di Primo Moroni (con una nota conclusiva di Carmilla)
9. MACROREGIONI ECONOMICHE E RISVEGLIO NEOETNICO
Ci sembra quindi fuorviante e politicamente improduttivo, se non funzionale alla “esorcizzazione” del fenomeno, applicare alla Lega Nord, o assegnare alla stessa, il bagaglio ideologico-culturale della nuova destra radicale con il suo contorno neo-etnico, che non rimanda, si badi bene, al “sangue e al suolo” ma bensì all’ipotesi differenzialista e culturalista. Seguendo questo percorso si attua una interessante falsificazione, che vorrebbe spiegare l’emergere del leghismo con le categorie storico-politiche proprie della destra radicale (44). Non si vuole capire che casomai i movimenti di destra vivono in modo concorrenziale l’emergere leghista, e tentano di cavalcare il fenomeno per ritagliarsi all’interno dello stesso uno spazio di manovra, sicuramente approfondito da alcune non del tutto minoritarie componenti sociali della base leghista. Debolezze che via via, a mio giudizio, la dirigenza leghista tende a eliminare dal proprio bagaglio di propaganda e di progetto (45), rischiando consciamente un’emorragia di voti sulla sua destra.
D’altronde lo stesso Miglio (che è più ambiguo in questa direzione) afferma che “Quella lombarda appare come una popolazione poco incline a riconoscere e affermare la propria identità e alla quale non resta altra scelta razionale disponibile che integrarsi nell’area e nella mentalità mitteleuropea” (46). Di nuovo siamo quindi alle grandi regioni economiche sovranazionali (Alpe Adria e simili), e cioè all’Europa delle macroregioni voluta dall’espertocrazie europee. E d’altronde, “chi ha tirato la corsa” per il Mercato Comune Europeo sono stati sicuramente i grandi e piccoli imprenditori manifatturieri. Non si è certo mosso il terziario dei servizi (che come è noto non sono esportabili e che comunque nel nostro caso sarebbero più scadenti degli equivalenti esteri), né le grandi banche, né gli enti finanziari. Questi si trovano nella stessa situazione dell’industria degli anni Settanta: eccedenza di manodopera, crisi di transizione di tipo tecnologico, grossi investimenti che devono essere ripetuti, ecc. (Giuseppe Gario, cit.).
Nell’ipotesi leghista, la creazione di una macroregione produttiva nel nord del paese sarebbe un passo indispensabile per reggere il confronto con altre macroregioni economiche europee e, in questa direzione, non si vede la differenza con la progettualità delle più raffinate dirigenze di Bruxelles o con alcuni prestigiosi statisti tedeschi, di cui Hans-Dietrich Genscher (ex ministro degli Esteri e possibile futuro presidente della Repubblica) è punta di diamante, quando afferma con sicurezza che l’Europa futura sarà certamente (e in parte è già) quella delle regioni economiche che si aggregherebbero su processi economici affini: “Nel duemila tutta la regione del Baltico, con la sola eccezione della Russia, farà probabilmente parte della CEE, e allora si formerà una vasta zona, che includerà la Germania del Nord ma anche gli Stati scandinavi, e la Polonia, con interessi comuni, che saranno diversi da quelli, diciamo, della Germania meridionale. Un’altra regione sarà quella che comprenderà la Renania, il Benelux e il nord della Francia. Una terza quella cui potranno appartenere la Baviera, l’Austria, l’Alsazia e l’Italia settentrionale, ecc. ecc. … Ci sono persone, specie in Italia, che quando parlano di un’Europa delle regioni si riferiscono a entità che non tengono alcun conto delle frontiere nazionali: una zona industriale occidentale, una dell’Europa centrale, una delle Alpi. Per quanto riguarda l’Italia, io penso che la sua parte settentrionale scoprirà di avere molti più interessi in comune con la Germania meridionale che non con l’Italia meridionale” (47) (corsivo nostro. N.d.r.).
Si vede che l’unica differenza con le tesi leghiste è più che altro un problema di “stile”, della “cultura politica” con cui l’ipotesi viene presentata. Nessuno si sognerebbe di accusare Genscher di “attentare all’unità nazionale” o di voler “disgregare i fondamenti della democrazia”.
D’altronde una progettualità geopolitica così concepita pone non pochi problemi, se rapportata alla decadenza della sfera della “sovranità” così come si è formata e sedimentata nelle culture politiche dell’Occidente. La dislocazione in un “altrove” indefinito della “sovranità”, la sua perdita di “confini” identificabili non può che determinare (insieme alla globalizzazione) il riaffermarsi, il riemergere, di antiche appartenenze etno-regionali, sia pure per larga parte totalmente reinventate.
Risulta quindi comprensibile l’affermazione leghista (M. Formentini al primo Congresso della Lega Nord) secondo cui: “il Governo dell’economia viene (debba venire, n.d.r.) affidato alle comunità nelle quali per etnia, tradizione, cultura, identità di interessi, si riconoscono le popolazioni”, anche se la proposizione appare difficilmente conciliabile con lo sfrenato neoliberismo leghista, perché fino a oggi (almeno) si è constatata l’impossibilità della sintesi tra liberismo ed etnocentrismo (48). Un’impossibilità che dovrebbe costringere la dirigenza leghista a una progressiva minimizzazione delle componenti neo-etniche e delle tendenze “separatiste” in senso stretto, per optare ancora più decisamente per la macroregionalizzazione europea. Però tutto questo non eliminerà la tendenza strutturale a riconoscersi nel territorio locale, in cui l’etica del bene comune viene ridimensionata nel “qui e ora” delle risorse personali, ma anche nel sistema sociale locale, dotato di relazioni sociali sistemiche definibili nel tempo e nello spazio. (M. Colasanto, Le società locali come paradigma (e come paradosso), Studi di Sociologia, 3/1989).
Ed è probabilmente su questo percorso che si potranno verificare le novità più consistenti nell’universo leghista; novità che – secondo gli analisti più avvertiti – rischiano di sovvertire molte delle affermazioni degli studiosi delle culture di “comunità”. Se è vero infatti che il liberismo leghista è anche il prodotto (come afferma P.P. Poggio) della caduta dell’idea di “trascendibilità del reale”, e quindi di qualsiasi ipotesi di trasformazione del sistema capitalista, anche l’impossibile sintesi tra liberismo ed etnocentrismo verrebbe a cadere per trasformarsi in sinergia necessaria. “La pratica anti-universalistica, localistica, etnocentrica in politica e l’accettazione totale di forme di liberismo spinto in economia, sarebbero quindi due aspetti speculari in cui l’assolutizzazione comunitaria del primo serve appunto a compensare gli effetti di straniamento e le sfide all’identità generati dal secondo livello, secondo una logica che caratterizza le più recenti tendenze del capitalismo, in cui liberismo e iper-governo, mondializzazione e messa a valore della comunità si intrecciano e si alimentano a vicenda”. (49)
Sostanzialmente in questa direzione, l’aspirazione all’autogoverno delle regioni del nord sarebbe fondamentalmente il prodotto delle necessità, della volontà dei nuovi ceti produttivi di integrarsi (mantenendo una propria “identità” local-regionale) al massimo livello nella geopolitica più avanzata e realistica dell’Europa degli anni a venire, e cioè nella tanto dibattuta e controversa questione dell’Europa “a due velocità” o a “cerchi concentrici”. Che i partiti storici borghesi, e la stessa sinistra istituzionale e non, non abbiano colto questi processi reali è tutto un altro problema, casomai utile a spiegare in parte la loro decadenza. In particolare appare evidente l’incapacità e la carenza di analisi della “sinistra” istituzionale (ma ancor più di quella neo-istituzionale), nel comprendere le caratteristiche e l’humus politico-culturale del lavoro post-fordista.
Che, invece, la destra radicale tenti di cavalcare queste esigenze operandovi una torsione neoetnica è abbastanza evidente, come del resto confini di inquietante ambiguità sussistono tra le rivendicazioni economico-localistiche e gli intenti neoetnici della destra radicale. Non c’è dubbio, infatti, che questa progressiva regionalizzazione delle economie consente (come ampiamente spiegato sopra) ambiguamente di ridisegnare, rileggere antiche appartenenze che, sorrette dai rinati vincoli familisti (50) indotti dal decentramento produttivo, attraverso suggestioni e falsificazioni, portano a sostenere la rinascita dell’autodeterminazione etnica, e dentro questa la ripresa di vigore della xenofobia, di cui si vogliono interessatamente occultare le radici economiche. Radici per larga parte inscritte nella riterritorializzazione dei processi produttivi e nella crisi e decadenza del welfare e dello “stato sociale”, nella ferina concorrenza per l’accesso alle risorse o alla prestazione di servizi. (51)
Anche se, come è ovvio, la “deriva neoetnica” cerca di darsi un qualche spessore storico, a partire da un “vissuto”, più o meno cosciente, che tiene presente i pericoli di possibili sovradeterminazioni agite dalle destre radicali e istituzionali. Come giustamente osserva Pier Paolo Poggio nel lavoro citato, alle origini abbiamo una “cesura segnata dagli esiti della seconda guerra mondiale e dall’affermarsi generalizzato di un paradigma unilineare della modernizzazione: la sconfitta del nazismo e del fascismo, che aveva fissato in termini impresentabili l’equivalenza razza-nazione respingendo ai margini ogni discorso sulle etnie e il concetto di popolo” (52). Ma indubbiamente il generico cosmopolitismo che ne è seguito, pur avendo i suoi cantori negli scrittori della “modernità”, e avendo nel contempo una sua base storico-economica nell’affermata superiorità dello sviluppo tecnologico-industriale che avrebbe inesorabilmente demolito ogni forma di etnocentrismo arcaico, non teneva presente le profonde e squilibrate forme della diffusione industriale (e quindi le culture sociali che ne discendevano), che andavano a creare gerarchie di reddito e percezioni diverse del mondo all’interno degli stessi ambiti nazionali. Opportunità squilibri e differenze che prima venivano “sfumate” dall’organizzazione verticale ed egualitaria della società fordista, che le riassorbiva (o cercava di farlo) nelle forme della rappresentanza (di classe, di interessi, di ceto ecc.), e che oggi riemergono prepotentemente e orizzontalmente ridisegnando i confini di quegli stessi stili di vita, che sono il prodotto del “posizionamento territoriale come fattore strategico del produrre”. Ed è per questa via, e in concomitanza con la decadenza della società solidale (descritta brevemente all’inizio dell’articolo nella citazione di Lupo Berti) che nella dialettica Nazione-classe assicurava anche la metabolizzazione delle differenze insite nelle “culture popolari”, che i nuovi ceti medi produttivi recuperano, e diffondono socialmente teorizzazioni e “vissuti” neoetnici e, in maniera più inquietante, tendenze al “razzismo differenzialista”, magari recuperando impropriamente (ma non tanto) le teorizzazioni di Claude Lévi-Strauss (vedi Razza e cultura in “Lo sguardo da lontano”, Einaudi, Torino, 1984) che fanno perno non sulla gerarchia biologica (tipica del nazifascismo), ma sulla salvaguardia della differenza culturale (P.P. Poggio, cit.). Lo stile di vita e i livelli di benessere diventano, attraverso questa torsione, caratteristiche insite “naturalmente” nell’etnia, così ridisegnata, e non prodotti storicamente determinati. (53)
E in effetti il nuovo razzismo oggi è interamente “culturalista” e non basato sulle gerarchie biologiche. Questo cambiamento mette in grave difficoltà l’intero universo delle culture anti-razziste delle sinistre che, sopratutto negli ultimi anni, hanno adottato il concetto di “differenza” come uno degli orizzonti di riferimento. Il “differenzialismo” è in effetti un fenomeno sociale del nostro tempo di enorme portata e i cui effetti sono tutt’altro che compresi e indagati (54). Nei limiti di questo intervento si può dire che la storica rivendicazione della sinistra, che optava per il diritto dei popoli (in specie quelli coloniali ed ex coloniali) a vivere e a “svilupparsi” secondo le proprie culture e il proprio stile di vita, che lottava quindi contro l’omologazione al modello occidentale, ha subito, a seguito dei processi di globalizzazione, una mutazione singolare, che sposta la precedente “verticalità” (ad esempio “sviluppato” o “non sviluppato”) basata sull’eguaglianza in una “orizzontalità” che riconosce a tutti i gruppi (etnie o sessi) pari dignità e il diritto (la necessità?) di non mischiarsi. Ed è per questa via che il “differenzialismo” viene fatto proprio dalla nuova destra e da altri movimenti sociali, che elaborano una teoria di opposizione all’ “imperialismo etnicida” (alla mondializzazione). E’ quindi praticamente scomparso il razzismo basato sul “sangue e suolo” per far posto all’insorgente razzismo differenzialista (forte soprattutto in Francia, ma con ampie risonanze in Germania e Gran Bretagna), che riconosce il diritto di tutte le etnie di mantenere integra la propria identità culturale, ma afferma altresì che questo diritto non può essere salvaguardato se esistono più etnie sullo stesso territorio (europeo). Basti pensare a tutte le singolari preoccupazioni che attraversano gli organismi del “privato sociale” (laico e cattolico), nel loro voler difendere e preservare le differenze etnico-culturali degli immigrati, differenze che sarebbero minacciate dal pericolo dell’integrazione e che al contrario occorrerebbe preservare in funzione del radioso futuro di una società multirazziale. Discorso, questo, generoso ma privo di senso perché, come è noto, caso mai gli “immigrati” di tutti “i sud del mondo” nelle società occidentali producono piuttosto una “terza cultura”, che è la somma del ricordo di quella originaria “contaminata” con quella incontrata nei nuovi paesi di “accoglienza” (basti pensare ai beurs parigini o ai rasta londinesi). E mi sembra di poter dire che l’originalità e la forza espressiva di queste culture “diverse” risieda proprio in questa “contaminazione”, e non in una preservazione museale delle origini, che laddove fosse possibile si incrocerebbe in modo inesorabile con le teorizzazioni della destra.
Sostanzialmente il discorso della nuova destra dice le stesse cose che per anni ha sostenuto la nuova sinistra e le porta, secondo Taguieff, a una dignità formale che nella nuova sinistra non è mai stata raggiunta.
10. FRA LIBERISMO ED ETNOCENTRISMO
Scendendo a livelli più locali del nord del paese Italia, e uscendo dagli orizzonti neoetnici, diventa quindi più comprensibile l’operazione “leghista” che “rovescia” e si appropria di alcune categorie storiche della sinistra.
Così il leghista pone al primo posto dei valori la professionalità, l’efficienza, la famiglia e l’ideologia del lavoro. Categorie queste che per lungo periodo sono state anche il patrimonio della sinistra e del movimento operaio organizzato, come del resto alla stessa memoria appartiene la valorizzazione delle culture popolari delle società locali (55), che i leghisti “usano” per restituire o legittimare i vissuti quotidiani dei loro elettori. Il leghismo riconosce questi substrati socioculturali della “sinistra” dentro il panorama del liberismo sfrenato e del mercato che sfocia nella piena accettazione della società e dell’economia capitalistica, mentre, come è noto, sia la cultura del lavoro che il localismo non hanno sostanza senza la dimensione dell’antagonismo e del rifiuto del dominio del capitale – proprio tutto ciò che la Lega non vuole e ancor meno hanno mai voluto i cattolici (56). Ma si tratta, occorre ribadirlo, di risposte, di necessità insite nel profondo sconvolgimento intervenuto nell’universo della produzione, delle professioni e, in definitiva, nella capacità agita dal capitale di intervenire sulla “classe” dei produttori scomponendola e rideterminandola altrove, “involontariamente” creando un’apparente contraddizione al proprio interno.
Una contraddizione che va molto al di là del fenomeno “localistico”, perché tende a investire il più vasto strato degli addetti alla produzione di qualsiasi ordine e grado. Tende, cioè, a essere l’espressione politica di quella che abbiamo fin qui definito “nuova configurazione economica”. Fino alla necessità di interrogarci sulla possibilità che la fine del sistema fordista non produca in sé un orizzonte dominato, questo sì, da “un tratto fisiognomico” che potremmo definire, insieme a Paolo Virno, “fascismo postmoderno”: “Il fascismo europeo di fine secolo è il fratello gemello, ovvero il ‘doppio’ agghiacciante, delle più radicali istanze di libertà e di comunità che si dischiudono all’interno della cooperazione lavorativa postfordista… non è un feroce addentellato del potere costituito, ma una possibile configurazione del ‘potere costituente’ popolare… il fascismo postmoderno ha la sua radice nella distruzione della sfera lavorativa in quanto ambito privilegiato della socializzazione e luogo di acquisizione dell’identità politica.” (57)
11. UN NUOVO “TERZO STATO”
All’interno di questi esiti si produce la crisi storica delle “forme di rappresentanza”, del “sistema dei partiti” e del concetto di “sovranità” così come li abbiamo conosciuti e vissuti nell’ultimo secolo. Crisi puntualmente registrata (e con largo anticipo) dalle élites sovranazionali, se un grosso esponente della Trilateral Commission come S.P. Huntington poteva affermare, nel lontano 1975: “… i sintomi della decomposizione dei partiti potrebbero essere interpretati come presagio, non tanto di un nuovo schieramento dei partiti nel quadro d’un sistema in sviluppo, quanto piuttosto d’un fondamentale deperimento e d’una potenziale dissoluzione del sistema partitico. Sotto questo profilo, si potrebbe affermare che il sistema partitico ha attraversato un processo lento, divenuto oggi più rapido, di disgregazione. Per suffragare questa proposizione, si potrebbe sostenere che i partiti rappresentano una forma politica particolarmente adatta alle esigenze della società industriale (così come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo secolo, n.d.r.) e che quindi l’avanzata di una fase diversa di organizzazione della produzione implica la fine del sistema dei partiti politici quale finora l’abbiamo conosciuto”. (58)
In questa direzione, gli obiettivi dei leghisti sono ambiziosi e tendono a porsi quasi come classe generale ricordando, nel loro essere separatisti, le tesi del buon Edmond Joseph Sieyès (59) quando, nel difendere le ragioni della borghesia (del Terzo Stato), affermava che la Francia non era una Nazione perché le leggi erano stabilite dal “sistema della corte”, mentre il funzionamento dello stesso era assicurato per i nove decimi dall’esistenza, appunto, del Terzo Stato. Quindi si tratterà di dire, come farà il Terzo Stato: “Noi non siamo che una Nazione in mezzo ad altri individui. E’ vero. Ma la Nazione da noi costituita è la sola a poter effettivamente costituire la Nazione. Noi non costituiamo, da soli, la totalità del corpo sociale. E’ vero, ma siamo capaci di garantire la funzione totalizzatrice dello Stato. Noi forse siamo capaci d’universalità statale”. Basta sostituire la nobiltà, l’arbitrio reale di Sieyès con il corrotto sistema dei partiti e aggiornare la critica al “centralismo”, perché l’ingenuo e però efficace background leghista trovi un qualche insospettabile antenato.
E in effetti il leghismo, dopo avere pericolosamente (e rozzamente) cavalcato una tendenza scissionista (peraltro frequentemente agitata), ha cominciato a porsi proprio come forza rinnovatrice della “democrazia” contro il precedente “sistema” corrotto e in decadenza. Gli stessi tentennamenti tenuti dalla dirigenza leghista nella Commissione Bicamerale per le riforme assumono proprio questa torsione neo-democratica e liberista che rimanda ancora a Sieyès. Ormai non è più sulla base o in nome d’un diritto passato (quello “vecchio” del sistema dei partiti) che si articolerà la rivendicazione. La rivendicazione potrà articolarsi piuttosto su una virtualità, su un avvenire che è imminente e già inscritto nel presente. Nelle intenzioni leghiste questa funzione viene vissuta come già operante, assicurata da una “Nazione” nel corpo sociale, e che proprio in nome di ciò chiede che il suo statuto di Nazione unica sia effettivamente riconosciuto e riconsiderato nella forma giuridica dello Stato.
Ma sono i contenuti di questa supposta “Nazione” ad essere inquietanti. Sopratutto in alcuni percorsi “colti” di Gianfranco Miglio, da dove traspare un’implicita volontà di negare, in tutto o in parte, il progetto di emancipazione della modernità (l’universalismo dei diritti e il nucleo normativo dell’ ’89); “a negarlo in primo luogo per ‘gli altri’, ma in una certa misura anche per sé, come condizione per il recupero di quella identità collettiva, di quella ‘appartenenza’, considerata evidentemente come un valore politico superiore.” (60)
Il federalismo rivisto diventa così un utile passe-partout per veicolare progetti molto più ambiziosi (61). Progetti che riguardano l’assetto complessivo dello Stato (come nella teoria delle tre Leghe, nord, centro, sud): “E’ assurdo e offensivo per i suoi aderenti sostenere che essi non sanno o non sono consapevoli del radicale mutamento nell’assetto statale perseguito dal movimento di cui, a vario titolo, fanno parte. Non è questione di ingegneria costituzionale o di tattica politica, il problema riguarda lo Stato così come risulta dai programmi, dalla strategia e dall’azione concreta della Lega”. (62)
La crisi irreversibile della democrazia rappresentativa è interpretata, in Italia, dalla Lega e dal composito schieramento referendario. Sono risposte tra loro diverse, anzi concorrenziali, ma entrambe fanno coincidere il deperimento della rappresentanza con il restringimento della democrazia tout court. Non si tratta certo di posizioni “fasciste”, bensì di progetti che, nella misura in cui si realizzano, determinano uno spazio vuoto, o meglio, una terra di nessuno in cui il fascismo postmoderno può crescere. (63)
12. CERCARE UN’ARMA
“La nave dello spettacolo viaggia solo a pieno carico: abbandonarla è il solo modo praticabile per farla marcire”.
(da Critica del Presente, di anonimo, Milano, Ottobre 1992)
Probabilmente, se avessimo la capacità di pensare globalmente per agire localmente, e non viceversa, alcune anguste analisi e altre ancestrali paure svanirebbero, costringendo tutti ad affrontare il nuovo con quegli strumenti rinnovati e le intelligenze rigenerate indispensabili a individuare i “luoghi” possibili del conflitto, senza il quale l’iniziativa rimarrà comunque all’avversario di sempre. In questo senso, le “nostalgie” per le “comunità reali” perdute e il rimpianto per “come eravamo bravi, determinati e intelligenti” appaiono come inconsce o consce falsificazioni regressive. L’autodeterminazione passa oggi per sentieri angusti e impervi, a partire dal riconoscimento delle differenze di identità che aspirino, però, a processi continui di “contaminazione” – quindi attraverso la ricerca di un modulo di cooperazione che esuberi lo scambio contrattuale tra eguali, ma non si annichilisca nella eliminazione reciproca delle differenze (P. Virno, cit.), di forme di “democrazia senza maggioranza” (e di conseguenza di democrazia non rappresentativa) da sperimentare quotidianamente in ogni sia pur piccolo luogo di aggregazione e sperimentazione sociale. Inventando i nuovi percorsi della cooperazione dentro e contro le precedenti “apparenze”. Di nuovo con Paolo Virno (e ricordando dialetticamente Marx), oggi bisogna dire: “la forza lavoro post-fordista non può perdere le sue qualità di non lavoro ossia non può smettere di partecipare a una forma di cooperazione sociale più larga della cooperazione capitalistica – senza smarrire a un tempo le sue virtù valorizzatrici”.
Le illusioni di “incontaminata” e drammatica separatezza creativa delle “opposizioni ’80” sono state indubbiamente una generosa necessità, sono state “il sale della terra” di un sociale distruttivo dominato dalla transizione postindustriale; una loro riproposizione compiaciuta, narcisistica e impotente non potrà che essere una tragedia della marginalità.
E se è indubbiamente motivo di orgoglio e di identità la constatazione che le “culture del ghetto” hanno innovato la scena morente della comunicazione artistica e musicale, ciò nondimeno il loro zenit di affermazione e il loro massimo di “recupero” segnano la soglia oltre la quale occorre riattivare il “divenire” dei soggetti verso nuove “fughe” e “fratture” con l’esistente. E, in effetti, “Il grande errore, il solo errore, sarebbe quello di credere che una linea di fuga consista nel fuggire la vita; la fuga nell’immaginario o nell’arte. Ma fuggire al contrario significa produrre il reale, creare vita, trovare un arma”. (64)
Con ciò mantenendo, ovviamente, una serena e profonda diffidenza. Ci ricorda Daniel Guérin nel suo La peste bruna:
E infatti, quando le luci non saranno ancora spente, si leverà nella camerata, da cinquanta petti sonori, un vecchio canto di vagabondi, che il nazista intona con uguale convinzione del socialista o del comunista:
Quando noi camminiamo fianco a fianco e cantiamo le nostre vecchie arie, che i boschi ci rimandano in eco, allora lo sentiamo, bisogna che succeda:
Assieme a noi vengono i tempi nuovi! Assieme a noi vengono i tempi nuovi!
NOTE
44) Per altri versi e con risultati diversi qualcosa di simile è stato fatto nei confronti del fenomeno skinhead (In tutta la nota, Moroni pare riferirsi a quelli che oggi sono noti come boneheads. Nel 1993 la distinzione non era così precisa, N.d.R.). La sottocultura skinhead esiste da decenni (a Londra dal 1969) e ha per lungo tempo “convissuto” con le altre sottoculture giovanili emerse dopo la dissoluzione dei movimenti politici degli anni ’70. E’ stata ed è caratterizzata dalla cosiddetta “rivolta dello stile”, cosi come del resto quella punk. Una certa xenofobia è sempre stata sua caratteristica peculiare (a Londra contro i Giamaicani), ma la stessa è stata piuttosto il prodotto di una concorrenza per l’accesso alle scarse risorse dello Stato assistenziale nell’epoca del suo tramonto che non ideologicamente elaborata (questo spiega ampiamente l’espandersi del fenomeno nella Germania Est dopo la caduta del muro di Berlino). In Italia il fenomeno skin è stato irrilevante e ha preso una sua torsione più decisamente di destra a seguito del fenomeno dell’emigrazione. Gli skin hanno, per così dire, trovato un nemico. Ed è su questo sentimento che ha avuto facile presa la propaganda dell’estrema destra (non di tutta) che si è messa a organizzarli e a politicizzarli. Fino a un anno fa gli skin non sapevano nemmeno cosa fosse l’antisemitismo e ho seri dubbi che lo sappiano oggi. Ma l’antisemitismo, come è noto, è la sintesi di tutti i razzismi perchè basa la sua forza sull’opposizione storicamente prodotta contro un popolo-classe: “gli ebrei costituiscono nella storia prima di tutto un gruppo sociale avente una funzione economica determinata . Essi sono una classe, o meglio ancora, un popolo-classe”. (Nathan Weinstock, Abram Leon e la sua opera, in “Il marxismo e la questione ebraica” di Abram Leon, Savelli, Roma, 1972). Il testo di Leon (un giovane marxista ebreo morto ad Auschwitz nel 1945) può essere oggi utilmente riletto per evitare tutte le confusioni idealistiche e astratte che vengono tuttora assegnate “alla questione ebraica” e ciò, frequentemente, anche con la interessata complicità delle lobbies ebraiche. Qui possiamo dire con Marx che “non cercheremo il segreto dell’Ebreo nella sua religione, ma cercheremo il segreto della sua religione nella realtà dell’Ebreo”. In questo accettando dialetticamente Sombart quando, per spiegare lo spirito commerciale degli Ebrei, chiosa il Talmud: “Darai in prestito a tutti i popoli, ma non prenderai in prestito da nessuno”. (Deutoronmio 15.6), “il giusto ama più il suo denaro che il suo corpo” (Rabbi Eleazar) e, per finire, Rabbi Isacco esorta: “Che l’uomo faccia sempre circolare il suo denaro”. Indubbiamente la funzione storica di un “popolo-classe” senza Stato è stata essenzialmente di tipo economico-commerciale e ha cominciato a confliggere con altre componenti sociali, in concomitanza con la formazione di una classe commerciale e industriale indigena (in Europa occidentale a partire dal XII secolo) e nazionale. Da questo momento in avanti, le persecuzioni degli Ebrei assumono forme sempre più violente che tendono alla completa eliminazione dalla gran parte dei paesi europei. L’antisemitismo cristiano dei primi dieci secoli dell’era cristiana non è mai arrivato al punto di domandare l’annientamento del Giudaismo, mentre perseguitava senza pietà pagani ed eretici. L’accusa di “deicidio” verrà loro rivolta solo quando il Cristianesimo, che era all’origine la religione degli schiavi e degli umili, fu rapidamente trasformato in ideologia della classe dominante dei proprietari terrieri.
45) Si veda ad esempio il recente Congresso della Liga Veneta dove Bossi ha fatto piazza pulita (non senza produrre sconcerto fra i presenti) dei sovraccarichi folkloristici di neo-etnicità particolarmente presenti in quello spezzone della Lega Nord. (Giovanni Pajetta nel quotidiano Il manifesto del 8/11/92: Sono finiti i tempi del “restemo veneti”. Bossi spiazza la Liga a congresso.
46) G. Miglio, introduzione a La Lombardia moderna, Electa, 1989.
47) Vedi Noi provincia d’Europa. Colloquio con Hans-Dietrich Genscher, a cura di Antonio Gambino, in L’Espresso del 27/12/92.
48) Vedi Pier Paolo Poggio, La Lega secondo natura, in rivista Iter n. 5. Nella sua relativa brevità il lavoro di P.P. Poggio rappresenta un’utilissima griglia di lettura su tematiche quali il “nuovo populismo”, il razzismo differenzialista e i concetti di razza, Stato, nazione, etnia. Più in generale il lavoro di Poggio ci sembra uno dei tentativi più completi di dare spessore storico e teorico all’emergere della questione leghista.
49) Liberamente citato da L’identità negata. Dove nasce la doppia faccia del leghismo, di Marco Revelli, in Il manifesto del 16/2/93, a seguito del convegno Etnos e Demos tenutosi a Milano alla Camera del Lavoro nei giorni 28 e 29 Gennaio 1993.
50) Il 20% delle famiglie italiane, per la quasi totalità residenti nel nord del Paese, detiene l’82% dei titoli pubblici e il 71% delle attività finanziarie complessive delle famiglie e dispone di almeno 50 milioni di liquidità corrente. La metà circa di queste famiglie risiede in città medie o grandi (oltre i 40.000 abitanti, ma un altro 38% risiede in piccoli centri (fino a 20.000 abitanti). Giuseppe Gario le definisce lo “zoccolo duro” dei creditori dello Stato italiano e sottolinea che non necessariamente sono in possesso di un titolo di studio elevato. Ad esempio un terzo dei titoli di Stato appartiene a famiglie con capofamiglia in condizione non professionale e un altro terzo è detenuto da famiglie con capofamiglia con sola licenza elementare.
51) A questo proposito si veda la incisiva griglia di lettura fornita da Guido Ortona nel suo: Principi economici e xenofobia, per un’analisi economica dell’efficacia delle politiche in materia di immigrazione, contenuto in “Immigrazione e diritti di cittadinanza”, CNEL-Università Bocconi, Editalia, Roma, 1991.
52) A titolo indicativo ma pregnante, si può osservare che nel dopoguerra si è verificato un curioso tentativo, una specie di battaglia lessicale per espungere dai propri dizionari il termine “razza”. Per cui si vedrà il Larousse rintracciare l’origine della definizione nella lingua italiana che lo eredita dal latino “ratio”, e viceversa il Grande Dizionario Battaglia che lo assegna a un termine francofono che significa “stalla”, e cioè il luogo dove si tengono gli stalloni e le giumente per riprodurre razze pure.
53) D’altronde gli stessi concetti di razza e di etnia sono usati frequentemente in maniera disinvolta e superficiale. Nei limiti di una nota si può precisare che la definizione di “semita” è quanto è quanto mai vaga e deriva dalla tradizione biblica giudaico-cristiana (i figli di Sem nella Bibbia), con la quale si definiva un insieme di tribù e di etnie abitanti un determinato territorio mediorientale. In questo senso la gran parte degli arabi (palestinesi, ebrei, giordani, ecc.) sono semiti. In realtà gli ebrei si dividono in “sefardim” (quelli di pelle scura o di origine spagnola) e in “askenazim” (dal nome con il quale gli ebrei indicavano la Germania). Più in generale, le possibili definizioni di razza possono essere ristrette a quattro grandi aree: il negroide o negro, il bianco arcaico o australoide, il caucasico o bianco, il mongoloide. E’ preferibile definire questi quattro grandi gruppi del genere umano come gruppi maggiori piuttosto che come razze, e definire come gruppi etnici la varietà degli uomini che formano questi gruppi maggiori. D’altronde il termine “etnologia” ha subito negli ultimi duecento anni una tale quantità tale di modifiche interpretative da rendere ardua una sua definizione univoca. Vedi M.F.A. Montagu, La razza, analisi di un mito, PBE, Einaudi, 1996, Torino.
54) In questa direzione di fondamentale importanza appaiono i lavori di Pierre-Andre Taguieff di cui, in Italia, la rivista Problemi del Socialismo ha pubblicato il saggio Riflessioni sulla questione antirazzista, che fa riferimento al ben più corposo La force di préjugé uscito in Francia per i tipi di Gallimard e a due saggi (Face au racisme) usciti per La Découverte.
55) Si pensi a tutta l’attività dell’Istituto De Martino, che nelle culture delle classi popolari leggeva una relativa indipendenza e originalità rispetto alle culture dominanti borghesi e che, proprio per questo motivo, le vedeva portatrici di un’istanza di per sé rivoluzionaria e non omologabile al sistema dominante. In questa direzione nascono i lavori di Montaldi, di Bosio, Bermani, Portelli, ecc. e tutta la tradizione italiana e internazionale della oral history. Ma appunto in De Martino “la valorizzazione dell’economico, la valorizzazione del mondo del lavoro è ripresa in una prospettiva dal basso e antagonistica che si colloca in un altro versante rispetto all’esaltazione del lavoro sussunto al capitale aperta nel corso del secolo e ancora oggi dalle diverse varianti di populismo lavorista”. Vedi Pier Paolo Poggio, La Lega secondo natura in rivista Iter n.5. Per un’esposizione completa della riflessione, vedi direttamente: Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 1977.
56) Si veda per esempio la progettualità di Comunione e Liberazione. che sulla “riscoperta” della cultura popolare e sulla difesa delle società locali aveva fatto un lungo percorso a partire dalla metà degli anni ’70. Non è casuale che molte delle aree in cui si è verificato il successo della Lega siano le stesse dove emerse Comunione e Liberazione.
57) Vedi Paolo Virno, Tesi sul nuovo fascismo europeo (stesura provvisoria), di prossima pubblicazione sulla rivista Luogo Comune.
58) In La crisi della democrazia, Angeli editore, Milano, 1977.
59) Pubblicista, uomo di Stato e protagonista della Rivoluzione francese, per poi finire a fianco di Napoleone.
60) Dall’intervento di Davide Bidussa al convegno Etnos e Demos citato in M. Revelli (nota 49). Bidussi aggiunge: “E’ un processo non solo italiano: fenomeni non del tutto dissimili attraversano le comunità nere d’America, le comunità ebraiche, in parte la cultura delle donne, ovunque si esprima resistenza allo sradicamento”.
61) Per un’esposizione più organica dei percorsi di Sieyès e in generale sulla problematica di Stato e Nazione, vedi: Totalità nazionale e universalità dello Stato, in M. Foucault, “Difendere la società”, ed. Ponte alle Grazie, Firenze, 1990. C’è da dire che l’importanza di questo testo non è stata ancora valutata appieno proprio nelle parti in cui consente di “rileggere” con una “filigrana” rinnovata i processi sociali in corso oggi.
62) Pier Paolo Poggio, art. cit.
63) In Paolo Virno, testo cit. Al di là delle citazioni qui riportate (per alcuni aspetti leggermente arbitrarie), raccomandiamo una lettura attenta di questo breve documento, esemplarmente lucido nella sua sintetica complessità
64) Gilles Deleuze, Un nuovo tipo di rivoluzione sta per diventare possibile, in rivista Marka n° 28, Urbino, 1990.
NOTA CONCLUSIVA DI CARMILLA
[Se qualcuno si è preso la briga di paragonare il testo da noi pubblicato con quello, in pdf, presente nel sito di Vis-à-Vis, si sarà accorto che abbiamo fatto un certo lavoro di editing (purtroppo senza poter consultare l’autore). Per un equivoco di un redattore di Vis-à-Vis, Gioacchino Toni, oggi caro collaboratore di Carmilla, il saggio fu pubblicato sulla rivista in bozze, e non nella stesura definitiva; così risulta anche nel pdf. Comunque risistemarlo un poco è stato un lavoro lunghetto ma entusiasmante: a ogni riga scintillava la vivida intelligenza di Primo Moroni, capace di cogliere e interpretare con stupefacente precisione, nel 1993, fenomeni oggi ancora in atto. Questo vuole essere un invito, rivolto a qualche editore coraggioso, perché pubblichi un’antologia degli scritti di Moroni dispersi in una galassia di riviste. Nel frattempo, un lettore che non conosca di chi parliamo può forse ancora procurarsi, on line, la sua straordinaria autobiografia curata da Cesare Bermani, Da Don Lisander alla Calusca, cercare indicazioni su Wikipedia, visitare la libreria e l’archivio conservati presso il centro sociale Conchetta (Cox 18) di Milano.] (V.E.)
(3-FINE)