di Girolamo De Michele
Un’estate di grandi polemiche letterarie ha fatto passare sotto silenzio una primaverile polemichetta locale, della quale non si sono sentiti echi al di là di uno spigolo della provincia senese. Capita però che a volte delle piccole polemiche si capisca l’oggetto, e delle memorabili tenzoni no. E che ci sia qualcosa da imparare e qualcosa su cui riflettere.
I fatti, intanto. Filippo Bologna fa il suo esordo nella narrativa italiana con Come ho perso la guerra (Fandango Libri, 2009, pp. 280, € 14.00). Il libro con l’appoggio di Alberto Asor Rosa e Giorgio van Straten entra nella dozzina dei candidati al Premio Strega. Non entra nella cinquina, e dunque non ci sarebbero ragioni per inveire contro l’autore: e invece viene accusato di carrierismo e di manipolazione dei fatti. Non gli si dà del buffone (né 1.0 né 2.0), ma dell’agrario (per transitività: sei un “figlio dei padroni”, e dunque…). Non si tira in ballo l’editore, ma gli si dà del nemico del progresso…
Il libro: un racconto in apparenza autobiografico, che in principio sembra voler comporre un calligrafico Amarcord toscano, e che invece, tra un bozzetto e l’altro (molti dei quali potrebbero essere piccoli racconti a se stanti: delizioso quello del comizio del gerarca fascista), dopo aver catturato il lettore comincia a raccontare la progressiva (o progressista?) distruzione dello spirito del piccolo paese toscano ad opera di un cinico speculatore che si impadronisce dell’intero ciclo delle acque del luogo. E il Partito? Il Partito «che a me sembra sempre lo stesso anche se hanno fatto un sacco di congressi e votazioni e ora dicono che è più democratico di prima» vende l’anima al diavolo della modernità. Il cui emblema è il monumento che viene eretto nella piazza del paese, dopo aver sradicato le acacie secolari, sbullonato «le vecchie panchine in travertino bulinate con maestria dagli scalpellini del paese», sostituiendole con «panchine moderne in legno e ferro double face, una che guardava la piazza, l’altra la vallata, in modo che i panchinari si dessero le spalle»; rimpiazzato i lampioncini in ferro battuto con fari alogeni sui tetti, «finché la piazza non sembrò un grande cacatoio per cani». Il monumento, che «si disse “il budello”, “il tapiro”, “il verdone”, “il gelato sciolto”», e infine “la serpe”, potete valutarlo voi stessi [cliccando sull’immagine per ingrandirla].
Non resta, ai pochi idealisti che tardi e male avevano cercato di impedire lo scempio, che dichiarare guerra alle Terme e passare alla macchia. Scivolando nell’ucronia, l’autore ci racconta una picaresca guerra clandestina, e di come essa sia stata persa: «era impensabile che una banda di goliardi partigiani potesse avere ragione della nomenklatura termale. […] Credevamo di combattere una guerra locale, senza aver capito che era globale, credevamo ancora nei vecchi copioni da film western, da una parte i buoni dall’altra i cattivi. […] Ci sembrava di combattere una guerriglia termale e non avevamo capito. Nessuno di noi aveva capito che la guerra prima di farla andava compresa, andava studiata. […] Nell’era della massificazione d’élite, simboleggiata dall'”esclusivo per tutti”, non era possibile separare i civili dai militari, non si poteva esportare la democrazia, al massimo importare la dittatura» [p. 240].
E pone, l’autore, alcune serie domande: perché nessuno si ribella a nessuno? O qualcuno si ribella, ma non ne giunge notizia?
Il libro di Filippo Bologna usa l’arma dell’allegoria: prende un piccolo luogo geograficamente delimitato e, trasportandolo nella narrazione, lo trasforma nell’Italia degli ultimi decenni. E il tradimento di cui non parleremo diventa qualcosa di più vasto, e più grave, di una piccola vicenda privata.
Se non ché…
Se non ché il paesello senese esiste davvero: si chiama San Casciano dei Bagni. E il sindaco Franco Picchieri, già presidente delle terme di San Casciano e candidato alla rielezione a capo di una democraticissima coalizione progressista (ce l’ha fatta, col 74.97% dei voti), non l’ha presa bene. Soprattutto perché Filippo Bologna è andato a raccontare «la sostituzione del primato morale e culturale col primato economico» in alcune interviste, una delle quali addirittura (l’11 marzo) nel corso di un programma televisivo nazionale (da Serena Dandini: qui il link dell’intervista). Insomma, ha lavato i panni sporchi fuori dalle mura domestiche. E allora il sindaco (che ha le elezioni alle porte) prende carta, penna e tastiera e scrive una dura lettera che viene prima pubblicata sul giornale locale (il 13 marzo), e poi fotocopiata e affissa in giro per il paese. Filippo Bologna risponde con una lettera al Corriere di Siena il 25 marzo.
I due documenti sono qui sotto, integrali e senza alcuna correzione: i lettori di Carmilla si faranno un’idea di chi ha torto e chi ragione leggendoli (e leggendo il libro, che merita).
A me restano due considerazioni da fare.
La prima: questa polemica l’ho capita. Altre, meno: sarà perché sindaco e scrittore, invece di mandarla a dire alla nuora perché suocera intenda, parlano toscano?
La seconda: un’altra cosa che non ho ancora capito è cosa cambia nel PD se vince Bersani piuttosto che Franceschini. Ecco, rispetto a quello che è stato fatto nelle amministrazioni locali governate dalla sinistra, o dal centrosinistra, o dal Partito (che oggi è anche “Democratico”), e di cui il libro di Bologna fa testimonianza, cambia qualcosa se vince Franceschini piuttosto che Bersani?
1. Il Sindaco di San Casciano dei Bagni Vs Filippo Bologna
Filippo Bologna continua a rilasciare interviste sconcertanti, dannose per l’immagine di San Casciano dei Bagni, che addirittura è il suo paese natale. Comprendiamo la necessità di lanciare il suo libro, ma è anche il momento di denunciare una prassi per cui personaggi più o meno noti si fanno pubblicità fingendosi paladini del buon governo. Il nostro è un territorio molto noto proprio per la sua integrità, in grado di attirare attenzione su chi ne parla. Dunque si presta a un gioco perverso per chi lo subisce, specie in un momento di grave crisi economica. In realtà, San Casciano dei Bagni non si è svenduto al turismo: si è limitato a recuperare strade, piazze, palazzi e terme. Tutto questo ha dato occupazione, reddito, richiamato un turismo di qualità. Siamo uno dei cinque Comuni in Italia ad avere in contemporanea i due marchi che certificano ambienti e stili di vita integri: “Bandiera Arancione” del Touring e “Borghi più belli d’Italia”. Parlare di turismo di massa, e di borghi artefatti, significa allora fare una caricatura di San Casciano dei Bagni, gettare discredito su un’intera comunità, allontanare potenziali visitatori: è un fatto grave, perché il turismo è una delle principali fonti di sostentamento. Ma fa ancora più male il richiamo del dottor Bologna al passato, che riapre tristi ricordi e vecchie ferite: cose che avremmo voluto lasciare alla storia, senza per questo dimenticare.
Sono ancora presenti nella memoria di tanti sancascianesi anni lunghissimi di sacrifici, sofferenze e ingiustizie. Anni nei quali la famiglia “Cremona” (il nome dei Bologna nel romanzo) se la godeva all’“ombra del castello” giocando a Monopoli con le loro proprietà, mentre i loro contadini si spaccavano la schiena “allo scoppio del sole”. Chissà (e ci dispiace scherzare sulle cose serie) se oltre a modificare il Monopoli con i nomi dei poteri di proprietà, i Bologna non si erano inventati anche un gioco della dama con le pedine corrispondenti ai nomi delle famiglie di mezzadri da “spostare da un podere all’altro”, e magari da “sfrattare” nel caso in cui la pedina venisse mangiata! Ciò è avvenuto realmente, purtroppo. È vero che i figli non possono portare le colpe dei padri, ma questo non autorizza l’esponente di una famiglia a dare un quadro idilliaco di un’epoca che essa stessa ha contribuito a rendere drammatica.
I sancascianesi non hanno nostalgia di un periodo in cui per dare un minimo sostentamento alle proprie famiglie erano costretti a mendicare, con il cappello in mano, qualche giornata di lavoro nell’azienda agricola dei Bologna, con l’unica alternativa di andare a lavorare nei cosidetti “cantieri Fanfani” per quattro lire al giorno. E non fa certo piacere ricordare anni nei quali intere famiglie furono costrette ad andarsene per sempre dal loro paese per cercare lavoro altrove.
Se lo è mai chiesto, il dottor Bologna, perché a San Casciano dei Bagni solo negli ultimi anni la popolazione ha ripreso, anche se di poco, ad aumentare e come mai manchino tra essa intere generazioni, tanto da farci ottenere il primato di essere il Comune con il più alto tasso di popolazione anziana della provincia di Siena? Oggi, fortunatamente, il “paesello termale”, grazie agli amministratori pubblici e a imprenditori capaci, insieme ad aziende locali che hanno investito senza limitarsi a sfruttare opportunità, vive una situazione totalmente diversa. Siamo una località ambita e conosciuta, meta di frequentazioni importanti, che fa un vanto di far integrare ospiti illustri con le tradizioni locali, con la vita di tutti i giorni. Tranquilli pensionati parlano al bar con l’attore famoso, entrambi osservano dalla piazza del paese una campagna ancora intatta. Questa è la realtà: non vorremmo che fosse strumentalizzata solo per costruire una carriera.
2. Botta e risposta tra Bologna e il sindaco Picchieri
Ho letto la dura reazione del sindaco di San Casciano nemmeno contro di me — avrei preferito — ma contro la mia famiglia. Il sindaco evoca scenari borbonici di padroni affamatori e contadini affamati, scenari che nessuno rimpiange, fortunatamente già risolti dalla storia e dal benessere. E se ci furono colpe storiche, non sta certo al nostro sindaco, né a me, risolvere queste ataviche questioni di lotta di classe. Detto ciò, non capisco bene cosa abbia fatto sì che un sindaco, non si sa bene in nome di chi, prenda carta e penna per scagliarsi contro la famiglia di un suo concittadino. Centinaia di volantini con le fotocopie dell’articolo pubblicato dal suo giornale sono stati distribuiti casa per casa, nei bar, affissi nei locali e negli esercizi pubblici di San Casciano come editti imperiali, ci tengo a raccontare questa cosa perché è al contempo sinistra e ridicola.
Sinceramente non so bene cosa possa aver provocato una reazione così scomposta. Posso solo provare a fare due ipotesi. Se sono state le mie dichiarazioni alla stampa, allora devo pensare che chi esprime civilmente una critica o un dissenso debba essere messo pubblicamente al bando. Se i nostri politici vogliono solo applausi, se li devono meritare. Se invece si tratta del mio romanzo Come ho perso la guerra, allora la questione è più seria.
Primo, il romanzo l’ho scritto io e non la mia famiglia. Quindi se il sindaco non gradisce quello che scrivo si rivolga a me, e non a loro. Secondo, il sindaco confonde la finzione con la realtà. I romanzi sono per definizione opere di finzione, abitati da personaggi fantastici che obbediscono a regole interne coerenti e verosimili. Ma attenzione: non tutto ciò che è verosimile è vero. Il sindaco Franco Picchieri cade in un errore ingenuo quando risolve con disinvoltura l’equazione Federico Cremona (il protagonista del mio romanzo) = Filippo Bologna (Io). In realtà Filippo Bologna non è Federico Cremona più di quanto Andrea Camilleri non sia il Commissario Montalbano. Se volete sapere cosa penso io, Filippo Bologna, autore di Come ho perso la guerra, non c’è bisogno di oscure interpretazioni del mio romanzo, ve lo dico direttamente.
Filippo Bologna non ha niente di personale contro il Sindaco Franco Picchieri né contro i suoi concittadini, men che meno contro i dipendenti o la proprietà delle terme. Filippo Bologna pensa che diano da mangiare a tante famiglie, pensa che San Casciano sia un paese bellissimo, e pensa che la Toscana sia una regione amministrata bene nel complesso. Però pensa anche che ogni acquisizione comporti una rinuncia, che ogni guadagno implichi una perdita, e che il primato economico non sia automaticamente un primato morale e culturale. Vi invito dunque a guardare più lontano, oltre i confini comunali, ad ascoltare serenamente il dissenso, ad accettare la critica, a riconoscere l’alterità non come una minaccia, ma come una ricchezza.
“È vero che i figli non possono portare le colpe dei padri” — dice il sindaco nella sua lettera — “ma questo non autorizza l’esponente di una famiglia a dare un quadro idilliaco di un’epoca che essa stessa ha contribuito a rendere drammatica”. A parte che io non do nessun quadro idilliaco (leggetevi il romanzo e giudicate voi stessi), ma il sindaco senza rendersene conto afferma una cosa grave: il mio pensiero non ha bisogno di nessuna autorizzazione, nessun sindaco può sindacare il contenuto inviolabile della mia fantasia.
È l’articolo 21 della Costituzione che mi autorizza a esprimere il quadro che voglio, nei miei libri, nei miei discorsi “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La stessa Costituzione che prevede che Filippo Bologna sia cittadino e Franco Picchieri sindaco, anche — e a maggior ragione — sindaco di chi può non essere d’accordo. Riconoscere il dissenso non come un male da curare, ma come un sano anticorpo della vita civile, potrebbe essere un buon punto di partenza per avviare un dialogo dopo cinquanta anni di monologo. E non abbiate paura dei libri e delle opinioni. Se gli individui vogliono conservare la capacità di esprimere idee e giudizi autonomi, è importante che continuino a leggere, non il mio libro, ma i libri di tutti.