Sant’Agostino, il Lumière ha organizzato una breve rassegna di film sudamericani e stasera si racconta la storia di Antuca, un’india che fin dall’adolescenza lavora a Lima come cameriera. Tornata al villaggio natale si rende conto di come sia difficile il reinserimento, ora che lei, per esperienza, maturazione politica ed educazione, è diventata un’altra. Ma per quanto questa scoperta di sradicamento sia dolorosa il film è sempre illuminato dal sorriso dell’india, che ritorna alla sua vita con la voglia di lottare per la sua dignità. La narrazione e la qualità tecnica non brillano particolarmente (il film è realizzato con pochi mezzi), ma si apprezzano la forza documentaria e la serietà di un prodotto comunque dignitoso. Come già detto, le cose più interessanti si rivelano le immagini di Lima (che sembra francamente orrenda) e del villaggio andino in cui Antuca ritorna, unitamente alla fotografia di una natura minacciosa e ostile. Sembrano un po’ più deboli le parti “ideologiche” in cui si descrivono la borghesia bianca peruviana o il collettivo autogestito dalle indie che desiderano emanciparsi. Ma comunque ne è valsa la pena e ci si augura di cuore che i Tupac Amaru non finiscano più in qualche disgraziato ricevimento dall’ambasciatore. Boh, mi farò raccontare da Raffa che in questo momento si starà pigliando qualche sputo da parte di un lama e che dovrebbe tornare tra qualche giorno. Per chi ha l’animo del collezionista: la protagonista principale si chiama Graciela Huaywa e la regista ha anche girato, nel 1985, un certo Gregorio. Non vedo l’ora… (Cineclub Lumière; 14/1/98)

187-Prêt-à-porter di un Maestro Rincoglionito, USA 1994

Ci manca che vada fuori di testa pure Altman. Cos’è questo pappone insipido, questo noioso strazio, lunghissimo e assolutamente stupido? Altman vorrebbe satireggiare il mondo della moda e il suo film non sembra per nulla cattivo. Non sono i vari personaggi del film a pestare una merda dopo l’altra: è il regista! Ma chi aveva bisogno di tutte ‘ste macchiette? Lo stilista gay, quello tronfio, quello capriccioso, la stampa sensazionalista… ma non è vero sensazionalismo riprendere Ute Lemper nuda e incinta? Insomma, da un maestro dispiace questo tonfo clamoroso: qui non siamo lontani dai Vanzina con Via Montenapoleone. Se proprio vogliamo, il film, con la sua vacuità, aderisce in pieno al mondo che vuole raccontare, ma quale spettatore ne aveva bisogno, per saperlo? Non ci serve l’ardita metafora di una sfilata canina per ironizzare: qui tutto è sciatto e ripetitivo. Si salvano solo il viso della Roberts e la speranza che, da un momento all’altro, salti fuori la Aspesi (l’ho contata solo due volte, ma qualche “collezionista” l’ha vista far capolino in più occasioni ancora). Per nulla graffiante, Prêt-à-porter è una cocente merdata. (Vhs; 16/1/98)

189-Il gioco dell’oca di una Completamente Scema, Irlanda/Germania 1996

Due amiche, tra amori, delusioni sul lavoro e speranze. Bella cazzata! Eh sí, senza mezzi termini. Le due protagoniste sono antipatiche e il loro numero di artiste di strada è patetico. Delle loro vicissitudini non ce ne potrebbe fregare di meno, visto lo squallore degli accadimenti, e anche i loro partner si distinguono per le notevoli facce da culo che, non si capisce perché, dovrebbero catturare la nostra attenzione. Lo so che sto esagerando, ma non avendo nulla da commentare, mi dedico con soddisfazione all’insulto. Mi ero portato Pitta al cinema e dopo venti minuti eravamo con le palle nei calzini: il film dura 93 minuti e c’è sembrato interminabile. E poi, anche la musica… Ma dico: quando utilizzeranno Gallagher e i Thin Lizzy in un film irlandese? Perché queste copie orrende del sound degli U2? Insomma: lo spettacolo è allegro come un funerale a Bucarest e, quando passano i titoli di coda, scopro con sorpresa che ha collaborato Przygodda. Mi viene un sospetto: avrà trasmesso l’alito di morte che promana dagli ultimi pallosissimi film del cattivo maestro Wenders? Vabbeh, basta. Un’ultima notazione: una volta tanto il titolo arbitrariamente imposto dalla distribuzione italiana trova senso se riferito al lavoro della regista, Trish McAdam. (Cineclub Lumière; 19/1/98)

190-Piccoli ergastoli dei presuntuosi Francesca D’Aloja, Pablo Echaurren, Valerio Fioravanti, Italia 1997

Sembra un’epidemia senza fine: è il terzo film orrendo che vedo consecutivamente. Questa sera si tratta del documentario che tante polemiche scatenò a Venezia, a settembre. Non mi sono andato a rileggere ciò che ne fu scritto, ma ricordo che la presenza di Fioravanti tra gli autori fu il propellente per una immeritatissima pubblicità. Il documentario è recitato (e come!) e già tutto ciò pone allarmanti considerazioni. A ogni modo visitiamo il carcere di Rebibbia secondo lo sguardo in soggettiva di un detenuto e conosciamo i tanti disgraziati che devono scontare i micidiali “piccoli ergastoli”, quelle pene detentive assurdamente lunghe risultanti dalla sommatoria di tante sentenze per reati minori. Senza l’adeguata tutela degli avvocati finisce che uno si ritrova come niente trent’anni. Un piccolo ergastolo, appunto. L’idea è buona, ma l’attesa che il film decolli è costantemente frustrata da una fragilità narrativa desolante. Sembra un pessimo reportage televisivo, prodotto, oltre a tutto, coi piedi. Pessime riprese, sonoro fetente e considerazioni (recitate) che vorrebbero essere poetiche o toccanti ma risultano immediatamente imbarazzanti. Dobbiamo pure subire il racconto (recitato) del detenuto che si masturba con la pasta degli gnocchi pensando alla moglie: qui finiamo addirittura nel morboso… Insomma: se polemiche ci furono, dovevano essere rivolte alla tragica qualità di questo prodotto realizzato con soldi pubblici. Se no l’anno prossimo pretendo di andare al Lido a presentare i miei filmini delle vacanze che sono molto più dignitosi. Non scherzo. (Vhs; 20/1/98)

(Continua — 6)