[Il vergognoso stato in cui versa lo Stato si riverbera fattivamente sulla classe di lavoratori dell’intelletto: è il cognitariato privo di qualunque tutela e garanzia, che si fa irridere nelle banche alla richiesta di un mutuo, che non dispone di una benché minima sicurezza economica o prospettiva, e che è sottoposto a un violento e indegno servaggio. Pubblichiamo a tale proposito, con l’intento di ritornare spesso su questo tema centrale, un intervento apparso sul “domenicale” del Sole 24 ore a firma Marco Filoni, il quale riprende un acceso dibattito sviluppatosi su Facebook; e la risposta data da Simone Ghelli, uno dei protagonisti, con Claudia Boscolo, di quel dibattito]
I BAUSTELLE SVEGLIANO SCURATI
di Marco Filoni
(dalla Domenica del Sole 24 ore, 30 agosto 2009)
Con l’estate che giunge al termine, scrittori e intellettuali confermano la vocazione agostana alla polemica. Dalle case editrici ai salotti letterari, ancora si discute dello scambio tutt’altro che benevolo fra i due finalisti dello Strega, Scurati e Scarpa. Chi invece discute senza la litigiosità dell’afa è quel consistente popolo di intellettuali “precari”, ovvero coloro che lavorano e offrono al mondo culturale la propria opera, senza essere ancora riconosciuti o strutturati in nessuna parrocchia. Solitamente sono precari dell’università, faticano parecchio ad arrivare alla fine del mese e il loro salotto buono è la rete.
Negli ultimi giorni una discussione agita questo popolo: tutto è partito dall’annuncio del leader dei Baustelle di voler lasciare l’Italia in cui non si riconosce più. E dal suo invito: perché gli intellettuali che possono permetterselo, cioè quelli affermati, non si trasferiscono all’estero e motivano il gesto con una lettera indignata al Capo dello Stato? Così, sul sito “scrittori precari” (scrittoriprecari.wordpress.com) animato da Simone Ghelli, è nata una discussione che ha assunto notevoli proporzioni. La questione è: partire o restare?
Fra i tanti interventi, quello di Claudia Boscolo — laureata in lettere, dottorato a Londra — punta il dito su una questione spinosa: «Il padre fondatore della lingua italiana fu esiliato da Firenze in contumacia, come si studiava a memoria al liceo, senza capire cosa ciò avesse significato per il poeta sul piano umano, intellettuale e professionale: un disastro. Le radici della cultura italiana affondano nell’esclusione, nella pratica di consorteria, nell’infamia. La situazione attuale non si può considerare una cacciata implicita? Noi si resta qui, ma qualcuno ce l’ha chiesto forse?». Poi si chiede dove siano gli intellettuali, quelli affermati, che dovrebbero chiamare le cose col loro nome: «questi intellettuali che grazie a raggiunto benessere, coronati dall’alloro di prestigiosi premi letterari, invece di abbracciare con uno sguardo amoroso il proprio paese da cui non solo non se ne vanno indignati, ma anzi si godono tutte le glorie transitorie di qualche successino editoriale in un carnevale egoico che fa pietà, invece di fare fronte comune e insistere perché qualcosa cambi, si impegnano unicamente in miserande scaramucce sui quotidiani nazionali, che chi è in scadenza di contratto non ha nessuna voglia di leggere, e se le legge per curiosità ne rimane disgustato». Insomma, il messaggio è chiaro: bisogna sporcarsi le mani con la realtà.
Se oggi ha ancora senso parlare del ruolo dell’intellettuale, forse bisognerebbe ascoltare e parlare con questi giovani. Altrimenti, se si rimane a guardare, non si potrà che sottoscrivere quanto dice Claudia: «Io l’Italia la vedo così: un paese malato che non sa quanto soffre davvero, perché a volerlo veramente valutare si aprirebbe un abisso che è meglio per tutti che rimanga chiuso. Per questo nessuno muove un dito perché al lavoro intellettuale venga riconosciuto un ruolo nell’uscita dall’impasse politica, sociale ed economica. Aprire quel pozzo e sprigionare forze che da almeno un ventennio premono per uscire allo scoperto è qualcosa che chi questo paese lo tiene sotto giogo non può assolutamente permettersi. Il vero corpo di Eluana è l’Italia. A questo punto resta solo, veramente, da staccare il tubo».
GLI INTELLETTUALI PRECARI E LA RETE
di Simone Ghelli
È davvero una bella notizia quella firmata da Marco Filoni e comparsa sull’inserto culturale del «Sole 24 ore» del 30 agosto. È la dimostrazione che non si può liquidare il web come un universo virtuale che si autoalimenta alla maniera di un buco nero, che tiene ogni elemento sulla propria superficie. La rete, tanto per rimanere nell’ordine delle metafore siderali, somiglia piuttosto a una supernova, che riempie lo spazio intorno attraverso l’espulsione dei suoi strati esterni innescando processi di formazione stellare. Ed è proprio ciò che è successo con la discussione iniziata da un mio intervento sul blog del collettivo Scrittori Precari (www.scrittoriprecari.wordpress.com) e che è stata rilanciata da Claudia Boscolo su Clobosfera (http://clobosfera.wordpress.com/) e su facebook, con un corollario di commenti che dipingono un quadro piuttosto desolante.
L’Italia è sempre più un “paese per vecchi”, dove l’insoddisfazione tra i più o meno giovani — la cosiddetta generazione dei precari che ormai abbraccia un arco di tempo piuttosto ampio — non riesce a tradursi in una presa di coscienza collettiva. La resistenza allo stato delle cose è il più delle volte individuale, o affidata a gruppuscoli di persone che agiscono a livello territoriale e che non si arrendono all’idea di dover sacrificare le proprie competenze a un futuro on demand per restare prigionieri delle esigenze del mercato flessibile. Manca un collante perché il problema dei precari è inesistente, rimosso dai palinsesti dei telegiornali e dalle pagine di molti quotidiani; eppure il paese rischia di morire di emorragia, anche se tenuto in vita da una strategia dell’emergenza — allarme sicurezza, allarme clandestini — che come un defibrillatore somministra scariche elettriche su un cuore che si rifiuta di battere ancora. Manca un collante perché l’ultimo ventennio è stato contraddistinto da una disaffezione verso la politica che ha rafforzato il sistema della delega e che ha consentito ai politici di professione di continuare a operare a proprio piacimento sul corpo di un paese anestetizzato.
La rete può dimostrarsi un’arma formidabile per chi voglia restare a presidiare il territorio, ma a patto che “prenda corpo” per sostituirsi a quello ormai agonizzante che si aggira per le dune del deserto culturale che è diventato il nostro paese.
Ha ragione quindi Marco Filoni quando parla degli scrittori e dei critici che non trovano di meglio da fare che lanciarsi in polemiche estive su premi e conventicole varie, magari anche con il nobile intento di minare la credibilità di certe istituzioni.
Ha ragione Claudia Boscolo quando denuncia la mancanza di un fronte comune degli intellettuali nostrani, che per coltivare il proprio orticello rischiano di perdere di vista la realtà che li circonda. Una realtà fatta di gente che quando può permetterselo cerca un riconoscimento all’estero, ma che il più delle volte è costretta a rimanere per assistere impotente allo spettacolo del proprio annullamento, che va in scena senza quel pubblico da cui dovremmo aspettarci almeno un minimo di riconoscimento.
E allora mi chiedo: quanto è alta la soglia di sopportazione in questo paese? Per quanto tempo ancora dovremo accettare di svendere le nostre competenze, fino al punto di arrivare ad offrirle gratis, pur di avere la possibilità di guardare dallo spiraglio di una porticina da cui ne passano sempre troppo pochi, come accade per chi sogna una carriera nelle università?
E allora vi chiedo: davvero vi riconoscete in questo affresco che vi lascia sparire sullo sfondo?