di Valerio Evangelisti
[Da un paio d’anni collaboro a Nocturno, storico mensile dedicato al cinema di genere, con una rubrichetta. Mi sono fin qui astenuto dal riportare su Carmilla i miei interventi, per non danneggiare la rivista cartacea. Oggi faccio un’eccezione perché il film di cui parlo viene proiettato in questi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia, dicono dietro pressioni dall’alto. Il ministro di cui nel pezzo non dico il nome si chiama Sandro Bondi, e si occupa (non ridete!) di cultura.]
Continuiamo a parlare di film bruttissimi. Li ho classificati in tre categorie principali, a seconda delle domande che suscitano nello spettatore: “Ma che roba è?” “Perché perdo tempo a guardare questa merda?” “Che cosa me ne frega di questa faccenda?”.
Ho già portato esempi delle domande 1 e 3, adesso mi soffermo sulla 2. E’ chiaro che il quesito “Perché perdo tempo a guardare questa merda?” può applicarsi a una quantità enorme di film, normalmente di serie dalla B alla Z. In questi casi, lo spettatore di solito sa a cosa va incontro, e se reagisce male lo deve imputare solo al proprio masochismo. Diverso è il caso se il film viene elogiato, raccomandato, premiato. Allora lo spettatore è innocente, e sono altri che devono rimproverarsi per avergli causato due ore di sofferenza.
Ho in mente un esempio scandaloso: Katyn, nientemeno che di Andrzej Wajda. Candidato (giustamente trombato) all’Oscar quale miglior film straniero, consigliato in Italia da non ricordo quale ministro dell’attuale governo, ispirato a un episodio storico autenticamente tragico: la strage di dodicimila ufficiali dell’esercito polacco nel 1940, voluta da Stalin e Beria e falsamente attribuita ai nazisti. Un tema terribile a grandioso, meritevole di una trattazione epica e drammatica.
Wajda si è lamentato, in un’intervista, che il suo film in Italia non abbia circolato, e ha invocato imprecisati sabotaggi politici. Non è così: non lo ha voluto nessuno perché è girato da cani e la sceneggiatura è penosa. L’inizio è improbabile ma potrebbe avere valore simbolico: una folla di polacchi che si incrociano su un ponte, gli uni fuggendo dai sovietici, gli altri dai tedeschi (uniti dal patto Ribbentrop-Molotov per mangiarsi la Polonia) (1). Anche le scene successive sono abbastanza efficaci. Si comincia a traballare quando Wajda mostra i prigionieri portati in una chiesa-carcere innevato. Comincia un coro religioso che non finisce più: una lagna che ci dobbiamo sorbire strofa per strofa, con tanto di sottotitoli.
Da quel momento è il disastro. Avevamo seguito con una certa trepidazione la sorte di un ufficiale, di sua moglie e della loro bambina. Ma c’è un salto nel tempo e si passa al dopoguerra, con una ridda di personaggi che non si sa bene chi siano. Appare una ragazza: è la bambina già cresciuta? No, niente affatto. E sua madre chi è? Non si sa (solo con uno sforzo ho capito che si tratta di una signora apparsa per un attimo sul ponte iniziale, seduta in una macchina). Più altri personaggi ancora scaturiti da chissà dove, come se il film fosse composto di ritagli di una fiction più lunga e complicata.
Sorvoliamo su certe incongruenze storiche. Dubito, per esempio, che una donna polacca di Cracovia, minacciata nel 1941 di finire ad Auschwitz, avrebbe capito di cosa si trattava. Dubito che i soldati russi avessero così poche bandiere proprie da dovere stracciare la banda rossa della bandiera polacca per procurarsele. Dubito che, patto o no, russi e tedeschi mescolassero le loro truppe, con grandi risate e pacche sulle spalle.
Veniamo alle scene finali, che hanno dell’incredibile. Un giovane viene ucciso dalla polizia polacca del dopoguerra. E’ inquadrato il cadavere: il “morto” respira vistosamente. Ciò può essere perdonato a un Bruno Mattei, ma non a un Andrzej Wajda! O sbaglio?
Poi lo sconcertante epilogo. Gli ufficiali polacchi sono condotti a piccoli gruppi, su furgoni, a una fossa comune per essere uccisi con un colpo alla nuca. Arriva il primo gruppo e recita, prima di morire: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome…”. Bum, sono liquidati.
Ed ecco il secondo furgone. I detenuti scendono e proseguono: “Venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra…”. Bum.
E così via, di furgone in furgone, fino al completamento del Pater Noster.
A quel punto, dopo essersi chiesto mille volte perché stia perdendo tempo a guardare quella merda, un motivetto si affaccia nella mente dello spettatore: “Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane da Andrzej Wajda e dall’Azione Cattolica.”
1) La storia del patto Ribbentrop-Molotov è in realtà meno semplice. Leggi qui, qui e qui.