I casi della vita non mi permettono di avere fiato da mesi e, quindi, di non riuscire a scrivere adeguatamente dei libri che ritengo importanti.
Tra i libri che ritengo importanti, usciti in questo ultimo semestre, mi pare abbastanza fondamentale Il giorno dell’indipendenza di Letizia Muratori, edito da Adelphi (15 euro). Chi desiderasse conoscere la trama, può farlo cliccando qui. Posso permettermi qualche superficiale osservazione, che vorrei tanto corroborasse la fiducia nella scrittura di questa autrice per me straordinaria. Seguo con non malcelato interesse il percorso narrativo (che ora non so nemmeno più se qualificare in questo modo) di Letizia Muratori, giunta, con La casa madre (qui la mia recensione), a un per me evidente salto quantico, per il lavoro effettuato sulle strutture e per l’impressionante raggiungimento di uno stile di “grado zero”, possibilità concessa soltanto a chi abbia la capacità di percorrere e praticare ogni stile.
Il giorno dell’indipendenza, per quanto apparentemente distante dalle ambientazioni e dalle location del romanzo precedente (poiché di romanzo, od oggetto narrativo, si trattava: non tanto nonostante, ma proprio per il fatto che era costruito sull’incrocio ambiguo di due racconti, non perfettamente speculari), porta a estreme latitudini la tematica dell’affetto al trauma che è l’umano tutto, cioè l’occhio ciclonico di entrambi questi libri. Se nella Casa madre Muratori conduceva agli estremi linguistici e figurali la meditazione sulla dipendenza dal trauma, e sulla propria dipendenza dal linguaggio anzitutto, ne Il giorno dell’indipendenza giunge letteralmente a quanto dichiara il titolo, cioè all’indipendenza dal letterario e alla possibilità di sporgersi allusivamente oltre l’assenza dell’umano. Questa è la narrazione letterale, costruita sì per metafore (non per allegorie), però tali che o vengono prese alla lettera oppure impongono la percezione di un mancato nitore e di una ricaduta in chissà quale estetico. Il lettore è (non mi è possibile evadere dall’avverbio ancora una volta) letteralmente lasciato da solo e, se il libro non è compreso (e non mi affido a una capacità cognitiva o semplicemente emotiva), la colpa è del lettore stesso. Muratori giunge all’ininterpretabilità che è lo stesso movimento dell’interpretazione.
La dipendenza da cui tenta di sottrarsi a forza il non-personaggio Giovanni, apparentemente escavato nella sua psicologia che però è una sociologia, è una forma universale che potrei semplicemente riassumere così: l’umano è dipendente in quanto è virale, se non trova un organismo ospite non sopravvive. Gli organismi ospiti che Muratori [nella foto a fianco] allinea, secondo una struttura a onda, che definire spiazzante sarebbe un torto nei confronti del libro, sono: le relazioni, il monologo mentale interno all’umano, l’ambiente inteso come totalità della cultura umana, la natura intesa come possibilità di negativo dell’umano perché testimonia della onnipresente capacità del mondo di essere indifferente alla scomparsa del fenomeno umano stesso. In definitiva, l’ontologia del linguaggio, e quella morbosa secrezione di difesa psichica che è l’idea stessa di stile, viene qui trascesa di colpo. L’eccezionalità autoriale di Muratori sta nella facilità di tale trascendimento: la scrittura de Il giorno dell’indipendenza è palesemente un testo che deve essere costato una fatica immane in stesura, poiché in ogni nesso, in ogni particola linguistica, in ogni sonorità anche microscopica è abolita la cattiva dualità del piacevole vs. il non-piacevole. Il risultato, però, è che ci si scorda perfino della possibilità della fatica, e della fatica umana in primis.
Il giorno dell’indipendenza è l’opera più prossima a Body Art e Cosmopolis di Don DeLillo (da cui Cronenberg trarrà il suo prossimo film), cioè alla svolta di una letteratura che è davvero di avanguardia, senza giochi linguistici che ne giustifichino lo statuto avanguardista. Questa scrittrice, che è un immenso patrimonio (e anche un importante matrimonio) della nostra narrazione aperta, sta esplorando per tutti noi piste innevate non calpestate da orma alcuna. La sua stella polare mi pare identificabile in Kafka, altro scrittore in cui l’apparente interpretabilità conduce alla frustrazione continua. C’è un passo dei Diari kafkiani che mi ricorda moltissimo l’opera che Letizia Muratori sta compiendo di libro in libro, secondo una progressione che, sfondando la propria indipendenza (e, quindi, quella del lettore), non so francamente dove condurrà, ma so che condurrà lontano, in zone che diverranno praticabili per ogni altro autore:
“Dimenticai di aggiungere, e in seguito lo omisi apposta, che quanto di meglio ho scritto ha il suo fondamento in questa mia facoltà di morire contento. In tutti quei passi buoni e convincenti si tratta sempre di qualcuno che muore, a cui la morte riesce molto difficile e in ciò è contenuta per lui un’ingiustizia o almeno una durezza sicché il lettore, almeno secondo la mia opinione, ne rimane commosso. Per me invece, che credo di essere contento sul letto di morte, quei racconti sono un gioco segreto, tanto è vero che sono lieto di morire col morente, sfrutto quindi volutamente l’attenzione del lettore concentrata su quella morte e mi conservo la mente più lucida di lui che, secondo me, si lamenterà sul letto di morte. Perciò il mio lamento è più perfetto che mai e non prorompe improvviso come un vero lamento, ma si svolge in limpida bellezza”.
Il passo di Kafka per me descrive tutto il movimento di scrittura di Letizia Muratori, che personalmente è un’autrice vitalista, ma per cui è propriamente vitale il confronto con la naturale scaturigine di ogni allusione, e cioè l’ineffabilità della morte e la possibilità che si levi l’ultimo gesto umano, e cioè il lamento in cui ha estremo asilo la bellezza del nitore.
Non pratico nessuno spoiler, riprendendo alcune righe finali de Il giorno dell’indipendenza, che dovrebbero a mio parere evidenziare il carattere kafkiano del movimento messo in atto in scrittura da Muratori:
“Tu sei diventato il mio unico testimone silenzioso. Qualcuno più onesto di noi direbbe che sei diventato mio complice, ma noi non siamo onesti e sappiamo che il paradiso inizia proprio dove finisce, è l’istante in cui ti cacciano, un istante che si ripete all’infinito e così siamo sempre bloccati sulla soglia come capita ai maiali quando vedono le ombre al posto delle cose. Vedi, il problema non è tornarci in paradiso, ma riuscire a venirne fuori una volta per tutte. Se ti scrivo solo oggi e non ti risponderò domani, è perché festeggio il nostro giorno dell’Indipendenza, il resto sono solo lotterie, bandiere che sventolano e fuochi che esplodono sulla mia infanzia a Philadelphia”.
Si accosti questo passo di una lettera datata 4 luglio 2009, cioè l’effettivo giorno dell’Indipendenza statunitense, all’approccio di Karl Rossman al Teatro Naturale di Oklahama in Amerika di Kafka, e probabilmente si comprenderà cosa si cela dietro e soprattutto dentro la percezione di questa narrazione breve, soltanto apparentemente misteriosa seppure non incantevole o semplicemente enigmatica (qui l’aggettivo è usato secondo la lezione benjaminiana). Il libro è altro da ciò: è l’autentico racconto universale: indifferentemente lirico o epico, soggettivo od oggettivo, nitido o polveroso, linguistico o a-linguistico – e ciò perché l’indipendenza raggiunta da Muratori è uno stato coscienziale da cui le forme nascono senza necessità di afferire a una qualunque ideologia ispirazionista. Siamo a livello degli archetipi e l’aria che si respira è eminentemente platonica (la metafora letterale dei maiali che vedono ombre al posto delle cose è, per quanto avverto io, il rifacimento naturale di un gesto arcaico riproposto nel presente: l’esposizione del mito della caverna di Platone in due righe). Così pure si dica della “lotteria”, che qui vale come archetipo nel contemporaneo e, al tempo stesso, come rilettura non solo tematica di un topos di certa letteratura post-romantica.
Il battesimo di Giovanni e la maternità vuota di Mary sono un’implicita sentenza storica che viene partorita da qualcosa di non storico, quale è a tutti gli effetti lo stato coscienziale a cui e da cui allude (e che con tutta evidenza vive) Letizia Muratori, una delle nostre autorialità decisive in questo tempo.